Stegal67 Blog

Friday, June 21, 2013

Se non fosse per quella maledetta passionaccia... (6 di 8)

Al bar dello sport

Da qualche parte, in qualche posto nella rete, dovrà pur esserci una classifica dei film a carattere sportivo più motivanti (o motivazionali), più adrenalinici e più coinvolgenti. Ogni sport ha il suo, o i suoi. In una simile classifica potrebbero trovare posto “Running the brave”, o “Miracle on Ice”, o “Hoosiers” solo per citarne alcuni che si riferiscono ad eventi sportivi veri e propri. Oppure “Cool running”, che insomma non finisce proprio come racconta il film ma va bene lo stesso. O “Rocky”, che è ispirato ad un pugile veramente vissuto, ma che sicuramente non è assurto ai fasti del Balboa cinematografico (ma se la colonna sonora “Eye of the tiger” parte ad ogni lancio di staffetta dei campionati italiani, un motivo ci sarà!). Ogni sport ha avuto il suo film. Ogni sportivo ha la sua classifica.

Ma se ora, qui, adesso, in questo momento… io citassi “Al bar dello sport” con Lino Banfi e Jerry Calà? Posso già sentire le risate di scherno che arrivano fino alla mia vituperata casetta. Posso già vedere le statistiche dei lettori di questo blog che si spengono fino a toccare le poche unità di santi e sante che si sorbiscono fino in fondo l’amarissimo calice dei miei sproloqui. Posso persino vedere i volti di qualche affezionato lettore atteggiarsi ad una espressione “questo si è definitivamente fumato il cervello”… Però, se avete pazienza, seguitemi.

Prima di tutto smarchiamo un concetto fondamentale, talmente lampante che talvolta lo si perde di vista per pura abitudine: in ogni sport, in ogni competizione, c’è l’atleta che occupa il primo posto e l’atleta che occupa l’ultimo posto. E’ un dato di fatto: c’è una classifica, c’è un ordine di merito; c’è il primo posto e c’è l’ultimo posto. Un altro dato di fatto è che il primo posto arride ad uno solo alla volta: tutti gli altri non sono arrivati primi. Tutti gli altri se ne devono fare una ragione. Tutti gli altri devono puntare su un altro giro di roulette: potranno allenarsi di più, potranno utilizzare attrezzature migliori, potranno crederci di più! E forse avranno qualche chances in più di farcela… ma il successo, il primato, la vittoria… questi arridono ad uno solo alla volta.

Scrive uno che qualche gara (minore) l’ha vinta, ma tante tantissime volte di più è arrivato dietro, se non in fondo o in fondissimo o all’ultimo posto in classifica. Tutte le volte che sono arrivato ultimo mi sono chiesto tre cose: che cosa avrei potuto fare per migliorare, se in gara avevo dato tutto quello che potevo, e se avrei preferito essere all’ultimo posto in quella competizione o avere una posizione migliore in una categoria più accessibile. Non sempre ho avuto risposte alla prima domanda, e ho dovuto ammettere che non sempre in gara ero riuscito a dare il massimo di me stesso. La terza domanda ha avuto sempre la stessa risposta, e corrisponde alla prima parte del periodo.

Non si tratta di una forma auto-assolutoria, credo, quando di un confrontarsi ed un voler dare evidenza ad una realtà lapalissiana: per uno che vince, ce ne sono tanti che perdono. Piacerebbe a tutti che il nostro campione preferito vincesse sempre e dovunque, passando da un successo all’altro senza soluzione di continuità… che barba, che noia… CHE PALLE! Essere umani, nello sport, non vuol dire conquistare vittorie al ritmo di una slot machine; vuol dire cercare di migliorarsi, cercare di dare sempre il proprio meglio e infine farsi un esame di coscienza tutte le sere. E assolversi, se è il caso. Oppure condannarsi a qualche sacrificio in più l’indomani.

Allo stesso modo, chi tifa da casa guardando la televisione, o stando ai bordi del campo di gara, dovrebbe sempre ricordare che in ogni confronto c’è un proprio simile che sta guardando lo stesso evento in un’altra casa, o stando seduto in un’altra tribuna, che pensa le stesse cose e soffre in uguale quantità. Che ha il diritto di vedere il proprio beniamino o la propria squadra vincere come lo abbiamo noi. Perché dunque assistiamo giorno dopo giorno allo “spettacolo” delle contestazioni, degli incidenti, degli insulti, delle critiche gratuite? Non nascondiamoci sempre dietro al fatto che anche lo sport è lo specchio della società moderna, perché la cosiddetta “società moderna” siamo sempre tutti noi, ognuno di noi. Forse che qualcuno di obbliga a contestare sempre, scatenare putiferi, insultare e criticare a vanvera questo e quello per un risultato non raggiunto o un piazzamento non prestigioso? Vale sempre quello che diceva… boh? Einstein?... “Affinché al mondo ci sia un idiota di meno, è sufficiente che io non lo diventi”.

Cosa c’entra tutto questo con “Al bar dello sport”, Lino Banfi e Jerry Calà? Calma. Ci arrivo. La santità tra i lettori dei blog non la si guadagna così facilmente, arrivando alla fine di un (bellissimo peraltro) post di Dopolav-ori. Se, giunti davanti a San Pietro, vorrete scavalcare tutta la coda e sedervi sulla nuvoletta con Dario P., con Larrycette, Ori-Giulio e compagnia, allora mi sa che dovete bere l’amaro calice fino in fondo.

La mia personale morale di tutto quanto scritto sopra è che, quinti al “redde rationem” del risultato finale, bisogna avere il coraggio di valutarsi e di valutare, di assolversi quando occorre e di assolvere quando serve. Vorrei avere un euro per tutte le volte che ho pensato ad Alexi Lalas che aveva affrontato vis-à-vis i tifosi inferociti del Padova dicendo “Ehi, ragazzi! Abbiamo perso ma abbiamo fatto del nostro meglio, cosa potevate chiedere di più?”. Assolversi con coscienza significa essersi guadagnati un’altra notte di sonno e un’altra giornata di motivazioni positive. Assolvere con coscienza significa avere rispetto per gli sforzi del nostro campione o della nostra squadra preferita e avere capito che lassù in alto, in cima a quella bene\maledetta classifica, c’è sempre solo posto per uno solo.

Perdonare è ciò che non sempre siamo in grado di fare. Essere incapaci di perdonare se stessi è una punizione che ci auto-infliggiamo, fino a farla diventare una delle peggiori punizioni che possiamo patire. Qualcuno può arrivare a pensare che andare nel bosco “a freddo” per un percorso MA, fosse anche quello della gara regionale della JTT ad Andalo, quando si sono passati i 45 anni ed i chili sono quelli dell’impiegato panzottello, possa sembrare una punizione più fisica che mentale; ma persino le meravigliose peonie rosa che abbiamo trovato lungo le prime tratte, nella parte alta delle lanterne dove sono passati solo i percorsi assoluti, si sono accorte che in quella gara il patimento fisico era ben lungi dall’essere paragonabile a quello mentale…


Ma adesso arriviamo a “Al bar dello sport”. Un B-movie tutto sommato stereotipato, con un Banfi-sfigato nella parte del poveraccio vessato dalla vita ed un Calà-macchietta ancora più sfigato (rimasto muto dopo aver perso tutto al poker) che trovano l’unico motivo di sfogo nella compilazione della schedina, e un ulteriore motivo di tristezza nel tredici al Totocalcio che, domenica dopo domenica, non arriva mai. La storia dovrebbe essere nota: Banfi viene convinto da Calà a giocare una “fissa anomala”, un “2” secco su Juventus-Catania in una schedina compilata per i restante 12 risultati tutta da Banfi. La scena di Banfi che segue i risultati in diretta a “Domenica IN” lo vede avvicinarsi sempre più all’agognato “13” man mano che ci si avvicina al novantesimo minuto; unico risultato errato in tutta la schedina resta il maledetto “2” di Juventus-Catania che, ovviamente irrealizzabile, non gli consente di fare quel “13” che non gli cambierebbe la vita ma che gli consentirebbe di vivere una esistenza meno stentata e meno vessata dai parenti…

Però la storia ha una morale. Arriva infatti il momento nel quale Banfi capisce che, in fondo, un poveraccio come lui può godere dei pochi soldi di quel “12” anche se non ha centrato il risultato pieno. Che non vale la pena rovinare una amicizia per una schedina. Che ci si può accontentare del poco, quando l’alternativa è quella di non avere nulla. E puntualmente il destino premia il suo gesto positivo, nella notizia del clamoroso pareggio del Catania a pochi minuti dalla fine della partita che trasforma il risultato in quella “X” che sicuramente non avrebbe mai e poi mai inserito in schedina: il senso di amicizia per il povero “Parola” (Calà) di rinnova ed ancora più in pace è il cuore. La cronaca dell’ultimo minuto delle partite, che non è l’angosciante “Ultimo minuto” di Pupi Avati dell’omonimo film, arriva a mettere fine alle sofferenze di Banfi… probabilmente si trova su youtube: se non lo conoscete, senz’altro non avete vissuto gli anni ’80.

Allora cosa c’entra la morale, l’assoluzione, “Al bar dello sport”, “Ultimo minuto” ed il premio che arriva a chi sa assolvere ed assolversi in totale onestà di cuore? C’entra il fatto che un “epsilon piccolo a piacere” di medaglia d’oro, a Gelindo Bordin sono convinto di averla fatta vincere anche io!

E’ stata una Olimpiade strana, quella di Seul 1988. Le stranezze sono cominciate subito, nei primi giorni di gare, durante le giornate cocenti durante le quali preparavo l’esame di Geometria e più che occuparmi di tensori, gruppi, anelli e spazi mi chiedevo cosa ne sarebbe stato della mia vita di lì a poche settimane. Avevo già deciso di mollare l’università, e quindi che cosa me ne facevo di un esame in più o in meno? Avrei potuto benissimo starmene a guardare tutto il giorno le Olimpiadi in televisione! Fu così che mi decisi solo all’ultimo momento a preparare l’esame, un momento talmente “last” che sull’ultima parte del programma avevo dovuto scegliere se studiare i teoremi della pagina sinistra o quelli della pagina destra del libro… non avevo tempo di fare tutto. Scelsi la sinistra. Studiavo durante la giornata, con la televisione che trasmetteva le dirette da Seul, e studiavo di sera: non avevamo ancora le zanzariere, ma con il caldo tropicale di quei giorni di fine settembre era impossibile tenere le finestre chiude. Mio padre vegliava le mie sedute serali a finestre spalancate e luce accesa, aggirandosi con un asciugamano in mano e spiaccicando a raffica sul soffitto o sulle pareti, come Tex Willer con i cattivi, nugoli di zanzare.

Nonostante la mia incredulità, nonostante le distrazioni e la poca voglia, l’esame si risolse in un successo strepitoso… Solo all’ultima domanda dovetti confessare al professor Sce che non conoscevo la risposta perché la dimostrazione che mi aveva chiesto era nella pagina di destra del libro: si mise a ridere davanti alla mia “confessione” e dopo 90 minuti di tartassature mi congedò con un voto pieno. Dicevo delle stranezze: tornato a casa, mi concessi il rito di ascoltare “Fortress around your heart” a palla sull’hi-fi (cosa che ho fatto fino alla laurea… già, dopo quell’esame di Geometria decisi di proseguire gli studi fino a laurearmi in Fisica). Sullo schermo della televisione, muta, scorrevano i risultati della notte olimpica. E quando lessi “Italia-Zambia 0-4” rimasi lì per un paio di minuti a capire dove fosse la stranezza di quel che stavo leggendo, di quel risultato che aveva un ritmo un po’ strano… finché non capii che il risultato era proprio quello che stavo leggendo: solo il giorno di Italia-Zambia 0-4 potevo svoltare di brutto nella mia vita universitaria fino a diventare uno stimato (no, in realtà assai poco stimato) Dottore in Fisica.

Probabilmente le probabilità che la partita potesse finire con quel risultato erano le stesse che potevo nutrire io domenica scorsa di vincere la Coppa Italia al Fausior… Il fatto che ogni tanto certe minime probabilità si avverino, non offre alcun tipo di garanzia alla possibilità che un giorno anche io possa vincere una gara di Coppa Italia! Credo che il terreno del Fausior vada decisamente oltre le mie possibilità orientistiche: qualcuno me lo aveva definito “la Norvegia italiana”, e devo ringraziare la buon sorte che mi ha fatto trovare abbastanza bene la lanterna 10 se sono riuscito ad arrivare al traguardo in tempo per vedere scoccare l’ora zero di gara alle ore 10!


Gelindo era il Campione Europeo di Stoccarda. Era la medaglia di bronzo mondiale di Roma. Ma nonostante nel corso degli anni mi sia convinto del fatto che la Maratona sia la gara che da sola offre un senso a tutte quante le altre medaglie olimpiche, non avrei mai speso una notte ad aspettare l’arrivo della Maratona se non fosse stato per quella dichiarazione di Bordin alla vigilia, mentre i cronisti locali coccolavano il favorito, il campione del mondo Douglas Wakiihuri: “Non hanno capito che domani ci sono anche io, e che io gli arrivo davanti”. Ce n’era abbastanza per cercare di stare svegli.

Cosa che riesco a fare. Cosa che riesco a fare. Cosa che riesco a NON fare! Che cosa servono a fare le sveglie se non si usano nelle occasioni che contano? (lascio perdere cosa penso oggi delle sveglie, dopo settimane passate ad alzarmi alle 4 e 17 del mattino per prendere il volo per il Lussemburgo!). Quando mi sveglio, oltre metà della gara è andata; la voce di Mazzocchi, preferita a quella di Paolo Rosi, annuncia l’accelerazione di Bordin attorno al 20° chilometro per sfoltire il gruppo… Bordin che di solito è l’ultimo a muoversi, Bordin che di solito non consuma mai energie preziose. Chilometro dopo chilometro, il gruppo dei primi si allunga. I vagoncini più stanchi perdono contatto. Potrebbe scapparci la medaglia, ma quella che voglio vedere al collo di Bordin è quella d’oro. Ed è per questo motivo che la delusione è fortissima quando, sull’attacco di Ahmed Salah, Bordin si stacca ed improvvisamente il sogno della medaglia d’oro si spegne trasformandosi nella speranza che da dietro non arrivino né Moneghetti né Spedding né Nakayama. E’ per lo stesso motivo che nasce quasi un rimpianto per essermi svegliato per vedere una gara perdente, per vedere un sogno che non può diventare realtà.

Mi arrabbio con Bordin, per non aver saputo mantenere la promessa, per aver sprecato energie preziose all’attacco a metà gara. E intanto Bordin si stacca sempre di più, e la lotta per la medaglia d’oro sembra rimanere quella tra Salah e Wakiihuri. Finché ad un certo momento, dietro una curva, qualcosa scatta come quando ho deciso di mettermi a studiare per l’esame, e qualcosa mi dice che non c’è nessun motivo per essere arrabbiati con Gelindo Bordin, che non ha senso essere delusi per quello che sto vedendo in televisione. Decido, fortemente e sicuramente, di “perdonare” Bordin, di assolverlo e di liberarlo dal peso della mia delusione. Ed è in quel preciso momento, mentre i primi tre della Maratona olimpica si avvicinano al rifornimento del 40* chilometro, che le ombre che separano Wakiihuri e Bordin si fanno decisamente più vicine, e non è più una illusione ottica.

Il resto è storia nota: Bordin sorpassa Wakiihuri di slancio al rifornimento, una regia delirante o illuminata come poche nasconde Bordin per almeno un minuto mostrando solo lo sguardo sfinito poi allucinato di Salah. Bordin sorpassa Salah e si sente distintamente il mormorio che sale dalle case all’alba quando sullo schermo compare la scritta “Gelindo Bordin – current leader” entra nelle finestre spalancate dell’alba estiva del 1988. Ed infine Mazzocchi esprime il meglio di se stesso, consegnando ai posteri la frase “Sono rimasto da solo nei 5 minuti più tremendi della mia carriera di telecronista”.

http://www.youtube.com/watch?v=P7vCZ_L0UrQ

Gelindo Bordin, medaglia d’oro nella Maratona olimpica alle Olimpiadi di Seul 1998 è la mia personale medaglia di bronzo dei ricordi sportivi televisivi, e si da il caso che ancora oggi una parte in fondo al cuore del mio “io” pensi che quella medaglia si sia concretizzata solo quando tutti coloro che stavano guardando la gara, penando per il risultato finale, hanno “perdonato” il protagonista di questa storia. Come fece Lino Banfi con Jerry Calà, prima che una doppietta di Cantarutti andasse a mostrare (fosse anche solo in un film) che perdonare con coscienza può persino far vincere il Catania contro la Juventus e che perdonare con sentimento potrebbe persino spingere un maratoneta a vincere la medaglia d’oro alle Olimpiadi.

Ora bisogna scoprire come perdonare se stessi possa aiutare persino a venire fuori da un bosco… Ma quest'ultima è una storia che è ancora "work in progress"

Thursday, June 13, 2013

Una città nel cuore e nell'anima

Milano. 21 maggio 2004. Una di quelle sere nelle quali penso sempre alle parole di Alberto Fortis “Mi piacciono i tuoi quadri grigi, le luci gialle e i tuoi cortei. Oh Milano sono contento che ci sei”. In sere come queste uscire dall’ufficio è lieve e dolce come l’ultimo giorno di scuola prima delle vacanze, ho voglia di fare tutto, di sentirmi vivo fuori e di sentirmi vivo dentro...


Mi hanno detto che l’appuntamento è a Porta Ticinese, proprio in mezzo al piazzale. Ma poiché è una di queste sere strane parcheggio l’auto un po’ lontano e poi me la faccio a piedi lungo Via Col di Lana, tra i negozi che chiudono lentamente le saracinesche e i tram che passano portando a casa i lavoratori usciti tardi e che ancora non trasportano i lupi della notte verso i locali. Infatti sono il primo ad arrivare. Subito dopo ecco altri amici: ragazze e ragazzi che riescono a trovare una idea comune del divertirsi e dello stare insieme che va al di là delle età e della provenienza di ognuno di loro, per questo li invidio molto. Spiegazioni rapide della gara , poi mi ritrovo in mano la cartina: è un gesto che faccio 60 o 70 volte all’anno, dovrei esserci abituato.

Non questa volta, però. La mappa sembra un oggetto strano, che mi lancia strane sensazioni ... come delle onde visive ... attutisce i rumori e cambia la prospettiva intorno a me. Non vedo più nessuno, ma ovunque poso lo sguardo, colgo lampi in bianco e nero, fuori fuoco e sgranati dal tempo. Devo andare... devo andare da quella parte, attraverso la strada che non è più una strada, è come se passassi in un tunnel, in un caleidoscopio, nel mio “stargate”.

Non ho ancora raggiunto il marciapiede opposto ma so che sto puntando verso il piazzale della chiesa, dove ci sono i bambini che giocano a pallone nell’unico spazio aperto disponibile; e non importa se non sono capace di colpire bene la palla, perchè la darsena è lontana e i miei tiri a banana non fanno finire la palla in acqua; e non importa se c’è Don Nino che viene fuori a mandarci lontano perchè al posto della porticina usiamo l’ingresso piccolo nella cancellata e ogni tanto la palla finisce contro il portone della chiesa... ma quando esco dal piazzale entro in un altro quadro, mi sto infilando in una stretta viuzza del ticinese e sto andando in giro con i sacchetti di riso e di pasta a fare il fattorino della drogheria per le signore che si facevano portare la roba a casa ...l’immagine della prima volta che ho avuto 500 lire di mancia e sono tornato al negozio come se avessi in tasca i diamanti, vergognandomi perchè le 500 lire le avevo avute io e non Pinuccio, l’altro fattorino.

I giardinetti in fondo alla via non c’erano ancora ... e di colpo è il 1984, Via Correnti e la sala giochi dove andare quando il prof di ginnastica all’ultima ora ci faceva uscire prima, una partita veloce a “time pilot” e poi via a pigiarsi sulla 97 per tornare a casa puntuali. Al di là del portico, all’angolo della strada, c’è ancora il vecchio baretto tre metri per sei... è il 12 giugno 1985, siamo in cinque siamo solo in cinque pochi e maledetti e dobbiamo andare a giocare la finale degli studenteschi e non abbiamo cambi perchè Andrea e Sergio si sono sbragati in malo modo facendo i cretini in moto per la strada, e non abbiamo nessuno che tifa per noi perchè nessuno crede che possiamo vincere ... l’altro Andrea va via con lo Zundapp, è l’unico motorizzato, quello ricco col Monclair e le Timberland ma almeno sa giocare, e noi andiamo alla grande per tutta la partita, vinciamo di un punto ed andiamo a fare festa da soli.

Ma quando giro in Via Lanzone sono passati solo pochi mesi, chi si ricorda più del nostro trionfo? Ci sono i ragazzi dell’85 per le strade a protestare per lo stato delle scuole italiane, 17 giorni di fila di scuola occupata e per la prima volta abbiamo dovuto organizzarci da soli perchè ci sono gli esami di maturità e i commissari se ne fregano se abbiamo saltato le lezioni per un terzo dell’anno scolastico ed i gran premi di Formula 1 in tv sono annunciati dalla sigla “i ragazzi dell’85 e i ragazzi dell’86 tutti insieme sulla strada del 2000”.

Non devo aspettare il 2000 per girare attorno al Corso, perchè nel ’93: sono già grande e mi tocca studiare sul serio per laurearmi, anche di sera in osservatorio a Brera che è il posto più silenzioso e lugubre dove si può stare di sera mentre fuori c’è la vita, qui invece non ci sono le finestre ma ci sono i tendoni di plastica che fanno ululare di più il vento e se c’è corrente le porte sbattono come in un film di Dario Argento, e se all’improvviso suona il telefono si salta con i capelli dritti e la pelle d’oca spessa... meglio tornare verso casa, passando da Piazza Fontana che qualcosa vorrà pur dire nel modo in cui ognuno di noi è cresciuto, nel bene e nel male, anche se siamo ancora qui a capire cosa è successo veramente e forse nessuno ce lo dirà mai; meglio tornare verso casa, passando andando giù per Via Olmetto dove andavo a portare i biglietti del Milan e dell’Inter, e questo succedeva prima che passasse il ciclone di Tangentopoli ... e chissà quante persone sono passate di qua a consegnare qualcosa senza immaginare che stavano entrando in una storia brutta, solo perchè era il loro turno nel tabellone delle consegne.

No, meglio tornare verso casa passando per i giardini di Piazza Vetra, la ex casa dello spaccio, adesso Parco delle Basiliche ma quante volte da ragazzo ho visto arrivare le ambulanze per portare via i ragazzi con le dosi tagliate male, e magari avevo in borsa “I ragazzi dello zoo di Berlino” che ci hanno fatto leggere nella speranza che qualcuno capisse e non ci cascasse dentro, ma Andrea Antonio e Pinuccio non ci sono più ... loro quel libro non hanno fatto in tempo a leggerlo e la lurida maledetta fottutissima neve marcia se li è portati via da ragazzi, e non è la neve dell’85, del “torno a casa a piedi e speriamo di arrivare”... Voglio andare via da questo giardino che non mi piace perchè non è mio, non l’ho mai visto, è un buco nero nei miei paesaggi, è un quadro offuscato in cui il mio sguardo si perde in lontananza e non riesce a fissarsi su nulla, perchè dentro lì per me non c’è davvero nulla...

Solo a pochi passi ci sono le colonne di San Lorenzo, un tram numero 15 che passa per portarmi a casa e quante volte l’ho preso di corsa, ma questa volta lo lascio passare perchè non ho fretta, non devo andare a casa a studiare, c’è il sole e voglio sentire il tempo che passa sulla mia pelle e risentire tutti i momenti di questa giornata, perchè ho appena visto il tabellone con i voti della maturità e per questa volta posso andare orgoglioso del lavoro che ho fatto, e poi a vedere i risultati c’era anche Alessandra che è venuta a salutare me anche se lei la maturità l’ha fatta l’anno scorso; e poi è fidanzata con Andrea (quello dello Zundapp), ma ero stato io ad aiutarla a preparare greco scritto quando l’anno scorso era stato il suo turno: lei se ne era ricordata ed era venuta a salutarmi; è stata l’ultima volta che l’ho vista, sono convinto che non si ricorda più di me, ma io di lei si, perchè di quel giorno in cui ho vinto la mia prima battaglia non dimentico nulla.

Adesso il tunnel si restringe e in fondo vedo quasi le luci, non è più il bianco e nero di prima, sono in Corso di Porta Ticinese e là in fondo c’è il mio presente, quello per il quale vale la pena di vivere tutti i giorni, sento che ho in mano una cartina e sono felice come un bambino, intorno a me la gente guarda e non capisce ma forse percepisce anche solo per un istante che sono felice. Certo… Ci metto un po’ a rientrare nel presente perchè qualcosa di me è rimasto agganciato al passato: è il fardello e la piuma che mi porto dietro tutti i giorni in tutte le cose che faccio. Nel bene e nel male sono passato attraverso tanti stargate ed ognuno mi ha lasciato una cicatrice, un segno, un capello bianco ed un sorriso, e stasera ne ho rivissuti tanti... avrei dovuto essere qui a festeggiare un compleanno (un altro stargate per un amico ed un compagno di squadra), invece resto sovraeccitato a pensare al regalo che proprio io ho ricevuto questa sera. Tornare a casa lungo la Col di Lana non mi sembra nemmeno vero, alcuni negozi sono ancora aperti per il popolo della notte ed i tram continuano a passare semivuoti perchè i lupi si muovono per i fatti loro... per il mondo sono passate due ore, per me è passato molto di più.



Milano. 8 giugno 2013. Uno di quei pomeriggi afosi nei quali il centro di Milano si scopre pieno di angoli inondati di sole e abbacinanti, con le persone che sciamano in giro per una foto in posa vicino ai templi della moda, o cercano refrigerio nella Rinascente o da Zara. Oppure sostano sotto un portico giusto il tempo necessario per veder passare the-new-tourists (russi, per lo più) pieni di borse e di carni esposte al sole. E’ stato colo pochi giorni fa che, in mezzo a questo scenario, ho disputato la prima (penso, al mondo) gara di Calcol-O, organizzata nella colla afosa del primo caldo di quest’anno da quei mattacchioni della Punto Nord Monza: solo gli orientisti sono capaci di cavare formule di gara davvero divertente da un ritrovo, ancora una volta solo apparentemente innocuo, di amici orientisti: http://www.puntonord.net/index.php?option=com_content&view=article&id=426:trofeo-calcol-o-milano&catid=37:volantini&Itemid=66

Tuesday, June 04, 2013

Romeo... and other things to know (Subiaco e Monte Livata)

La prima cosa che i nuovi colleghi di lavoro mi chiedono è: “Perché fai orienteering?”. E’ una cosa difficile da spiegare. Non perché io non sappia cosa mi spinge a praticare questo sport, quanto perché ci sono talmente tante ragioni che è lungo e complesso esprimerle solo con le parole. L’orienteering è diventata una parte fondamentale della mia vita. E’ una passione, è un gioco, è quasi un lavoro. E’ il mio antistress. E’ anche uno dei Grandi Amori della Mia Vita. Mi offre un angolo di positività e mi rende soddisfatto di me stesso quando riesco a dare il meglio delle mie possibilità. Mi permette di allenare la mente a trovare risposte alternative ad alcuni quesiti che mi vengono posti al di fuori del bosco, nel lavoro ed anche nella vita. Posso persino dire che la notorietà che mi sono guadagnato in questi anni, per la mia attività come speaker beninteso, è solo una piccola parte di ciò che l’orienteering mi ha dato. Nelle mie giornate orientistiche ho trovato tanta gioia e tanto divertimento, anche se talvolta occorre una scintilla per sintonizzare il segnale su questo canale felice.


Come sabato pomeriggio a Subiaco, per esempio…

Subiaco. 1° giugno 2013. Campionato Italiano Sprint. Ho cambiato lavoro da 12 ore circa, dopo quasi 18 anni di informatica. Dovrei essere euforico, è il momento che ho aspettato da almeno un anno e mezzo. Sembra un remake del mio primo giorno di lavoro post laurea: una piovosa giornata di autunno del 1994, un lunedì caduto proprio dopo il Meeting Internazionale di Venezia corso con l’acqua alta; nella mia testa ed in quella dei miei genitori, il timore di come avrei potuto arrivare in ufficio per la mia prima giornata da lavoratore dipendente, dopo una domenica passata a sguazzare nei canali in mezzo ad acqua sporca e pantegane… quella volta che finii persino sott’acqua a San Marco, con tutta la testa, complice un gradino che non avevo visto tra i leoni di marmo del piazzale.

Sabato 1° giugno avrei dovuto essere un fascio di positività. Invece sono teso, nervoso, inca…ato col mondo. Ho addosso tanti diavoli quanti sono i miei capelli in testa e nemmeno la vista del rettilineo di arrivo e della postazione speaker che stanno approntando riesce a calmarmi. Sbarco dalla macchina con Piero ed Attilio mentre comincia a piovere, e vado in partenza subito; voglio togliermi il pensiero di questa gara sprint per cominciare subito a raccontare la gara. Piove, a tratti diluvia. E’ inutile coprirsi troppo: tutto quello che indosserò diventerà zuppo in un nanosecondo, così scelgo di vestire solo la maglia bianca leggera dell’O-Ringen. Risalgo la città seguendo le fettucce, in mezzo alle persone che mi guardano come se fossi matto o drogato, o un senzatetto: sono l’unico senza un ombrello, l’unico senza una giacca a protezione dagli scrosci, l’unico che sembra fregarsene del diluvio, gli occhiali già coperti di pioggia. La gente affolla i piccoli marciapiedi e le loro voci parlano di tranci di pizza, di gita post prandiale, di acquisti di sigarette e di ultimi giorni di scuola. Gente che si muove scompostamente, a gruppetti; il primo del gruppo si volta si scatto a rispondere a quello che chiude il drappello e tutti quanti sciamano intorno senza una direzione precisa. Rischio di travolgere dei passanti, muovo qualche ballo come di danza per smarcarmi da questi pedoni infestanti. Scendo in mezzo alla strada, stretta per dimensione e resa ancora più stretta dalle macchine in sosta ovunque… e mi chiedo cosa pensino anche i guidatori che fanno andare senza sosta i tergicristalli e si trovano davanti un tale incurante del maltempo.

Risalgo le vie più strette del centro storico “dove le auto non vanno avanti più”. Sul porfido, sull’acciottolato, con le scarpe da corsa che scivolano indietro sul selciato fradicio. Dall’alto, la pioggia trasforma i passaggi più stretti in piccoli torrenti che le mie Nike Pegasus cercano di fendere con fatica, come un sasso gettato in mezzo ad un corso d’acqua separa il flusso in due parti che si reincontreranno pochi decimetri più a valle. Quando la mia tensione diventa insopportabile, davanti al muro che porta alla partenza, alzo gli occhi al cielo e lascio che i muscoli del viso vengano lavati dalla pioggia. Sono venuto a Subiaco per fare la mia gara, e già non ne posso più. Ho scelto di correre il percorso della MElite per vedere con i miei occhi le difficoltà che i più forti dovranno affrontare, eppure non me ne frega più niente della gara e del tracciato. Voglio solo partire il più presto possibile, ma non so se è per entrare in una dimensione diversa della mia giornata o se è per uscire da tutto quanto mi circonda.

Parto. Tesissimo. La carta è subito un oggetto incomprensibile nelle mie mani. Mi tolgo gli occhiali, correrò tutta la gara senza, e cerco di raccapezzarmi in questa specie di labirinto della geografia e della mente che mi si para davanti. Ho fortuna nell’imbroccare subito la prima lanterna, ne ho meno alla seconda dove la piegatura della carta disegna subito uno sbuffo bianco in corrispondenza di una scalinata che mi porterebbe a destinazione e che invece non riesco a scorgere tra l’acqua che scroscia sulla plastica e il piccolo baffo bianco dove l’inchiostro è segnato e graffiato. La 3 a precipitare verso valle, lasciando un brandello di pelle nella prima caduta sul sentierino fradicio che porta fuori dal punto, e la 4 a fare irruzione per errore dritto in casa di qualcuno che ha lasciato la porta aperta… Si gira la carta sull’altro lato e la 5 è controintuitiva: per andare su una traccia nord-ovest devo prendere una direzione tutta ad est. La 6 è facile se non fosse che mi viene il mal di testa solo a capire in che direzione devo andare per uscire dal punto 5, con le case ed i vicoli che si addensano attorno a me e sembra che mi schiaccino.



(dal sito del Campione Italiano Elite, http://www.alessiotenani.it/ )

Per la 7 rifaccio un pezzo di strada già percorsa, per restare su un terreno conosciuto. La 8 sta ai confini del mondo conosciuto, al di là della rocca: risalgo di un paio di livelli e giro attorno ad essa facendomi guidare dalla visione della chiesetta che ogni tanto compare tra le case. Per la 9 mi appoggio ancora intorno alla chiesa, intravedo Maria Novella che sta andando ad attivare le stazioni, la raggiungo e poi ci separiamo perché decido di uscire per la 10 dalla stessa direzione in cui sono entrato. La 11 è lontana anni luce: dovrei pensare solo a scendere, spostarmi verso est e scendere quando posso; ad ogni svolta perdo la strada, quante volte l’ho persa nell’ultimo anno e mezzo?, cerco di ritrovare il segno sulla carta e vado a sbattere il culo a terra scivolando sui bordi viscidi dei gradini, mi rimetto in piedi e scivolo di nuovo: tre knock out! Sarebbe KO tecnico… Subiaco mantiene la cintura WBC di Campione del Mondo dei pesi massimi, Stegal non potrà contare nemmeno su una borsa milionaria. Eppure c’è un senso in questo folle tracciato se per andare alla 12 devo andare ad est, poi a sud, poi ad est, poi sterzare violentemente ad ovest aggrappandomi ad un corrimano arrugginito, poi a sud e a est e a sud e alla fine la vedo e mi sembra di vivere in uno di quei labirinti dai quali non si può uscire mai. La 13 è la in fondo, lontana. Zona speaker. Dove mi stanno aspettando da mezz’ora ormai… gara sprint! Si, certo Stegal certo, come no… guarda il tuo tempo. Gli Elite nel tuo tempo finiscono tranquillamente una middle, anzi nel tuo tempo di gara sono quelli con 30 punti in lista base che finiscono una middle!

Imbocco il sottopasso che mi porta verso una specie di rettilineo e incrocio Remo che sta portando in giro dei ragazzi, lo sento descrivere la scena “No, la gara non è ancora cominciata… quello è lo speaker… è in gara anche lui… parte prima degli altri, la gara non è ancora iniziata ma lui gareggia all’inizio…”: Remo si sta muovendo in salita, io in discesa: siamo in due direzioni opposte ma io sento la sua voce a lungo da tanto che sto andando a passo di lumaca. Ecco. Sono sul rettilineo, dietro quel portico c’è la zona arrivo, dove c’è la postazione speaker. Sento di nuovo tutta la tensione che monta, sento che sono fuori posto, sento che non avrei dovuto correre la M21… anzi forse non avrei dovuto nemmeno correre… anzi forse avrei fatto meglio a starmene a casa perché sto scoppiando di nervoso.

E poi la sento.

“A lovestruck Romeo sings the streets a serenade.
Laying everybody low, with a lovesong that he made…”

Ogni tanto mi capita di pensarci. Come Ulisse ed i naviganti erano attirati dal canto delle sirene, come i bambini dal pifferaio di Hamelin, come i ranger nel macello di Omaha Beach seguirono la cornamusa che intonava “Roll Out the Barrel”… così un giorno anche a me capiterà di essere tirato fuori dal bosco da una canzone. Per questo motivo, ogni volta che faccio lo speaker, chiedo se si può usare come sottofondo musicale il mio Ipod: spero sempre, quando le energie sono finite ed anche i piedi come le auto non vanno avanti più, di essere abbastanza vicino al traguardo da sentire le mie canzoni preferite.

“Come up on different streets, they both were streets of shame
Both dirty both mean, yes. And the dream was just the same”

E’ stato in quel momento che ho deciso che sarei arrivato al traguardo ben prima del termine di quella canzone. Ed è stata quella la canzone che mi ha accompagnato per tutto il fine settimana, compresa tutta la gara M40 di Monte Livata. Quando dico “tutta”, intendo proprio “tutta”!

Che dire del resto del sabato? Sarà ricordata come la grande giornata di Lucia, “A day in the life” come recitato durante le premiazioni. O per il fotogramma dello sprint di Giacomo, improvvidamente fermatosi alla lanterna 100 (come altri, del resto) e poi trascinato sul traguardo dalla vista dello sprint di Fabio Daves. O infine ancora per il volo terribile di Francesco, lanciato verso un titolo M35 che ha rischiato di andare in frantumi contro un passante disattento e assai poco sportivo. Nei miei ricordi, sarà ricordata con un sottofondo musicale inconfondibile… talmente salvifico che lo sento nelle orecchie ancora adesso.

“I can't do the talk, like they talk on tv
And I can't do a love song, like the way it's meant to be
I can't do everything but I would do anything for you
I can't do anything, except be in love with you”


Domenica. Ovvero “quando gli ostacoli sono solo nella testa”. Tutti quanti mi hanno sentito raccontare la storia della scala 1:10.000 e 1:15.000. Tutti quanti mi hanno sentito berciare sul fatto che si tratta di due sport diversi. Non mi piace gareggiare sulla scala 1:15.000. Voglio vedere bene la carta di gara, e adesso che sono avanti con l’età faccio più fatica a distinguere i particolari. Voglio vedere bene la zona punto, distinguere le microforme del terreno o le zone rocciose, voglio capire dove posso passare per raggiungere la lanterna e non voglio “andare là e capire, guardandomi intorno” come mi è capitato spesso di dover fare con la carta 1:15.000. Non mi piace correre sull’1:15.000. Però domenica sono tranquillo, mantengo la radio della testa sintonizzata sui Dire Straits e, quando Costantino mi da il via alle 7.49 del mattino, non sono preoccupato del fatto che ho in mano una carta di gara della MA anziché della M40. Perché so che hanno lo stesso percorso…



(Livata come avrei dovuto correrla... sulla 1:10.000!)

Stegal però dovrebbe leggere bene il comunicato gara! Stegal dovrebbe sapere, anzi, che è vero che il percorso è lo stesso… ma non la scala! La MA, infatti, infarcita di giovanotti di belle speranze e muscoli guizzanti, corre sulla scala 1:15.000. La M40, infarcita anche essa di muscoli guizzanti anche se non più di giovanotti, gareggiano sulla scala 1:10.000. Per questo motivo la scena più surreale della giornata avverrà nel dopo gara, quando Dennis Dalla Santa si fermerà qualche istante a parlare con me delle scelte di percorso… oh! Intendiamoci: il fatto che Dennis di fermi a parlare con me è solo una prova testimoniale della sua enorme educazione e fairplay! Non sono (non sarò) mai in grado di dare un contributo critico alle scelte di percorso, o ai tempi di percorso, di DDS! Lui, come altri, è sempre educatissimo con lo speaker (anche se deve sopportare ogni volta la litania di quanto è un orientista bravo e grande e eccezionale) e se deve perdere qualche secondo del suo meritato riposo per dialogare con me, si presta.

“Dennis… ma che carta è questa?”
“La M40, non hai detto che l’hai fatta anche tu?”
“Si, ma io non avevo questa carta… ma guarda questi cerchi! Sono enormi! Ci si vedono dentro tutti i particolari! Perché io avevi un altro percorso?”
“Non so, che categoria hai fatto?”
“La M40… però ho corso con la carta della MA, tanto era lo stesso percorso… ma vuoi vedere che…?!?!?!?”

Esatto. Poiché Costantino non trovava la busta della M40, per la fretta di partire presto ho preso una carta della MA. E mi sono cuccato la 1:15.000. E mi ci sono trovato benissimo!!! (si, ok, ero sempre un po’ corto… i punti sembravano non arrivare mai… però sono lento come un impiegato panzottello ed i punti non arrivano MAI troppo presto). Ora: se qualcuno me lo avesse detto durante la gara, probabilmente sarei stato preso dallo sconforto e avrei piantato lì. Invece “occhio non vede e cuore non duole” (e faggeta non impedisce). Così sono stato in grado di tornare da Monte Livata con “Romeo and Juliet” nella testa, con una serie di lanterne (tra cui la sequenza memorabile 8-11) trovate con il solo paletto metallico… (ho spostato qua e là la mantellina per immaginarmi le facce dei posatori che vedevano la mantellina appoggiata in una posizione diversa dall’originale). Un loop finale facile soltanto se il sole che martella non ti fa venire un coccolone nell’attraversamento dei pascoli, ed un provvidenziale pinnacolo roccioso alto 20 metri che fa da antenna radar sia per andare alla 15 che per tornare alla 16.

Seguiranno altre 4 ore al microfono, una intervista a Pietro Illarietti che se mai andrà in onda mi svergognerà davanti al mondo intero (anche Johanna Murer deve sapere che penso spesso alla sua vittoria ai Laghi di Fusine)… si, è in onda… http://www.fiso.it/notizia/stefano-galletti-the-voice ... Ora mi devo ritirare in una grotta vita natural durante!

E poi ancora una prodezza non da poco nell’azzeccare a memoria e senza computer l’ex-aequo Ceresa-Raus in W14 e, una categoria più in su, una topica altrettanto non da poco nel “bucare” la sottrazione che mi dovrebbe dare il tempo vincente di Anna Giovanelli: ho calcolato (dopo 3 ore e mezza di calcoli a mente, ma non vale come scusa buona!) 10 minuti in più ed una posizione attorno alla quinta. Sarebbe stato tutto giusto, anche la posizione nel ranking a memoria, se il tempo non fosse stato di 10 minuti esatti più basso e se la posizione finale di Anna non fosse stato un limpido, netto ed irreale (quanto a vantaggio sulla seconda) primo posto.

Ma non ricordo di essere mai stato perfetto, come speaker e come essere umano. Mi affido a Romeo:
“Says something like you and me baby, how about it?
You and me babe, how about it?”

Alla prossima, Romeo!