...for Tommy and Gina, who never backed down…
“…this is for the ones who stood their ground,
for Tommy and Gina, who never backed down…”
Fatto salvo qualche sporadico messaggio nella bottiglia, fino ad oggi sono stato l’unico a sapere che sul mio desktop il pezzo a fianco di quello che sto pubblicando si intitolava “Stegal stops with orienteering”. Ed ecco anche l’inizio: “Il 28 febbraio 2013, dopo 20 anni di orienteering a tratti impiegatizio e a tratti panzotello, Stegal si è poco sorprendentemente auto-escluso dal mondo della cartina e bussola. Oggi infatti è stato richiamato a Milano, quartiere Gratosoglio, presso la vituperata casetta che funge da sede centrale della mai ben compresa entità chiamata “GOK”; qui, davanti allo specchio, ha annunciato a se stesso che la sua carriera low-level di orientista di fondo classifica era giunta a conclusione”.
Si… Lo so: la citazione è un po’ nascosta. Mi chiedo se qualcuno tra i più sgamati riconosceranno tra le righe lo stile di quel comunicato che, il 15 novembre di sette anni fa, ci ha lasciato improvvisamente privi dell’atleta di punta della nazionale italiana.
Altri tempi. Sette anni fa, più o meno nello stesso periodo, stava per disputarsi una gara a Tradate che si sarebbe chiusa (almeno per me) tra mille ed una polemica, con successive mail di minacce ed un post pubblicato sul mio blog e poi auto-censurato. La cosa bella è che, in altri sport o con altre persone, dopo quel giro di mail (e di telefonate notturne) sarebbero seguiti anni ed anni di faide e relazioni interrotte e sgarbi e dispiaceri e rancori… e invece nel giro di qualche settimana eravamo ancora tutti lì a rincorrerci attorno ad una lanterna ed a raccontarci come se non fosse stato per la carta rilevata male, il tracciatore che non ha rispettato le linee guida, il sole la pioggia il vento ed il gomito che fa contatto col ginocchio, ebbene anche noi avremmo potuto fare un tempo degno del miglior Elite!
Altri tempi. Sette anni fa, o sei o cinque o quattro o tre o due, se qualcuno mi avesse chiesto “Sai qualcosa della gara promozionale di Piatra Neamt di domenica?” avrei risposto (con un pizzico di nonchalance) “Certo… prima partenza alle 10.00 e ritrovo a 25 minuti al passo… ca$$arola se non fosse stato per quei 25 minuti al passo ci sarei andato anche io, solo che la miglior combinazione bus-treno-aereo-pullmann-autostop mi fa arrivare al ritrovo non prima delle 10.10 e non riesco nemmeno a farmi il taping!”. Oggi non solo ignoro se sia mai arrivata la parola “orienteering” a Piatra Neamt (in effetti ho solo conosciuto sul lavoro una persona molto gentile che arriva da quel posto, così l’ho citato), ma ignoro quasi del tutto l’esistenza di gare promozionali, regionali o nazionali che turbinano attorno a me, magari a poche decine di chilometri di distanza.
Altri tempi. Quelli nei quali a marzo inoltrato potevo guardare il calendario delle gare già messe in saccoccia e segnare la decima uscita stagionale in cartina. Con un pensiero di sottofondo, magari, già rivolto alle multi-days estive prenotate, alla solita Lipica Open alla quale non ho mai partecipato, alle prime gare di Coppa Italia appena di là da venire ed alla situazione dei rovi nei boschi lombardi, se irrobustiti o se tenuti a bada da un inverno più o meno rigido.
Altri tempi. Dovrei ripassarmi un certo pezzo pubblicato sul blog di Dario P. per ricordare quanti e quali ori-blogger si cimentavano in quel periodo, gli anni senza l’I-Pad, senza l’I-Phone, senza l’I-qualcosa… (tutte diavolerie di cui sono ancora sprovvisto). Altri tempi nei quali, se vado a rileggere quello che scrivevo proprio nel novembre 2006: “Gli amici sanno che visualizzo una bella gara di orienteering come una spugna bagnata che passa sopra la lavagna di ardesia piena di scarabocchi; dopo il passaggio, la lavagna sembra come nuova. Così funziona con il mio cervello”.
Ma dopo più di un intero anno nel quale l’orienteering non mi è stato di alcun aiuto nel “ripulire il cervello” dalle tossine, dalle tensioni, dalle paure e dalle preoccupazioni della vita quotidiana, ho riflettuto sul fatto che non mi restava che scrivere la fine di questa storia: avrei voluto raccontare un “the end” visto dalla parte di chi non si sente più un orientista, di chi non è più in grado di affrontare il bosco, di chi semplicemente non riesce più a trovare una gioia nel pensare al prossimo appuntamento, alla prossima cartina da affrontare, al prossimo tragitto casa-ritrovo-partenza-…-arrivo-casa. Non essendo più così importante quello che troviamo ogni volta al posto di quei “…”, di quello che succede tra il momento della partenza e quello dell’arrivo in una disciplina sportiva che ognuno riesce a vivere in una dimensione personale così spiccata.
Avrei solo dovuto scriverlo.
Alcuni dicono… che, scrivendo, si razionalizzano i sentimenti e si affrontano più facilmente le situazioni. Potrebbe anche essere vero. Scrivere non è la stessa cosa che affidare i messaggi alla voce o al pensiero, che appena è trascorso il tempo impiegato per far passare un fumetto nella mente o sulla bocca, è già ora di pensare alla prossima azione e … se si è detto o pensato qualcosa di bello, ok… e se era qualcosa di brutto bisogna mettersi lì e cercare di rimediare il salvabile.
Altri dicono… che, se riesci a scrivere, un po' di luce attorno alla zona delle operazioni vuol dire che l'hai già fatta. Forse non sai ancora se il sorriso che stavi cercando si trova in fondo ad un canyon nel Colorado… “Magari non hai trovato il bandolo della matassa, ma un'idea di dove passa il cavo cominci ad averla”.
Io dico… che durante questo periodo nel quale sono rimasto lontano dal blog, ho pensato ad un sacco di storie e qualcuna ha trovato un posto sul mio desktop. Alcune di queste storie sono i miei pensieri personali, legati all’orienteering o alla vita in generale (perché non bisogna dimenticarsi che c’è una vita, là fuori, oltre all’orienteering); altre sono storie che parlano di eventi che ho visto in televisione e di persone che in alcuni casi ho potuto conoscere, anche solo di sfuggita. Ci sono state un sacco di storie che ho cominciato a pensare mentre guidavo, tornando a casa dal lavoro, lungo i viali del quartiere “Barona” a Milano; storie che ho iniziato e mi sembravano bellissime, e che non ho terminato perché non sapevo come continuavano e soprattutto non sapevo come sarebbero andate a finire.
Ci sono state altre storie che sapevo benissimo come sarebbero andate a finire, ma che sapevo non essere del tutto vere; storie che ho raccolto nel corso degli anni (una di queste risale all’agosto del 1988, e forse sarebbe ora che io la completassi). Se Bon Jovi avesse avuto una seconda opportunità di scrivere “It’s my life”, gli suggerirei dei versi come questi, che non sono miei e sono come una pietra tombale delle mie settimane di silenzio:
“Forse tu fatichi a proseguire perché non sei sicuro di come continua la storia.
Forse hai un'idea, ma non ti sembra tanto vera. Oppure non vuoi che diventi vera.
Oppure pensi che la storia abbia una sola inevitabile conclusione, che però non vuoi che abbia.
Oppure non ti senti all'altezza della conclusione cui vorresti che arrivasse”.
E’ proprio così. Non so come continuerà questa storia. Non so se voglio che diventi vero quello che avevo in mente di scrivere. Non sono sicuro nemmeno che non ci sia la possibilità di far cambiare direzione al percorso che avevo immaginato, e quindi sto soltanto rimandando quello che potrebbe diventare inevitabile. Ma in ogni caso, in ogni maledettissimo caso, non mi sento ancora all’altezza della conclusione e del “the end” che mi sono figurato.
Per questo motivo, dopo aver passato un paio di mesi a convincermi che avrei dovuto smettere, penso che da qualche parte in fondo al cuore troverò la forza per continuare a scrivere e per continuarea giocare.
"...My heart is like an open highway.
Like Frankie said, I did it my way"