Se non fosse per quella maledetta passionaccia... (6 di 8)
Al bar dello sport
Da qualche parte, in qualche posto nella rete, dovrà pur esserci una classifica dei film a carattere sportivo più motivanti (o motivazionali), più adrenalinici e più coinvolgenti. Ogni sport ha il suo, o i suoi. In una simile classifica potrebbero trovare posto “Running the brave”, o “Miracle on Ice”, o “Hoosiers” solo per citarne alcuni che si riferiscono ad eventi sportivi veri e propri. Oppure “Cool running”, che insomma non finisce proprio come racconta il film ma va bene lo stesso. O “Rocky”, che è ispirato ad un pugile veramente vissuto, ma che sicuramente non è assurto ai fasti del Balboa cinematografico (ma se la colonna sonora “Eye of the tiger” parte ad ogni lancio di staffetta dei campionati italiani, un motivo ci sarà!). Ogni sport ha avuto il suo film. Ogni sportivo ha la sua classifica.
Ma se ora, qui, adesso, in questo momento… io citassi “Al bar dello sport” con Lino Banfi e Jerry Calà? Posso già sentire le risate di scherno che arrivano fino alla mia vituperata casetta. Posso già vedere le statistiche dei lettori di questo blog che si spengono fino a toccare le poche unità di santi e sante che si sorbiscono fino in fondo l’amarissimo calice dei miei sproloqui. Posso persino vedere i volti di qualche affezionato lettore atteggiarsi ad una espressione “questo si è definitivamente fumato il cervello”… Però, se avete pazienza, seguitemi.
Prima di tutto smarchiamo un concetto fondamentale, talmente lampante che talvolta lo si perde di vista per pura abitudine: in ogni sport, in ogni competizione, c’è l’atleta che occupa il primo posto e l’atleta che occupa l’ultimo posto. E’ un dato di fatto: c’è una classifica, c’è un ordine di merito; c’è il primo posto e c’è l’ultimo posto. Un altro dato di fatto è che il primo posto arride ad uno solo alla volta: tutti gli altri non sono arrivati primi. Tutti gli altri se ne devono fare una ragione. Tutti gli altri devono puntare su un altro giro di roulette: potranno allenarsi di più, potranno utilizzare attrezzature migliori, potranno crederci di più! E forse avranno qualche chances in più di farcela… ma il successo, il primato, la vittoria… questi arridono ad uno solo alla volta.
Scrive uno che qualche gara (minore) l’ha vinta, ma tante tantissime volte di più è arrivato dietro, se non in fondo o in fondissimo o all’ultimo posto in classifica. Tutte le volte che sono arrivato ultimo mi sono chiesto tre cose: che cosa avrei potuto fare per migliorare, se in gara avevo dato tutto quello che potevo, e se avrei preferito essere all’ultimo posto in quella competizione o avere una posizione migliore in una categoria più accessibile. Non sempre ho avuto risposte alla prima domanda, e ho dovuto ammettere che non sempre in gara ero riuscito a dare il massimo di me stesso. La terza domanda ha avuto sempre la stessa risposta, e corrisponde alla prima parte del periodo.
Non si tratta di una forma auto-assolutoria, credo, quando di un confrontarsi ed un voler dare evidenza ad una realtà lapalissiana: per uno che vince, ce ne sono tanti che perdono. Piacerebbe a tutti che il nostro campione preferito vincesse sempre e dovunque, passando da un successo all’altro senza soluzione di continuità… che barba, che noia… CHE PALLE! Essere umani, nello sport, non vuol dire conquistare vittorie al ritmo di una slot machine; vuol dire cercare di migliorarsi, cercare di dare sempre il proprio meglio e infine farsi un esame di coscienza tutte le sere. E assolversi, se è il caso. Oppure condannarsi a qualche sacrificio in più l’indomani.
Allo stesso modo, chi tifa da casa guardando la televisione, o stando ai bordi del campo di gara, dovrebbe sempre ricordare che in ogni confronto c’è un proprio simile che sta guardando lo stesso evento in un’altra casa, o stando seduto in un’altra tribuna, che pensa le stesse cose e soffre in uguale quantità. Che ha il diritto di vedere il proprio beniamino o la propria squadra vincere come lo abbiamo noi. Perché dunque assistiamo giorno dopo giorno allo “spettacolo” delle contestazioni, degli incidenti, degli insulti, delle critiche gratuite? Non nascondiamoci sempre dietro al fatto che anche lo sport è lo specchio della società moderna, perché la cosiddetta “società moderna” siamo sempre tutti noi, ognuno di noi. Forse che qualcuno di obbliga a contestare sempre, scatenare putiferi, insultare e criticare a vanvera questo e quello per un risultato non raggiunto o un piazzamento non prestigioso? Vale sempre quello che diceva… boh? Einstein?... “Affinché al mondo ci sia un idiota di meno, è sufficiente che io non lo diventi”.
Cosa c’entra tutto questo con “Al bar dello sport”, Lino Banfi e Jerry Calà? Calma. Ci arrivo. La santità tra i lettori dei blog non la si guadagna così facilmente, arrivando alla fine di un (bellissimo peraltro) post di Dopolav-ori. Se, giunti davanti a San Pietro, vorrete scavalcare tutta la coda e sedervi sulla nuvoletta con Dario P., con Larrycette, Ori-Giulio e compagnia, allora mi sa che dovete bere l’amaro calice fino in fondo.
La mia personale morale di tutto quanto scritto sopra è che, quinti al “redde rationem” del risultato finale, bisogna avere il coraggio di valutarsi e di valutare, di assolversi quando occorre e di assolvere quando serve. Vorrei avere un euro per tutte le volte che ho pensato ad Alexi Lalas che aveva affrontato vis-à-vis i tifosi inferociti del Padova dicendo “Ehi, ragazzi! Abbiamo perso ma abbiamo fatto del nostro meglio, cosa potevate chiedere di più?”. Assolversi con coscienza significa essersi guadagnati un’altra notte di sonno e un’altra giornata di motivazioni positive. Assolvere con coscienza significa avere rispetto per gli sforzi del nostro campione o della nostra squadra preferita e avere capito che lassù in alto, in cima a quella bene\maledetta classifica, c’è sempre solo posto per uno solo.
Perdonare è ciò che non sempre siamo in grado di fare. Essere incapaci di perdonare se stessi è una punizione che ci auto-infliggiamo, fino a farla diventare una delle peggiori punizioni che possiamo patire. Qualcuno può arrivare a pensare che andare nel bosco “a freddo” per un percorso MA, fosse anche quello della gara regionale della JTT ad Andalo, quando si sono passati i 45 anni ed i chili sono quelli dell’impiegato panzottello, possa sembrare una punizione più fisica che mentale; ma persino le meravigliose peonie rosa che abbiamo trovato lungo le prime tratte, nella parte alta delle lanterne dove sono passati solo i percorsi assoluti, si sono accorte che in quella gara il patimento fisico era ben lungi dall’essere paragonabile a quello mentale…
Ma adesso arriviamo a “Al bar dello sport”. Un B-movie tutto sommato stereotipato, con un Banfi-sfigato nella parte del poveraccio vessato dalla vita ed un Calà-macchietta ancora più sfigato (rimasto muto dopo aver perso tutto al poker) che trovano l’unico motivo di sfogo nella compilazione della schedina, e un ulteriore motivo di tristezza nel tredici al Totocalcio che, domenica dopo domenica, non arriva mai. La storia dovrebbe essere nota: Banfi viene convinto da Calà a giocare una “fissa anomala”, un “2” secco su Juventus-Catania in una schedina compilata per i restante 12 risultati tutta da Banfi. La scena di Banfi che segue i risultati in diretta a “Domenica IN” lo vede avvicinarsi sempre più all’agognato “13” man mano che ci si avvicina al novantesimo minuto; unico risultato errato in tutta la schedina resta il maledetto “2” di Juventus-Catania che, ovviamente irrealizzabile, non gli consente di fare quel “13” che non gli cambierebbe la vita ma che gli consentirebbe di vivere una esistenza meno stentata e meno vessata dai parenti…
Però la storia ha una morale. Arriva infatti il momento nel quale Banfi capisce che, in fondo, un poveraccio come lui può godere dei pochi soldi di quel “12” anche se non ha centrato il risultato pieno. Che non vale la pena rovinare una amicizia per una schedina. Che ci si può accontentare del poco, quando l’alternativa è quella di non avere nulla. E puntualmente il destino premia il suo gesto positivo, nella notizia del clamoroso pareggio del Catania a pochi minuti dalla fine della partita che trasforma il risultato in quella “X” che sicuramente non avrebbe mai e poi mai inserito in schedina: il senso di amicizia per il povero “Parola” (Calà) di rinnova ed ancora più in pace è il cuore. La cronaca dell’ultimo minuto delle partite, che non è l’angosciante “Ultimo minuto” di Pupi Avati dell’omonimo film, arriva a mettere fine alle sofferenze di Banfi… probabilmente si trova su youtube: se non lo conoscete, senz’altro non avete vissuto gli anni ’80.
Allora cosa c’entra la morale, l’assoluzione, “Al bar dello sport”, “Ultimo minuto” ed il premio che arriva a chi sa assolvere ed assolversi in totale onestà di cuore? C’entra il fatto che un “epsilon piccolo a piacere” di medaglia d’oro, a Gelindo Bordin sono convinto di averla fatta vincere anche io!
E’ stata una Olimpiade strana, quella di Seul 1988. Le stranezze sono cominciate subito, nei primi giorni di gare, durante le giornate cocenti durante le quali preparavo l’esame di Geometria e più che occuparmi di tensori, gruppi, anelli e spazi mi chiedevo cosa ne sarebbe stato della mia vita di lì a poche settimane. Avevo già deciso di mollare l’università, e quindi che cosa me ne facevo di un esame in più o in meno? Avrei potuto benissimo starmene a guardare tutto il giorno le Olimpiadi in televisione! Fu così che mi decisi solo all’ultimo momento a preparare l’esame, un momento talmente “last” che sull’ultima parte del programma avevo dovuto scegliere se studiare i teoremi della pagina sinistra o quelli della pagina destra del libro… non avevo tempo di fare tutto. Scelsi la sinistra. Studiavo durante la giornata, con la televisione che trasmetteva le dirette da Seul, e studiavo di sera: non avevamo ancora le zanzariere, ma con il caldo tropicale di quei giorni di fine settembre era impossibile tenere le finestre chiude. Mio padre vegliava le mie sedute serali a finestre spalancate e luce accesa, aggirandosi con un asciugamano in mano e spiaccicando a raffica sul soffitto o sulle pareti, come Tex Willer con i cattivi, nugoli di zanzare.
Nonostante la mia incredulità, nonostante le distrazioni e la poca voglia, l’esame si risolse in un successo strepitoso… Solo all’ultima domanda dovetti confessare al professor Sce che non conoscevo la risposta perché la dimostrazione che mi aveva chiesto era nella pagina di destra del libro: si mise a ridere davanti alla mia “confessione” e dopo 90 minuti di tartassature mi congedò con un voto pieno. Dicevo delle stranezze: tornato a casa, mi concessi il rito di ascoltare “Fortress around your heart” a palla sull’hi-fi (cosa che ho fatto fino alla laurea… già, dopo quell’esame di Geometria decisi di proseguire gli studi fino a laurearmi in Fisica). Sullo schermo della televisione, muta, scorrevano i risultati della notte olimpica. E quando lessi “Italia-Zambia 0-4” rimasi lì per un paio di minuti a capire dove fosse la stranezza di quel che stavo leggendo, di quel risultato che aveva un ritmo un po’ strano… finché non capii che il risultato era proprio quello che stavo leggendo: solo il giorno di Italia-Zambia 0-4 potevo svoltare di brutto nella mia vita universitaria fino a diventare uno stimato (no, in realtà assai poco stimato) Dottore in Fisica.
Probabilmente le probabilità che la partita potesse finire con quel risultato erano le stesse che potevo nutrire io domenica scorsa di vincere la Coppa Italia al Fausior… Il fatto che ogni tanto certe minime probabilità si avverino, non offre alcun tipo di garanzia alla possibilità che un giorno anche io possa vincere una gara di Coppa Italia! Credo che il terreno del Fausior vada decisamente oltre le mie possibilità orientistiche: qualcuno me lo aveva definito “la Norvegia italiana”, e devo ringraziare la buon sorte che mi ha fatto trovare abbastanza bene la lanterna 10 se sono riuscito ad arrivare al traguardo in tempo per vedere scoccare l’ora zero di gara alle ore 10!
Gelindo era il Campione Europeo di Stoccarda. Era la medaglia di bronzo mondiale di Roma. Ma nonostante nel corso degli anni mi sia convinto del fatto che la Maratona sia la gara che da sola offre un senso a tutte quante le altre medaglie olimpiche, non avrei mai speso una notte ad aspettare l’arrivo della Maratona se non fosse stato per quella dichiarazione di Bordin alla vigilia, mentre i cronisti locali coccolavano il favorito, il campione del mondo Douglas Wakiihuri: “Non hanno capito che domani ci sono anche io, e che io gli arrivo davanti”. Ce n’era abbastanza per cercare di stare svegli.
Cosa che riesco a fare. Cosa che riesco a fare. Cosa che riesco a NON fare! Che cosa servono a fare le sveglie se non si usano nelle occasioni che contano? (lascio perdere cosa penso oggi delle sveglie, dopo settimane passate ad alzarmi alle 4 e 17 del mattino per prendere il volo per il Lussemburgo!). Quando mi sveglio, oltre metà della gara è andata; la voce di Mazzocchi, preferita a quella di Paolo Rosi, annuncia l’accelerazione di Bordin attorno al 20° chilometro per sfoltire il gruppo… Bordin che di solito è l’ultimo a muoversi, Bordin che di solito non consuma mai energie preziose. Chilometro dopo chilometro, il gruppo dei primi si allunga. I vagoncini più stanchi perdono contatto. Potrebbe scapparci la medaglia, ma quella che voglio vedere al collo di Bordin è quella d’oro. Ed è per questo motivo che la delusione è fortissima quando, sull’attacco di Ahmed Salah, Bordin si stacca ed improvvisamente il sogno della medaglia d’oro si spegne trasformandosi nella speranza che da dietro non arrivino né Moneghetti né Spedding né Nakayama. E’ per lo stesso motivo che nasce quasi un rimpianto per essermi svegliato per vedere una gara perdente, per vedere un sogno che non può diventare realtà.
Mi arrabbio con Bordin, per non aver saputo mantenere la promessa, per aver sprecato energie preziose all’attacco a metà gara. E intanto Bordin si stacca sempre di più, e la lotta per la medaglia d’oro sembra rimanere quella tra Salah e Wakiihuri. Finché ad un certo momento, dietro una curva, qualcosa scatta come quando ho deciso di mettermi a studiare per l’esame, e qualcosa mi dice che non c’è nessun motivo per essere arrabbiati con Gelindo Bordin, che non ha senso essere delusi per quello che sto vedendo in televisione. Decido, fortemente e sicuramente, di “perdonare” Bordin, di assolverlo e di liberarlo dal peso della mia delusione. Ed è in quel preciso momento, mentre i primi tre della Maratona olimpica si avvicinano al rifornimento del 40* chilometro, che le ombre che separano Wakiihuri e Bordin si fanno decisamente più vicine, e non è più una illusione ottica.
Il resto è storia nota: Bordin sorpassa Wakiihuri di slancio al rifornimento, una regia delirante o illuminata come poche nasconde Bordin per almeno un minuto mostrando solo lo sguardo sfinito poi allucinato di Salah. Bordin sorpassa Salah e si sente distintamente il mormorio che sale dalle case all’alba quando sullo schermo compare la scritta “Gelindo Bordin – current leader” entra nelle finestre spalancate dell’alba estiva del 1988. Ed infine Mazzocchi esprime il meglio di se stesso, consegnando ai posteri la frase “Sono rimasto da solo nei 5 minuti più tremendi della mia carriera di telecronista”.
http://www.youtube.com/watch?v=P7vCZ_L0UrQ
Gelindo Bordin, medaglia d’oro nella Maratona olimpica alle Olimpiadi di Seul 1998 è la mia personale medaglia di bronzo dei ricordi sportivi televisivi, e si da il caso che ancora oggi una parte in fondo al cuore del mio “io” pensi che quella medaglia si sia concretizzata solo quando tutti coloro che stavano guardando la gara, penando per il risultato finale, hanno “perdonato” il protagonista di questa storia. Come fece Lino Banfi con Jerry Calà, prima che una doppietta di Cantarutti andasse a mostrare (fosse anche solo in un film) che perdonare con coscienza può persino far vincere il Catania contro la Juventus e che perdonare con sentimento potrebbe persino spingere un maratoneta a vincere la medaglia d’oro alle Olimpiadi.
Ora bisogna scoprire come perdonare se stessi possa aiutare persino a venire fuori da un bosco… Ma quest'ultima è una storia che è ancora "work in progress"