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Friday, May 30, 2025

Ceci, mostri di fango e altre atrocità

L’orienteering è uno sport nel quale gli alti e i bassi si susseguono senza soste. Bisogna metterli in conto, punto. Alti e bassi nello stato di forma – d’altra parte mica mi chiamo Kasper Fosser, che se inciampa su una radice probabilmente vince lo stesso con cinque minuti di vantaggio e si scusa pure. Alti e bassi nella fase tecnica – perché non sono nemmeno Simone Luder, che probabilmente trova i punti anche bendata, ubriaca e con la cartina stampata al contrario. E sì, ho appena fatto name-dropping di due campioni, tanto per dimostrare ad alcune persone che ho conosciuto recentemente che anche se non conosco la storia dell’orienteering meglio della mia password del Wi-Fi, due nomi li so. Tre, contando me stesso: l’uomo che sbaglia anche con l’azimut tracciato col righello e lo spirito guida di Gueorgiou che gli urla nelle orecchie.

Tutto è relativo: quello che per me è un "alto", per qualcuno è un “meh”. E quello che è un mio "basso" potrebbe facilmente diventare, per altri, un “ma chi te lo fa fare alla tua età?”. Che detta così sembra una domanda retorica, ma nel mio caso è una diagnosi.

Il periodo, in termini assoluti, si aggira nei dintorni del basso/bassissimo dal punto di vista tecnico,  del bassissimo/inaccettabile da quello fisico, e del Dexter Morgan con crisi mistica da quello morale.
Sì, insomma, se la mia preparazione fosse una serie TV, sarebbe una via di mezzo tra Black Mirror e Un medico in famiglia: disturbante, confusionaria e con un protagonista fuori ruolo.

Salvo eccezioni. Rare, ma piacevoli. Piacevoli forse perché rare, tipo vedere Jeremy Clarkson su una bicicletta. Ma diciamocelo: si sarà mai divertito Gueorgiou che non si perde mai? Avrà mai provato il brivido, la scarica di adrenalina, quel “oh cavolo sono morto – ah no eccolo il punto!”? Io sì. Tante, tante volte. E a volte, incredibilmente, mi ritrovo pure. A volte per un punto, a volte per una gara intera.
Una di queste è stata la seconda gara della Due Giorni del Trebbia a Bobbio e Ceci.

Ok, chiariamo.
Non è che io sia andato più veloce del solito (ma nemmeno più lento, e già questa è una notizia). Non è che i miei attacchi al punto fossero degni del già citato francese con pizzetto mefistofelico, ma nemmeno ho fatto l’anatra decapitata che gira su se stessa. La fregatura, manco a dirlo, è arrivata al punto 7. Un punto banalissimo se solo fossi salito fino al sentiero, se solo avessi attaccato dalla curva. Ma no. Il mio cervello ha pensato “sono salito abbastanza” e invece no. Aveva mentito. Risultato: ho girato attorno a ogni roccia come un cane da tartufi col GPS in corto circuito, finché sono arrivato a guardare la forestale (la strada, non il corpo armato – anche se una volante sarebbe stata utile per ritrovare il punto). Io guardavo la strada. La strada guardava me. È scattata una tensione romantica e imbarazzante. Alla fine, sono risalito da sud lungo il sentierino fino alla famigerata curva, dove risuonano ancora le mie urla e probabilmente un paio di parolacce sono rimbalzate fino in Val d’Aosta.

E la statua di fango immortalata?

È accaduto al punto 12. Fatto benissimo, tra l’altro. Sì, ogni tanto capita anche a me. Scollino, giù lungo il nasone fino alla sella, aggira la collina tenendoti a destra. Perfetto. Poi guardo giù nel baratro e penso: “Il punto è lì. Vai giù, uomo!”. Mi siedo e mi lascio scivolare sul mio posteriore con la dignità di un pinguino zoppo. Solo che sotto, come peraltro chiarissimo a chiunque sappia leggere una mappa, c’era un altro sentierino, a ricciolo. E il ricciolo, come noto, porta sempre al disastro.

Rotolo giù. Fango, acqua, una buca, altra acqua, altro fango, molto fango, male parole interiori, male parole esteriori, e infine: io, coperto di fango come il mostro della laguna nera, che stringe una cartina lurida ma intatta come un reduce di guerra che torna a casa solo col cappello.


Conclusione:
Nel 2017 a Ceci me la cavavo. Nel 2025, con 8 anni di “esperienza” in più (leggasi: affaticamento, scuse, crisi esistenziali e scarpe sempre sbagliate), ho comunque portato a casa la pellaccia. Archivierei la trasferta con un incoraggiante e generoso “dai, benino”. Il che, per i miei standard, è quasi un trionfo. Clarkson direbbe: “It didn’t explode. I call that a win.”





1 comment:

  1. Larry2:41 PM

    Andiamo, io ci ho costruito un'epopea sulle gare finite (col culo) nel fango

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