L’orienteering
è uno sport nel quale gli alti e i bassi si susseguono senza soste. Bisogna
metterli in conto, punto. Alti e bassi nello stato di forma – d’altra parte
mica mi chiamo Kasper Fosser, che se inciampa su una radice
probabilmente vince lo stesso con cinque minuti di vantaggio e si scusa pure. Alti
e bassi nella fase tecnica – perché non sono nemmeno Simone Luder,
che probabilmente trova i punti anche bendata, ubriaca e con la cartina
stampata al contrario. E sì, ho appena fatto name-dropping di due campioni,
tanto per dimostrare ad alcune persone che ho conosciuto recentemente che anche se non conosco la storia dell’orienteering
meglio della mia password del Wi-Fi, due nomi li so. Tre, contando me
stesso: l’uomo che sbaglia anche con l’azimut tracciato col righello e
lo spirito guida di Gueorgiou che gli urla nelle orecchie.
Tutto è
relativo: quello che per me è un "alto", per qualcuno è un “meh”. E quello che è un mio "basso" potrebbe facilmente diventare, per
altri, un “ma chi te lo fa fare alla tua età?”. Che detta così sembra una
domanda retorica, ma nel mio caso è una diagnosi.
Il periodo,
in termini assoluti, si aggira nei dintorni del basso/bassissimo dal
punto di vista tecnico, del bassissimo/inaccettabile da quello
fisico, e del Dexter Morgan con crisi mistica da quello
morale.
Sì, insomma, se la mia preparazione fosse una serie TV, sarebbe una via di
mezzo tra Black Mirror e Un medico in famiglia:
disturbante, confusionaria e con un protagonista fuori ruolo.
Salvo
eccezioni. Rare, ma piacevoli. Piacevoli forse perché rare,
tipo vedere Jeremy Clarkson su una bicicletta. Ma diciamocelo: si sarà mai divertito Gueorgiou che non si perde mai? Avrà mai
provato il brivido, la scarica di adrenalina, quel “oh cavolo sono morto – ah
no eccolo il punto!”? Io sì. Tante, tante volte. E a volte, incredibilmente, mi ritrovo pure. A volte
per un punto, a volte per una gara intera.
Una di queste è stata la seconda gara della Due Giorni del Trebbia a Bobbio e
Ceci.
Ok,
chiariamo.
Non è che io sia andato più veloce del solito (ma nemmeno più lento, e già
questa è una notizia). Non è che i miei attacchi al punto fossero degni del già
citato francese con pizzetto mefistofelico, ma nemmeno ho fatto l’anatra
decapitata che gira su se stessa. La fregatura, manco a dirlo, è arrivata al punto 7. Un punto banalissimo se solo fossi salito fino al
sentiero, se solo avessi attaccato dalla curva. Ma no. Il mio
cervello ha pensato “sono salito abbastanza” e invece no. Aveva mentito. Risultato: ho girato attorno a ogni roccia come un cane da tartufi col GPS in
corto circuito, finché sono arrivato a guardare la forestale (la strada, non il
corpo armato – anche se una volante sarebbe stata utile per ritrovare il
punto). Io guardavo la strada. La strada guardava me. È scattata una tensione romantica
e imbarazzante. Alla fine, sono risalito da sud lungo il sentierino fino alla famigerata curva,
dove risuonano ancora le mie urla e probabilmente un paio di parolacce sono
rimbalzate fino in Val d’Aosta.
È accaduto al punto 12. Fatto benissimo, tra l’altro. Sì, ogni tanto capita
anche a me. Scollino, giù lungo il nasone fino alla sella, aggira la collina tenendoti a
destra. Perfetto. Poi guardo giù nel baratro e penso: “Il punto è lì. Vai giù, uomo!”. Mi siedo e mi lascio scivolare sul mio posteriore con la dignità di un pinguino
zoppo. Solo che sotto, come peraltro chiarissimo a chiunque sappia leggere una mappa, c’era un altro sentierino, a ricciolo. E il ricciolo,
come noto, porta sempre al disastro.
Rotolo giù.
Fango, acqua, una buca, altra acqua, altro fango, molto fango, male parole interiori, male parole esteriori,
e infine: io, coperto di fango come il mostro della laguna nera, che stringe
una cartina lurida ma intatta come un reduce di guerra che torna a casa solo
col cappello.
Conclusione:
Nel 2017 a Ceci me la cavavo. Nel 2025, con 8 anni di “esperienza” in più (leggasi: affaticamento, scuse,
crisi esistenziali e scarpe sempre sbagliate), ho comunque portato a casa la
pellaccia. Archivierei la trasferta con un incoraggiante e generoso “dai, benino”. Il che, per i miei standard, è quasi un trionfo. Clarkson direbbe: “It
didn’t explode. I call that a win.”
Andiamo, io ci ho costruito un'epopea sulle gare finite (col culo) nel fango
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