Stegal67 Blog

Friday, June 06, 2025

Come camminare all’indietro e confondere gli angeli custodi

 Chi ha avuto la geniale idea di fissare la partenza della mia gara sprint di Mezzano alle 13:30, sotto il sole trentino a piombo, con un’umidità che nemmeno nella giungla vietnamita durante la guerra? Ah già, gli stessi che pensano che il pettorale debba essere spillato come una bandiera pirata alla pancia, ignorando la fisica dei corpi… in evoluzione. Ma io, come un pensionato che si ostina a voler montare l’antenna da solo sul tetto, ci sono andato. Con la mia mappa, la mia dignità (residua) e l’illusione di non fare figure troppo imbarazzanti. Niente da fare: a Mezzano, lungo uno dei percorsi più belli degli ultimi anni, (grazie Aaron Gaio e GS Pavione) ho camminato all’indietro per tre volte.

Tre. Non una, non due. TRE. Perché ho “preso lungo” una casetta, poi un incrocio, poi un’altra delle mille casette. Girare la mappa? E poi rigirarla? No grazie: il mio sistema vestibolare è stato aggiornato l’ultima volta nel 1987, e il mio equilibrio si basa più sul ricordo che sulla realtà. Avevo due opzioni: o camminare all’indietro come un gambero senile, oppure cominciare a girare e rigirare su me stesso e con la mappa rischiando di vomitare come se stessi leggendo Ulisse di Joyce in giapponese, sottosopra, sulle curve che percorrono la Val d’Aveto. Ho scelto la dignità. Cioè… la meno umiliante delle due, diciamo.

Il bello è che a Mezzano in gara tutti correvano come se li fossero inseguiti da una mandria di cinghiali radioattivi. Io ricordo che arrancavo con la leggerezza di un frigorifero che ha fatto un sogno in cui era un ghepardo.

Ma poi, domenica, il miracolo. Passo Cereda. Gram posto. Posto magico, silenzioso, boscoso, poetico. Alle sei e mezza del mattino c’era solo il rumore degli uccellini e il mio stomaco che brontolava come una lavatrice con dentro i sassi. Parto con calma. Molta calma. Calma biblica. Guardo la malga davanti alla partenza con lo sguardo di Mosè che contempla il Mar Rosso prima di decidere se davvero valga la pena attraversarlo.

La gara lunga. Una delle long più belle, dice Dopolavori. Io aggiungerei anche “una delle più letali per le articolazioni dopo i 50”. Verso il penultimo attraversamento stradale entro in modalità “blackout totale”: glicemia sotto le scarpe, neuroni in fuga, cuore che mi guarda e dice: “Fratello, sei sicuro di voler salire fin là?”. Si, sono stato sicuro, a costo di finire sotto un pulmino degli sloveni in parcheggio, in manovra di parcheggio proprio nel punto in cui io stavo decidendo di atterrare dal bosco (dal sentiero delle mucche) per arrivare all’ultimo attraversamento.

Ma prima l’apparizione. Punto 62. Nessuno attorno da secoli, se si esclude il fossile di un concorrente visto parecchi punti di controllo prima (ciao Rachele, spero tu sia sopravvissuta). Nel nulla, sento un rumore. No, non era la Natura. Era un uomo. O forse una creatura mitologica. Balzava tra rocce e tronchi come Iron Man strafatto di Enervit. Io, che ormai mi muovevo come un Roomba scarico, l’ho guardato e gli ho chiesto con voce da predicatore in crisi di fede: “Sai dov’è la 62?”. “Certo, è qui a 20 metri. Ci sto andando.”

E puff, sparito in una nuvola di muschio. L’ho seguito. Lento, brutto, incerto, probabilmente piangendo dentro. Ma ci sono arrivato. Al punto 62. Miracolo. Al traguardo, confuso ma vivo, racconto dell’incontro. E Roberto Pradel, con la calma con cui si commenta l’arrivo della primavera, mi dice: “Ah sì, era Cristiano Simoni.”

Scusate. COSA?

Cristiano Simoni. Uno degli dei dell’orienteering anni ’90. Gente che, mentre noi io sbattevo contro i pini cercando un bivio di sentieri, lui aveva già vinto titoli italiani a manetta. Un uomo che al confronto, io, sono una creatura uscita da un incrocio tra una foca in letargo e un navigatore rotto. E’ lui che mi ha trovato nel bosco. E poi all’arrivo ha detto ai suoi amici dell’US Primiero: “C’era uno brizzolato che cercava un punto”. Brizzolato. Non “coraggioso”, non “tenace”. Brizzolato. Come dire: “Lo zio stanco”.

Ma sapete una cosa? È il momento di abbracciare il mio destino. Non sono più un IP – Impiegato Panzottello. 
Da oggi, chiamatemi: BIP – Brizzolato Impiegato Panzottello. 
Un titolo onorifico. 
Un riconoscimento al limite dell’assurdo. 
Una medaglia al valore per chi ha il fiatone al punto 2 ma non molla mai.
Un uomo. 
Una leggenda. 
Un BIP. 

E adesso scusate, è il momento di andare a sbattere contro un’altra mappa. Da leggere senza girarla, anche a costo di camminare all’indietro, come a Mezzano.

Friday, May 30, 2025

Ceci, mostri di fango e altre atrocità

L’orienteering è uno sport nel quale gli alti e i bassi si susseguono senza soste. Bisogna metterli in conto, punto. Alti e bassi nello stato di forma – d’altra parte mica mi chiamo Kasper Fosser, che se inciampa su una radice probabilmente vince lo stesso con cinque minuti di vantaggio e si scusa pure. Alti e bassi nella fase tecnica – perché non sono nemmeno Simone Luder, che probabilmente trova i punti anche bendata, ubriaca e con la cartina stampata al contrario. E sì, ho appena fatto name-dropping di due campioni, tanto per dimostrare ad alcune persone che ho conosciuto recentemente che anche se non conosco la storia dell’orienteering meglio della mia password del Wi-Fi, due nomi li so. Tre, contando me stesso: l’uomo che sbaglia anche con l’azimut tracciato col righello e lo spirito guida di Gueorgiou che gli urla nelle orecchie.

Tutto è relativo: quello che per me è un "alto", per qualcuno è un “meh”. E quello che è un mio "basso" potrebbe facilmente diventare, per altri, un “ma chi te lo fa fare alla tua età?”. Che detta così sembra una domanda retorica, ma nel mio caso è una diagnosi.

Il periodo, in termini assoluti, si aggira nei dintorni del basso/bassissimo dal punto di vista tecnico,  del bassissimo/inaccettabile da quello fisico, e del Dexter Morgan con crisi mistica da quello morale.
Sì, insomma, se la mia preparazione fosse una serie TV, sarebbe una via di mezzo tra Black Mirror e Un medico in famiglia: disturbante, confusionaria e con un protagonista fuori ruolo.

Salvo eccezioni. Rare, ma piacevoli. Piacevoli forse perché rare, tipo vedere Jeremy Clarkson su una bicicletta. Ma diciamocelo: si sarà mai divertito Gueorgiou che non si perde mai? Avrà mai provato il brivido, la scarica di adrenalina, quel “oh cavolo sono morto – ah no eccolo il punto!”? Io sì. Tante, tante volte. E a volte, incredibilmente, mi ritrovo pure. A volte per un punto, a volte per una gara intera.
Una di queste è stata la seconda gara della Due Giorni del Trebbia a Bobbio e Ceci.

Ok, chiariamo.
Non è che io sia andato più veloce del solito (ma nemmeno più lento, e già questa è una notizia). Non è che i miei attacchi al punto fossero degni del già citato francese con pizzetto mefistofelico, ma nemmeno ho fatto l’anatra decapitata che gira su se stessa. La fregatura, manco a dirlo, è arrivata al punto 7. Un punto banalissimo se solo fossi salito fino al sentiero, se solo avessi attaccato dalla curva. Ma no. Il mio cervello ha pensato “sono salito abbastanza” e invece no. Aveva mentito. Risultato: ho girato attorno a ogni roccia come un cane da tartufi col GPS in corto circuito, finché sono arrivato a guardare la forestale (la strada, non il corpo armato – anche se una volante sarebbe stata utile per ritrovare il punto). Io guardavo la strada. La strada guardava me. È scattata una tensione romantica e imbarazzante. Alla fine, sono risalito da sud lungo il sentierino fino alla famigerata curva, dove risuonano ancora le mie urla e probabilmente un paio di parolacce sono rimbalzate fino in Val d’Aosta.

E la statua di fango immortalata?

È accaduto al punto 12. Fatto benissimo, tra l’altro. Sì, ogni tanto capita anche a me. Scollino, giù lungo il nasone fino alla sella, aggira la collina tenendoti a destra. Perfetto. Poi guardo giù nel baratro e penso: “Il punto è lì. Vai giù, uomo!”. Mi siedo e mi lascio scivolare sul mio posteriore con la dignità di un pinguino zoppo. Solo che sotto, come peraltro chiarissimo a chiunque sappia leggere una mappa, c’era un altro sentierino, a ricciolo. E il ricciolo, come noto, porta sempre al disastro.

Rotolo giù. Fango, acqua, una buca, altra acqua, altro fango, molto fango, male parole interiori, male parole esteriori, e infine: io, coperto di fango come il mostro della laguna nera, che stringe una cartina lurida ma intatta come un reduce di guerra che torna a casa solo col cappello.


Conclusione:
Nel 2017 a Ceci me la cavavo. Nel 2025, con 8 anni di “esperienza” in più (leggasi: affaticamento, scuse, crisi esistenziali e scarpe sempre sbagliate), ho comunque portato a casa la pellaccia. Archivierei la trasferta con un incoraggiante e generoso “dai, benino”. Il che, per i miei standard, è quasi un trionfo. Clarkson direbbe: “It didn’t explode. I call that a win.”





Friday, May 23, 2025

Non c’è countdown!”… e altre storie da portare sull’arca dei ricordi

Lo confesso: quando mi esce dalle corde vocali la frase “Non c’è countdown!”, lo faccio con tutto il fiato che ho in corpo, come se dovessi svegliare una foresta addormentata. E ormai lo sanno tutti. Persino i sassi ed i massi attorno a me, qualunque sia la differenza tra le due cose in ISSOM o ISPROM (sigle e cose che non ho mai capito e che non voglio capire, perché, come diceva Feynman, bisogna pure conservarsi delle oasi di ignoranza). Lo sanno pure i piccioni della piazzetta di Rotonda. Quel grido, per chi sa ascoltarlo, è il segnale che qualcosa di importante sta per succedere. È il momento in cui le emozioni si condensano e diventano storia.

In ogni occasione, ho cercato di fare del mio meglio. Come a fine aprile, a parecchie centinaia di chilometri di distanza da casa. Tre giorni, tre gare, quasi dieci ore di commento live. Ho cercato di dare voce a ogni arrivo, ho cercato di raccontare ogni emozione, ogni risultato, ogni lacrima e ogni sorriso. Ho urlato troppo, sì – lo so, lo so!!!!! – ma l’ho fatto con il cuore pieno, la voce rotta e la voglia matta di rendere l’idea grande di un evento che grande avrebbe voluto esserlo davvero anche senza la mia presenza.

Un microfono serve per rendere mille emozioni

Ho una buona notizia e una meno buona…” – anche questa frase è diventata un piccolo rito. Un momento che tanti genitori, quando arriva sul traguardo o compaiono là in fondo alla run-in, attendono con un misto di ansia e speranza. Elena Margiore che corre per Gabriele Giudici, Alexander Schuster che porta in trionfo Elisabeth, Kathrin e Kilian, e il sorriso impagabile di mamma Manuela quando scopre che anche papà Alexander ha portato a casa il titolo. E come dimenticare la reazione di Pierdomenico, a cui frega di meno sapere di essere argento ai campionati italiani master, perché vuole solo sapere qualcosa di suo figlio Mattia, la cui medaglia di bronzo tra i giovani diventa in un battibaleno l’ariete che sfonda la porta delle sue emozioni irrefrenabili. Helmuth Soelva che si ferma a metà respiro quando sente che Jonas è podio in Elite. Nicola Bonato che mentre sta là in cima, sopra il costone che sovrasta l‘arrivo  dove arriva nitida la voce dello speaker, sente il nome di Giada e poi le parole “campionessa italiana” e si dimentica di correre la sua gara perché in quell’istante non conta più nulla tranne venire giù nel più breve tempo possibile per il primo abbraccio.

E come dimenticare Damiano Bettega, secondo al traguardo in Elite, che trasforma l’espressione da uno sconsolato “vabbè” a “WHAT?!” quando realizza che anche suo fratello è nei top five. O lo zio Adriano, impietrito alla stessa notizia come se avesse appena letto il finale di un giallo con un doppio colpo di scena carpiato. O la faccia di Sebastian quando realizza che in testa alla Elite ci sono lui e Noemi: fratello e sorella, insieme.

Abbracci, sguardi, promesse

Gli arrivi raccontano molto più delle classifiche. Abbracci tra chi ha vinto e chi è appena stato battuto. Lacrime, di delusione o di incredulità. La voce spezzata dell’atleta Elite che arriva al traguardo e ancora non ci crede di aver finito una gara impossibile. Le voci dei ragazzi che ieri erano bambini e oggi ti guardano da pari. Le ragazze che ieri giocavano a fare le “sottilette” e oggi sono spine nel fianco in ogni categoria.

E poi c’è quella cosa bellissima: chi taglia il traguardo, e prima ancora di prendere fiato, prende il microfono e ti dice “come avevi detto tu… è stato bellissimo”. E tu ti dici: ok, almeno questo me lo avete concesso…

L’amarezza. Dopo 513, 514, 515 gare come speaker. Dopo aver prestato voce a WOC, EOC, JWOC, WMOC e Coppe del Mondo. Dopo aver fatto apripista più di 500 volte. Dopo la gara long (3 ore e 43), la middle (1 ora e 23), il labirinto di Rotonda, e ore e ore al microfono… mi sono sentito dire che le mie parole hanno “mortificato la Calabria”, che l’evento meritava di meglio. Eppure avevo detto solo: “Non è la Calabria che scopre l’orienteering, ma è l’orienteering che scopre la Calabria”. L’ho detto come complimento. L’ho detto con l’orgoglio di chi sa che Piani di Masistro, Piano Pedarreto e Rotonda non sono solo località, ma diventano memoria collettiva, diventano parte della geografia emotiva di questo sport.

Perché sì, io voterò il middle di Cristian nel sondaggio di WorldofO. Sì, vedremo le foto di questi arrivi sulle bacheche per mesi. Sì, gli atleti condivideranno le loro tracce per dire “Io c’ero. Io ci sono riuscito.” Ma forse – ed è qui l’amara ironia – tutto questo non basta. Resta quel rimprovero, e allora… anche basta così. Grazie, la prossima volta rimango nei paraggi di casa


 

Post scriptum:

Promemoria per me stesso:

Imparare a non urlare “Non c’è countdown!” ogni cinque minuti.

Imparare a non urlare, punto

Imparare a lasciarsi scivolare via le cose che non vanno

Limitare le gare all’alba (forse).

Ma soprattutto: trovare le forze per continuare ad esserci, perché questa voce, finché servirà, continuerà a raccontare nello stesso identico modo in cui l’ho fatto fino a poche ore fa

NELLO
STESSO
IDENTICO
MODO

Non sperate che io cambi registro. Non posso farlo. Sarebbe come chiedere ad un falco di volare all’indietro, come insegnare a Thierry a perdersi nel bosco, come imporre ai ragazzi ed alle ragazze di spegnere il loro sorriso.







Visto che sei arrivato fino a qui, tanto vale che io vada avanti con alcune considerazioni personali, che non contano niente (come me). Come è questo orienteering in salsa calabro\lucana? E questa Coppa dei Paesi (non più tanto) Latini?

Località suggestive, panorami mozzafiato, accoglienza calda (a tratti proprio calabrese, dove dopo 5 minuti di chiacchiere sei uno di famiglia), ma… quanta fatica per farli quei 330 iscritti! Già, perché tra Coppa Italia, Campionato Italiano Middle e l'intramontabile Latinum Certamen, di cui ormai si favoleggia come del Festivalbar, il parterre era, come dire… selezionatissimo. In fondo, partecipare alla Coppa dei Paesi Latini nel 2025 sembra un po’ come presentarsi a una cena di gala con lo smoking pensando di essere sul red carpet quando gli altri sono già passati da un pezzo al trancio di pizza sul divano di un loft meno dress code e più smart casual. Dove sono finiti i tempi in cui i francesi si presentavano al via con coloro che stavano appena alle spalle di Sua Maestà le Roi Gueorgiou? Gli spagnoli che “eh ma quando mai gli spagnoli ci faranno un baffo (da conquistadores) nell’orienteering…?” e oggi basta leggere le classifiche alla voce “Ana Isabel Toledo” o “Maria Prieto del Campo” ed altri ancora. E poi i belgi con la loro compostezza e quel fatto di essere latini un po’ tanto del nord, ma per capire a che livello siamo, basta leggere sempre alla voce Yannick Michiels degli ultimi anni, ma non solo. E gli svizzeri dell’Engadina che “Eh si… poi invitiamo gli svizzeri e ti arrivano quelli crucchi dai cantoni zurighesi a portarsi via il trofeo!” (come se non bastassero ticinesi o engadinesi per farci a fettine?)

Eh, forse hanno confuso il Latinum con un nuovo spin-off di Suburra. Oppure, più semplicemente, ormai c’è un calendario così zeppo ma così zeppo che per trovare un buco per una gara internazionale ci vuole più fortuna che per entrare alla facoltà di medicina. E noi? Noi ce la cantiamo e ce la suoniamo. Ma lo facciamo bene, eh?

Spostando l’attenzione sulla partecipazione, però, qui un piccolo mistero degno di Montalbano. Io non è che sono molto bravo a fare i calcoli, ho solo la mia laurea in Fisica, ma ho contato che su circa 330 atleti, appena otto provenivano dalle regioni del Sud. Chiaro che molti atleti e molte atlete avranno dato una mano ad organizzare… ma otto? Di cui solo tre in categorie che assegnavano titoli italiani. C’è più gente in fila davanti a una pasticceria la domenica mattina.

Eppure, spesso si sente dire: "Eh, al Sud non ci sono mai gare!" Bene, eccole. Fatto. Venite! Venite a vedere se Sebastian Inderst e Anna Pradel di cui si favoleggia negli articoli di P.I. hanno una testa due gambe e due braccia come tutti gli altri o se “Eh… cosa vuoi… hanno quattro gambe e corrono con il motore incorporato!”. Scherzi a parte, la questione secondo me è seria. Dico ma non dico, eh?  Ma se si vuole davvero uno sviluppo omogeneo della disciplina su tutto il territorio nazionale, forse bisognerebbe riflettere un po’ di più su dove si mettono le gare chiave, oppure su come evitare che i 330 del centro nord in coda in autostrada sulla via del ritorno pensino “ne è valsa la pena?”. Soprattutto quando ci si trova in un momento di "nuova legislatura" (messaggio anche per il precedente Consiglio Federale, che ha passato la “peppa” al nuovo), dal quale tutti si aspettano scelte illuminanti, o almeno accese. In fondo, non è che portando una Coppa Italia in Calabria si risolva il problema della partecipazione delle centinaia di tesserati delle regioni del sud come per magia. Se, come dicono certi benpensanti delle mie parti che il sud l’hanno visto solo nelle serie Netflix “Lì non ci sono neanche i treni che arrivano in orario…”, figuriamoci le classifiche.

Intendiamoci, le gare sono state bellissime. Complimenti a chi ha scelto i terreni di gara. Complimenti a Cristian Bellotto e Simone Grassi. Tracciati intelligenti, terreno stimolante, mappe benissimo fatte, location da cartolina dentro e fuori dal bosco che a tratti a me sembrava il Cansiglio, a tratti il carso, a tratti Millegrobbe, e da qualche settimana è solo ed esclusivamente il Pollino. Ma se organizzi un bel concerto in cima al Monte Pollino, poi ti stupisci che non arrivi tutto questo pubblico dal nord, e allo stesso tempo non sei in grado di comprendere il motivo per il quale non è venuto quasi nessuno dal sud, forse il problema non è nel volume dell’amplificatore.

In definitiva, applausi a chi ha corso, ha organizzato (Sandro Passante e Maura Carluccio in primis) e ha resistito. E un pensiero gentile a chi ancora crede che il Latinum Certamen sia un evento di respiro internazionale. Lo è stato. Come Ritorno al Futuro. Ma ora, magari, è tempo di aggiornare il DeLorean.

Thursday, April 03, 2025

Arenzano, Genova Voltri e la voce che gracchia

Sabato 29 marzo e domenica 30 marzo sono stati due giorni di pura adrenalina e orientamento tra i vicoli ed i caruggi di Arenzano e Genova Voltri. Urban orienteering doveva essere, ed urban orienteering è stato. Solo che altrove, leggi: altre nazioni nelle quali le case e le vie le hanno ritate su con la squadra ed il goniometro, le gare sprint diventano talvolta una sfida a chi va più veloce nello scegliere tra “la prima a destra e poi la prima a sinistra” o la alternativa “la prima a sinistra e poi la prima a destra”. In Italia, magari mica sempre, ma sempre più spesso, i terreni di gara di una sprint sono catalogabili sotto la voce “Labirinti di Minosse”. Credo che tra le citazioni più riuscite del fine settimana, la più memorabile sia stata quella che ha paragonato il terreno di gara alle vecchie mappe di Dungeon and Dragons (cerco trappole, tesori, passaggi segreti e lancio di dado da 20…) o a quei giochini della Settimana Enigmistica nei quali il topino dele trovare il formaggio evitando le trappole. Io, nel mio caracollare stanco per vicoli e caruggi, non ho trovato tesori, sono spesso caduto nelle trappole e quanto a passaggi segreti… devono averli tenuti tutti per gli Elite e le Elite del gruppo rosso!

Ma siòre e siòri non sono mica qui a raccontare le mie performances orientistiche, bensì a parlare della vera autentica inconfondibile e speriamo unica protagonista della due giorni! Il vero show non è stato l’orienteering, ma la mia inconfondibile, incomparabile e... piuttosto malridotta voce da Arena Speaker.

Ora, prima che iniziate a fare congetture su cosa voglia dire esattamente essere un "arena speaker", lasciate che vi rassicuri: il compito di un arena speaker non è solo quello di urlare nei microfoni come un invasato (nonostante io faccia praticamente solo questo da 20 anni). Oh no, il mio lavoro è ben più nobile. Sono l'artefice dell'atmosfera, l’incantatore di folle, colui che incalza con parole cariche di energia e emozione (anche se quest'ultima, purtroppo, è un po' mancata per colpa di una voce che sembrava più adatta a risuonare nei corridoi di una vecchia scuola di medicina che in un’arena sportiva).

La verità è che, appena rientrato da Matera (chi ha seguito la puntata precedente già sa che anche quella era già una gara di resistenza vocale), la mia voce si presentava con il carattere di un sottile filo di seta pronto a spezzarsi al primo vento. E infatti, il sabato mattina, fin dai primi arrivi delle categorie giovanili e master, è stato subito chiaro che la mia condizione non prometteva nulla di buono: chiunque si trovasse a passare sotto la mia “tenda vocale” sentiva un suono che, a metà strada tra un gorgoglio di rana e il ruggito di un leone alle prese con un raffreddore, avrebbe sicuramente suscitato reazioni tra l’esilarante e il comico.

Immaginate il panorama: gli atleti si concentrano, faticano, arrivano al traguardo trafelati e quando si aspettano magari una carica di entusiasmo e incoraggiamento, si sentono rispondere con un "Benvenut—gracch,—benvenuto a... arrivo, sì… ARRIVO!" – Il pubblico inizia a guardarsi intorno, come se stesse cercando di capire se quello sia un messaggio segreto, un nuovo linguaggio sviluppato in mezzo ai boschi. E non è finita qui. Già alla seconda annunciazione, quando il mio “Benvenuti alla Coppa Italia!” ha preso la forma di un sussurro che avrebbe potuto far addormentare anche un drago in trance, la gente ha cominciato a fare commenti.

Top Four dei commenti, senza citazione del o della persona (ma me la pagheranno, oh se me la pagheranno!!!):

1.     "Pensavo che fosse un nuovo trend: parlare in questo modo ti rende più... misterioso!"

2.     "Prova a dirlo con l’accento veneto, magari ti aiuta a trovare un po' di forza!" (????????? ancora devo capire il significato della frase, se qualcuno può spiegarmi)

3.     C'è stato persino qualcuno che mi ha chiesto se fosse il mio primo giorno da speaker, dicendo che non avrei potuto scegliere una carriera migliore per allenare il polmone (sì, l’ironia degli orientisti è sempre al top, specie quando si tratta di sensibilizzare sulla mia... fragile condizione vocale).

4.     Non poteva mancare anche l’osservazione di una concorrente: “Hai mai pensato a fare il doppiatore di un fumetto horror? La tua voce sarebbe perfetta per un personaggio zombie!”

Gli stranieri… no, loro non hanno commentato. Ma devono aver pensato. Rita Maramarosi, ad esempio, sta pensando di non venire proprio ai JWOC, al solo pensiero di doversi sorbire uella voce per 5 giorni di gare. Altre, che mi hanno ascoltato per la prima volta, mi guardavano con quel giusto misto di disgusto pena e raccapriccio come a dire “ma non c’era nulla di meglio in tutta Italia?”. Yannick Michiels? Beh… lui è un signore: sa che io sono la sua maledizione ed è rassicurato dal fatto che gli organizzatori degli Europei Urban che disputerà in casa a fine agosto mi hanno dichiarato “persona non grafita”. Di Hubmann non si sa nulla… ma lui a Genova non c’era, impegnato nelle lezioni quotidiane di turco.

Alla fine, però, devo ammettere che la mia voce gracchiante ha avuto il suo lato positivo. L'effetto nostalgia era assicurato! I più giovani si sono sorpresi di scoprire che le vecchie radio AM non sono poi così lontane nel tempo. E il pubblico più “veterano” si è divertito a ricordare i bei tempi in cui si ascoltava la radio a onde corte, sperando di captare qualche messaggio segreto proveniente dalle terre lontane.

Domenica a Genova Voltri, lo scenario non è cambiato. Anzi, il terreno di gara, già scelto per la World Cup del 2024, ha visto la mia voce “scomparire” pian piano tra gli ultimi arrivi, come un eco che va spegnendosi tra i vicoli, facendo però sì che ogni annuncio diventasse una sorta di sfida epica: "Riuscirò a completare la frase senza sparire nel nulla?" La risposta era sempre la stessa: “No, non ce la faccio!”



In sintesi, la Coppa Italia di Orienteering è stata una grande manifestazione di sport, ma l’effetto comico della mia voce gracchiante ha fatto sì che ogni partecipante si sentisse, per un momento, come parte di un esperimento sociologico: "Cosa accade se un speaker malato cerca di caricare gli atleti senza riuscire a produrre un suono comprensibile?". Concludo con un pensiero che mi ha accompagnato fino a casa: la cosa più importante che un arena speaker dovrebbe avere… è sicuramente la voce. E se questa non c'è, almeno ci si può consolare con il buon umore e con l’incoraggiamento del pubblico, che pur con un sorriso tra il compassionevole e il divertito, mi ha sempre regalato tanto calore che, seppur tremolante, spero di essere riuscito a trasmettere attraverso il microfono.

Friday, March 28, 2025

Marziani in Basilicata: un racconto di orienteering

"Sono arrivati! Siamo stati invasi da esseri di dimensioni inimmaginabili, venuti da un altro mondo, eppure… erano come noi! Più veloci, più precisi, più agili. Ma chi sono questi strani esseri?" – Orson Welles, La guerra dei mondi (1938)

La ventesima edizione del Mediterranean Open Championship 2025 in Basilicata è stata un’epopea, un incontro ravvicinato del terzo tipo, un invasion movie dove i protagonisti erano gli atleti venuti da 23 nazioni e io… beh, io ero il terrestre che cercava di non cadere in battaglia. Se proprio non ho potuto lottare con loro sullo stesso piano tecnico e della velocità (no, intendiamoci: nella patinoire di Matera, io 59’27” e il doppio reigning world champion Riccardo Rancan 20 minuti e rotti…), ho almeno cercato di tenere salda la barra del microfono, catalizzando su di me attenzioni e sguardi perplessi e di compatimento. Ma loro erano davvero marziani, noi, chiamiamoci pure "terrestri", eravamo quelli che cercavano di sbarazzarsi della polvere lunare e tornare a casa con un sorriso sornione, nonostante il nostro minor livello di competenza. Eppure, la Basilicata, con le sue terre selvagge e inospitali, non era il posto giusto per fare i timidi. Qui, tra i sassi di Matera, le valli di Montalbano e le colline di Pisticci, la sfida era all'ordine del giorno.

Ma lasciatemi raccontare.

Pisticci: Quando la Bussola Ti Dice "Mi Arrendo, finiamola qui ed amici come prima!"

La prima tappa è una sorta di "come ci siamo arrivati fin qui?" Perché, lo voglio mettere bene in chiarobene in chiaro, l’orienteering a Pisticci sembrava la preparazione a un conflitto atomico, ma con una bussola e una mappa. Pisticci, per i non lucani, è un paesino che sembra direttamente uscito dal set di un film western, ma con la polvere che, per qualche motivo, non sembra mai finire. Qui, gli atleti marziani sono sembrati adattarsi alla perfezione al terreno accidentato, mentre io ho cominciato fin da subito a sentire il peso della terra sotto i piedi, come se stessi cercando di camminare sulle sabbie mobili invece che sugli interminabili gradini accidentati e mai regolari del terreno di gara

Nel cuore del tracciato, diciamo dal primo fino al tredicesimo punto di controllo, una sequenza di salite e discese che nascondono trappole in ogni angolo. Il caldo, e parlo del primo caldo del 2025, che entra nelle ossa come il fuoco di una fiamma invisibile, non ha dato tregua. Loro, i "marziani" che sfrecciano a velocità assurda, io sempre inesorabilmente fuori rotta. La bussola? Non una guida, ma un oggetto misterioso che sembrava indicarmi le stelle quando in realtà avevo bisogno di un punto di riferimento più semplice.

“Dove siamo?”, mi chiedevo mentre sbirciavo intorno, convinto di essere arrivato alla fine di una tratta senza accorgermi che ero solo a metà e che ancora qualche angolo mi separava dalla lanterna! Ma alla fine, nonostante le difficoltà, una piccola vittoria terrestre l'ho avuta: sono riuscito ad arrivare al traguardo prima che la banda desse ufficialmente inizio al Mediterranean Open Championship 2025! Non con il miglior tempo, ma con il coraggio di chi sa che, alla fine, l'importante è partecipare. Non importa se cadi, è la forza di rialzarsi che conta, come direbbe Rocky Balboa (o era Thierry Gueorgiou dopo la middle del mondiale in Scozia?)

Rotondella: Tra La "Luce" e la Nebbia

Rotondella, la seconda tappa, è dove ho davvero capito che tra me ed i marziani c’è un universo di orienteering che, alla mia veneranda età, non potrò più colmare. Percorso diviso in due parti: fino alla delayed start, tutto ok. Da lì in poi, il delirio più totale! Ogni tanto dietro ad un angolo compare Jorgen Martensson che mi guarda e scuote la testa, solo che lui ha tutto ben chiaro in mente mentre io prendo il suo scuotimento di testa come un “ma a questo… ma chi glielo fa fare???”. E poi le nebbie improvvise: sono qui, sono là, sono su, sono giù… giro a destra piego a sinistra… il MURO!!!! Ogni passo in bilico tra la certezza e l'incertezza, tra l'avere una visione chiara del percorso e la sensazione di camminare nel buio con le fette di salame sugli occhi. Gli atleti, i veri marziani, sembrano avere il dono di mangiare il salame e non avere effetti negativi nemmeno sulla linea degli addominali, lasciandomi solo con la mia bussola, che ad un certo momento ha cominciato a vivere di vita propria: “lasciami qui, per favore!”. A un certo punto, mentre l'unico suono che sentivo era il battito del mio cuore, ho avuto una visione: i marziani erano lì, davanti a me, in fondo al rettilineo e mi stavano guardando! Gli unici 50 metri che ho fatto di corsa, ugualmente col fiatone! Il bello bellissimo eccezionale della gara di Rotondella è stata l’incertezza: non sapevo mai con esattezza se quello che stava facendo mi stava avvicinando o allontanando dal traguardo. A Rotondella, ho avuto la conferma ancora una volta che l’orienteering è davvero l’unico sport dove non è detto che ogni passo ti avvicini al traguardo (auto-cit.).

Matera: Pioggia, Vento e il Calcio Saponato

E poi arriva la terza e ultima tappa. Matera, il cuore pulsante della Basilicata, con la sua bellezza mozzafiato e un vento da regata che al mattino turbinava tra i vicoli ed i portici solo per prendermi in giro e mettere ancora più in evidenza la mia insipienza atletica. Tutto avrebbe dovuto giocarsi in quest’ultima tappa: te li vedi Rancan e Michiels sfidarsi all’ultimo passo di danza sui gradini e tra i sassi, mentre magari quel guascone di Isac Von Krusenstjerna li sta superando con una scelta di percorso contro-contro-contro intuitiva in teoria ma vincente in pratica? (quando dico “guascone” intendo che è proprio uno a cui affiderei la parte del protagonista in “Una notte da leoni”. Percorso da film di Sergio Leone. Io, come un attore un po’ troppo corpulento per il ruolo, mi ritrovo a lottare contro il vento e le difficoltà del percorso mentre attorno a me i posatori hanno pure loro le belle difficoltà.

Se a Pisticci il terreno era polveroso e arido, e a Rotondella c'era la nebbia, a Matera il terreno era un vero e proprio campo di battaglia. La pioggia, come una pioggia di Mad Max, rendeva il tracciato scivoloso come una partita di calcio saponato. Ogni passo una scommessa. Scarpe che sembrano non fare mai presa sui gradini, vento che mi butta la mappa in faccia e sembra volermela strappare dalle mani. Mi sono dovuto “gasare” da solo per arrivare al traguardo: i marziani hanno la perfezione? Io avrei avuto il cuore. Ogni roccia, ogni curva, ogni lanterna è diventata, una piccola avventura: di qua no, di là no, da questa parte no… possibile che devo arrivare fino a lì per…? Si, da lì posso passare!!!! Ma forse ci sarà una scelta migliore? Chissene! Io devo andare! A Matera, quando raggiungi il traguardo, sotto la pioggia e il vento, sai di aver lottato su un terreno che non avrà mai un vincitore universale. Solo uno scontro tra chi si adatta meglio, chi resiste di più.

E così, arriviamo al gran finale. I marziani, quei fenomenali atleti che avevano solcato le colline lucane come fossero atterrati su Marte, alla fine se ne sono andati. Non ci sono stati fuochi d'artificio, non c’è stato il trionfo finale. La loro perfezione è innegabile, persino nelle pettinature che fanno tanto Jonas Leandersson prima maniera; e poi qualcuno è davvero in grado di distinguere da lontano Alva o Emma Sonesson e distinguerle da una Alma Bjork o da una Wilma Von Krusenstjerna? (Isac no, Isac lo riconosci… vedi arrivare il suo sorriso che porta sempre una parte all'altra del viso prima ancora che i piedi abbiamo messo piede sulla run-in). Hanno una forza sconosciuta e una capacità di far sembrare normali cose che per me sembrano impossibili.

Ma mentre guardavo il cielo sopra Matera, con il vento che finalmente si placava, ho pensato: Forse gli invasori non vinceranno sempre. Forse, alla fine, la forza di volontà farà la differenza. E magari, un giorno, proprio quando penseranno di aver vinto, un terrestri sarà pronto a svelare che la vera vittoria è quella che non si vede, quella che non si misura con il tempo, ma con il cuore. E magari con un cappellino girato dalla parte giusta della testa

Rimane un problema: torneranno. Lo ha detto Wilma in intervista “ho vinto nel 2023 e ho rivinto nel 2025… scrivi pure anche 2026!”. Io devo fare in modo di farmi trovare pronto!




Wednesday, February 26, 2025

Parma e dintorni - to be continued

E quindi, alla fine, eccomi qui. Di nuovo. Passano le stagioni, cambiano i Presidenti ed i Consigli Federali, ed io sono ancora qui. Di nuovo. Come in un film in cui il protagonista si risveglia da un lungo sonno e scopre che il mondo è andato avanti tranquillamente (più tranquillamente?) senza di lui, mi sono ritrovato al via della mia prima gara del 2025. Ma come? Non avevo forse passato gli ultimi mesi a occuparmi di orienteering? Non ero forse stato immerso fino al collo in cartine, percorsi, tracciati, analisi di curve di livello e discussioni interminabili sui migliori punti di controllo? Magari fosse stato quello. In realtà, si ok sto un po' forzando la mano, ma tanto chi è che legge le mie parole? mi è sembrato di passare il tempo tra una assemblea di condominio ed un'altra. Con l'intermezzo di altre (vere) assemblee di condominio a spezzare la solo apparente monotonia delle altre. Potrei condurre un approfondito studio sociologico, ma il risultato lo conosco già: le assemblee, di qualunque esse siano, non fanno altro che aumentare il grado di misantropia che mi accompagna.

Tanto orienteering, quindi, eppure fino a questo momento la mia bussola non aveva ancora danzato tra le mie dita al ritmo di Rebel Yell (magari!) in una vera gara. A meno che non contiamo la mia poco palpabile presenza alla “innominabile” competizione, della quale però non possiamo ancora parlare diffusamente fino a quando i termini della prescrizione non saranno trascorsi. E no, non parlo di farmaci.

Ma torniamo a me, torniamo alla gara, torniamo al momento in cui, finalmente, salutato da un boato della folla plaudente, il mio piede ha toccato il terreno da concorrente. E che bello è stato farlo a Parma e dintorni! "Dintorni", già... il termine mi fa sorridere, perché significa correre nei luoghi che frequento per lavoro, in una strana mescolanza di realtà parallele che, per qualche ora, si sovrappongono perfettamente come le trasparenze di una carta da orienteering.

Colorno. Un nome, una promessa. La partenza è stata subito epica: punto uno, io che mi concentro, attraverso tutta la carta, arrivo al primo controllo e... ecco che arriva il signore indignato! "Ehi, quello è su una proprietà privata! Vi faccio multare!". Mi guardo intorno e per un attimo mi chiedo se non sia finito in una surreale versione lombarda della gara innominabile: "Colorno, provincia di Milano". Ma no, tutto rientra presto, il percorso scorre fluido e liscio come l’olio.

E per il dopo gara? Un bel piatto di fettuccine al sugo di polpette. Patitemi, voi che siete ancora lì a destreggiarvi tra le due tappe nel primo baretto scrauso che capita!

Ma la vera sorpresa arriva nel pomeriggio, a Paradigna. Arrivo al ritrovo e sento una serie di voci eccitate “Testa di caxxo!!! Arbitro di m3rda!! Vaffanc…!!!” che si rincorrono da una tonalità all’altra. Ma sono solo gli illuminati genitori di alcuni bambini impegnati a giocare un torneo di palla calciata. Noi siamo a 20 metri di distanza a cambiarci sulle panche, con la Masi mescolata all’Interflumina shakerata all’OTPGea con una spruzzata di Punto K ed una ciliegina di PPN servita in salsa di “che scelta hai fatto dalla 5 alla 6?”.

La manche a caccia di Paradigna dimostra una volta per tutte una grande verità: aver tracciato mille gare serve ad assicurare un ottimo percorso, ma se ti chiami Christian Greci per creare qualcosa di degno di nota ne bastano due. Christian Greci era solo al suo secondo tracciato (ipse dixit), eppure ha tirato fuori un piccolo gioiello di orienteering, con le persone attorno che ci chiedono, ci incitano, ci fanno i complimenti. E, no, non sto sognando: è successo davvero.

E qui mi permetto un pensiero: Parma, con Montanara e Paradigna, ha tutto per ospitare una Coppa del Mondo Sprint! Avete sentito, palati fini? Qui si potrebbe fare qualcosa di grande, qualcosa di memorabile, qualcosa che renderebbe giustizia alla bellezza e alla complessità del nostro sport.

Ora mi restano le gambe pesanti, il lunedì da dolorante, la gioia di aver ritrovato le lanterne e la sensazione di aver finalmente "rotto il ghiaccio". Ah no, fermi tutti. Questa espressione non posso più usarla. Nel mio possibile potenziale nuovo ruolo, meglio evitare certe metafore: i pattinatori su ghiaccio potrebbero non gradire.

E dunque, avanti così. Il 2025 è iniziato. Ed è solo l'inizio. E io sono ancora qui. Di nuovo.

Monday, February 17, 2025

Extreme Day

Extreme Ways. Così cantava Moby, raccontando di sentieri tortuosi e di scelte che portano lontano. E ieri Milano, la mia Milano, si è rivelata attraverso strade conosciute e altre dimenticate, in una giornata che avrebbe dovuto essere solo una passeggiata e invece si è trasformata in un viaggio dentro il volto meno raccontato della città.

Marco ed io, entrambi nati nel ’67, entrambi quindi alle soglie dei 58 anni, io più vecchio di lui di qualche settimana (segue immutabile ed immancabile scambio di battute sul fatto che per una volta è lui a dovermi inseguire ed immancabile risposta “pensa a quando ti sorpasserò!”) ci concediamo ogni anno questa passeggiata che ci porta in luoghi talvolta solo immaginati, a sondare un pezzo della strada che abbiamo fatto nella nostra vita e a scavare davvero tanto a fondo nel nostro intimo e nei nostri pensieri quotidiani.

Abbiamo iniziato il cammino, perché di puro e semplice cammino questa volta si è trattato, in Via Cavriana. C'era un tempo in cui qui si trovavano gli uffici di UBI Banca, un luogo che per molti attuali colleghi significava lavoro, routine, scelte economiche e burocratiche. Oggi, il paesaggio urbano sembra immobile, cristallizzato in un'era di transizione tra un passato solido e un futuro incerto. Qui il cemento racconta storie di affari e di scrivanie ormai vuote. Via Cavriana mi è sembrato essere un posto pronto per essere tagliato fuori dal mondo, un mondo che lo smart working ha reso meno bisognoso di uffici e palazzi in vetro e acciaio, di servizi e luoghi di ritrovo (fosse solo per una pausa caffè) ma che non ha ancora ridato spazio e possibilità di crescita a chi potrebbe ambire anche solo ad una esistenza dignitosa: a soli 200 metri da noi, Viale Forlanini conduce da una parte dritto al centro della Milano Olimpica, e dall’altra all’aeroporto di Linate, collegando due estremi che non sempre si concedono il lusso di fermarsi a riflettere, ma lasciando ovattato e sullo sfondo il rumore del traffico che fa da sottofondo ininterrotto alle giornate.

Abbandonato il quadrante est della città, dove saremmo tornati a riprendere le nostre auto, siamo approdati vicino a dove Marco ed io abbiamo vissuto per qualche tempo, ancora lontani l’uno dall’altro da compagni di squadra che non si frequentano anche fuori dai boschi. Porta Lodovica rimane un'area che per me ha un significato tutto personale: ieri il negozio di mio papà, il tragitto per andare a scuola o al lavoro. Ieri siamo entrati proprio nei cortili dove ha sede il centro medico dove porto mia madre a fare le visite periodiche per i suoi acciacchi. Che differenza tra una normale giornata della settimana e la domenica: durante i giorni feriali, nei cortili si affacciano persone di ogni età che attendono una visita, aspettano un responso che potrebbe essere felice o che potrebbe portare a nuove ansie. Quante volte ho percorso quelle strade, quante volte ho atteso il termine di un esame medico, tra un bar anonimo e la sedia troppo dura di una sala d'attesa? Ho ripensato a quelle giornate scandite dall'ansia e dalla speranza, a quelle ore trascorse con lo sguardo fisso su un display che annuncia turni e numeri. Milano sa essere crudele e indifferente, ma sa anche accoglierti nel suo abbraccio asettico fatto di ospedali e di medici che, nonostante tutto, lottano ogni giorno. Di domenica, lo scenario è diverso: gli abitanti dei cortili si riappropriano della loro quotidianità, non si aspettano il comparire di facce nuove e bene abbiamo fatto Marco ed io a prendere i nostri passi ed allontanarci verso una nuova meta.

La stazione di San Cristoforo ci ha accolto con il suo paesaggio ferroviario, con binari che sembrano condurre verso il nulla e promesse di riqualificazione che, come sempre, restano sospese nell'aria. Qui dovrebbe sorgere, prima o poi, un nuovo ospedale destinato a sostituire San Paolo e San Carlo. Si dice, si progetta, si discute. Ma intanto la città continua a esistere nei suoi angoli di attesa e precarietà. Ho attraversato la passerella sopraelevata, guardando le rotaie e chiedendomi quanti altri occhi, come i miei, si siano posati su quello scenario, immaginando un futuro che tarda ad arrivare. I muri scrostati, i graffiti che raccontano storie di rabbia e di speranza, il vento che porta con sé il suono distante di un treno in arrivo. Ho respirato profondamente, cercando di assorbire ogni dettaglio, ogni frammento di quella realtà sospesa.

Proseguendo lungo via Bisceglie, ho ripercorso i luoghi che per dodici anni sono stati il mio mondo lavorativo. Certe strade si imprimono nella memoria con la forza dei giorni ripetuti, degli stessi tragitti, degli stessi semafori. Qui un tempo lasciavo l'auto prima di partire per le trasferte, un punto di partenza e di ritorno, una routine che oggi appare quasi estranea, come un capitolo di vita chiuso e archiviato. Ho osservato gli edifici, alcuni ancora familiari, altri cambiati, trasformati da nuove insegne, nuovi colori e nuovi brand. La consapevolezza che dietro alla città tutta luci e rumori e successo e soldi che sono stato abituato a vedere c’è una pletora di situazioni al limite della vivibilità, se non ben oltre la vivibilità, se non addirittura oltre la soglia della vergogna quando ci viene sbattuto in faccia lo scenario nel quale ancora oggi a Milano le persone possono essere costrette a vivere. E’ proprio vero che talvolta basta dare una occhiata al di là del muro per accorgersi che esiste una realtà parallela e molto più complicata e disagevole rispetto a ciò che crediamo di vedere ogni giorno.

Ma ogni viaggio ha una fine, e la mia giornata si è conclusa bruscamente con una telefonata dall'ospedale. L’ennesimo dottore. Mia madre. Codice giallo. Ricovero. Il resto del percorso non lo ricordo in dettaglio, lo ha scritto la preoccupazione, il bisogno di esserci, il pensiero che certi cammini sono irrilevanti rispetto alla fragilità della vita. Marco mi ha riaccompagnato attraverso quella città che non si ferma mai, che non concede pause, che sembra sempre impegnata a inseguire qualcosa di sfuggente.

Di questa giornata resteranno i passi, i luoghi, i pensieri. Resteranno i sussurri percepiti nei racconti frammentati che rimbalzavano da una bocca all'altra. "Nel buio della metropolitana correvano voci incontrollate e pazzesche. Si diceva che alcune squadre erano state fermate dalla polizia e portate in questura…". Se non avessi visto con i miei occhi un verbale di polizia, mi limiterei a riportare questa frase con la voce del mitico Fantozzi.

Restano le strade di una città che muta, che si nasconde dietro la facciata scintillante, che tra una vetrina e un grattacielo custodisce angoli di estrema bellezza e di estrema ingiustizia. Il nome del protagonista ed il suo brand di tre lettere non li troverete in questo racconto. Perché non si sa mai chi legge il blog. Ma se chi legge ha la pazienza di guardare oltre la superficie, di seguire il filo di queste parole come una mappa invisibile, allora forse riuscirà a vedere Milano non solo per ciò che vuole mostrare, ma anche per ciò che cerca di nascondere e che il protagonista cerca da dieci anni di renderci consapevoli.