Stegal67 Blog

Tuesday, November 24, 2020

Una questione da poco

Vorrei subito mettere in chiaro un punto: scrivendo quello che troverete qui sotto (se avrete la pazienza di leggere fino in fondo) non voglio certo fare sfoggio di competenze che non ho, non voglio fare vanto di sapere come si risolve uno tra i problemi più gravi che affligge i nostri tempi (o, meglio, che affligge fin dall’inizio dei tempi). Non ho io la soluzione, anche se ritengo che la soluzione sia in ognuno di noi. Chiamatemi pure lo stolto che guarda il dito anziché la luna, chiamatemi pure quello che non ha capito niente, quello che parlandone in modo irriverente sottovaluta la cosa perché per sua fortuna non ci è mai passato, quello che “certi argomenti non li devi andare a trattare così”, quello che “… e te ne accorgi adesso e vieni a farci tutto il tuo pippone?”, quello che… quello che… quello che… Non ho la pretesa di insegnare niente a nessuno, e per dirla tutta non sapevo neppure del significato dato al 25 novembre. Il che, forse, da l’idea di quanto io viva l’argomento in modo làbile e poco partecipato. Però questo è il mio pensiero.

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Antefatto: 21 settembre 2014 – Passo Vezzena – zona del traguardo – voce registrata dello speaker

Ancora un titolo da assegnare… categoria W17 e nessuna squadra è arrivata al traguardo. NO! UN MOMENTO! Una tuta blu e nera compare da dietro la collina! Il Gronlait… con Francesca Buffa! Il Gronlait sta per aggiudicarsi l’ultimo titolo della giornata! E’ finita anche la categoria W17… E INVECE NON E’ FINITO NIENTE! Sta arrivando anche De Nardis! Polisportiva Masi!... De Nardis all’inseguimento di Buffa che sembra sfinita! … 40 metri di vantaggio per il Gronlait! … La W17 non è ancora finita quando mancano meno di 200 metri al traguardo! Gronlait contro Masi! … Buffa contro De Nardis che ha un bersaglio davanti a sé a meno di 30 metri di distanza! … Buffa all’ultimo punto! … Buffa si volta a cercare De Nardis… che è sempre più vicina! … 20 metri adesso di distacco… Buffa sembra non averne più E MANCA ANCORA TUTTA LA SALITA FINO AL TRAGUARDO! … Anche De Nardis è stanchissima! Ma la medaglia d’oro è ancora lì a portata di mano! Buffa ora sulla run-in! Anche De Nardis imbocca la corsia finale!... Buffa si volta indietro… anche De Nardis è stanchissima! … Buffa sull’ultima curva! … E’ una corsia finale eterna!... 10 metri di distacco!... Adesso sono meno!... Mancano pochi metri! Ancora 20 metri per Buffa incitata dalle sue compagne! … De Nardis le sta arrivando addosso!... 10 metri! 5 metri! BUFFA SI LASCIA CADERE SUL TRAGUARDO! Gronlait è campione d’Italia W17! La Masi è seconda! La rincorsa feroce di Francesca De Nardis è rimasta a 5 metri dal successo!...

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So che i problemi sono altri, so che ci sono ben altri modi per dimostrare sostegno e vicinanza e rispetto alle donne, nello sport e non solo. Questo credo di saperlo bene. Persone ben più qualificate di me hanno già parlato del tema che menzionerò nel racconto e tramite i miei ricordi personali che seguono. Ad esempio:  https://ildragomanno.wordpress.com/2014/08/15/parita-genere-lostaifacendosbagliato/

In conclusione del pezzo linkato viene proprio scritto “Non è certo un articolo a discriminare una donna rispetto a un uomo, e non è eliminandolo che si risolve il problema della disparità”.

Solo che domenica mattina, ascoltando una telecronaca di sci alpino infarcita di “LA”, ho provato una sensazione che stavolta vorrei definire tutta maschile: mi sono veramente girate le palle!

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In principio Quello Lassù aveva deciso di rimanere sul facile. Dopo 6 giorni di lavoro indefesso, dedicati alla creazione di cielo e mare e stelle e sole e luna e pesci e animali, aveva creato l’essere umano. Un genere solo bastava. Il genere era quello maschile: uno solo, Adamo. C’era solo lui e non si faceva confusione: il recinto non era chiuso bene e le bestie si disperdevano nei dintorni? La colpa era solo sua. La luce restava accesa tutta la notte perché nessuno aveva spento? Sempre colpa sua. La pattumiera non si portava in strada nel giorno giusto? Il percorso era posato male?Adamoooooo!!!! Ma che ti possino…”. E non c’era nessun altro che poteva prendersi la colpa.

Però poi Quello Lassù deve essersi montato la testa. “Proviamo a complicare un po’ la situazione…” deve aver pensato. E creò un altro genere, quello femminile: Eva. Quindi Eva arriva qualche tempo dopo Adamo, un po’ a rimorchio. Adamo nel frattempo aveva già avuto il tempo di ridurre il salotto ad un porcile, di riempire il frigorifero di porcate e di abbandonare cartine e lanterne ovunque in casa. Eva si mise di buzzo buono, e le cose cominciarono ad andare meglio.

A quel punto però sorse il problema che Adamo ed Eva dovevano distribuirsi bene le mansioni, sennò Quello Lassù avrebbe potuto andare in confusione. Come diceva Simona, collega al capannino di Astrofisica, Adamo si riservò il compito di spaccare la legna per l’inverno, cacciare l’orso, cartografare la foresta, procacciare il cibo e cose così. Eva avrebbe badato che Adamo non facesse troppi guai, avrebbe badato alla casa, ai bambini ed alla loro educazione, al rispetto delle linee guida ISOM e ISSOM e cose così. Nessuno voleva correre il rischio che, se un giorno Eva si fosse messa a procacciare il cibo e Adamo a badare alle linee guida, Quello Lassù potesse andare in confusione.

Solo che, un giorno, Adamo era a letto con 37,3 di febbre e stava cercando il prete per ricevere l’estrema unzione. L’orso era effettivamente nelle vicinanze e stava facendo razzìa nell’orto. Così Eva, che aveva solo la febbre a 38,9, dopo aver portato su la legna dal ripostiglio e aver finito di imbiancare il tinello, decise di andare fuori a cacciare l’orso. E lo fece con tale perizia che Quello Lassù si lasciò andare ad un “Bravo Adamo! Ben fatto!”.

Io non sono Adamo, sono Eva” fu la risposta a Quello Lassù. Che rimase perplesso. Il compito di cacciare l’orso era del maschio. Possibile che anche Eva fosse un maschio? Questo pensiero Lo arrovelllò fino al giorno in cui, guarito Adamo, i due Gli si presentarono e dissero: “Io sono Adamo, il maschio”. “Io sono Eva, la femmina”. E poi all’unisono: “Solo che ogni tanto ci scambiamo i compiti!”. Questa cosa destabilizzò Quello Lassù, che aveva perso gli occhiali e non distingueva più Adamo da Eva se non in base ai compiti che questi svolgevano. Aveva quindi bisogno di trovare una soluzione al più presto, perché insomma Quello Lassù aveva la fama di essere infallibile, e se tra gli altri Quelli Lassù si fosse sparsa la voce che sbagliava pure ad appioppare il nome ai due bipedi sulla Terra (due ne aveva da gestire! Mica miliardi), avrebbe perso punti rapidamente. La soluzione che trovo fu di aggiungere due lettere ad uno dei nomi:


(ma... è stata la Eva...)

“Tu Adamo sarai per sempre Adamo. Tu invece Eva sarai per sempre LA Eva! Così, con l’aggiunta di due sole lettere, io non farò più confusione. Quando mi direte che Adamo ha preparato il caffè, capirò che è stato l’uomo a farlo. Quando vi sentirò dire che LA Eva ha costruito l’argine per portare l’acqua corrente in casa, capirò che è stata la donna a farlo”

Pare che sia per questo motivo – per un senso di rispetto nei confronti di Quello Lassù - che ancora oggi tantissime persone, soprattutto nella redazione delle cronache sportive, si sentono in dovere di rispettare la regola che Rossi, Sinner, Ibrahimovic, Gallinari, Windisch e compagnia cantante si nominano così, mentre per parlare dell’altra parte dell’universo si parla delLA Goggia, delLA Pellegrini, delLA Cagnotto, delLA Kostner, delLA Wierer e via dicendo.

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Non prendetemi per pazzo. Credo di capire anche io che i problemi, quando si parla di violenza in ogni forma sulle donne, sono ben altri. Se solo guardiamo alla sfera sportiva, è lampante la disparita nelle cronache, negli spazi e nelle considerazioni, con i giornali che tendono a commentare non solo i risultati ma anche il taglio dei capelli o l’abbigliamento più o meno intrigante. Però questa cosa dell’articolo “LA” mi ha sempre lasciato davvero perplesso e sconcertato. Nella storia dei Giochi Olimipici, così come nello stupido raccontino qui sopra, le donne sono state ammesse a tavola dopo gli uomini.

Forse la mia fortuna è stata che, quando ero bambino, a Tavon venivano a passare la villeggiatura due pimpanti signore di Pavia, Germana Malabarba e Diana Pissavini, che avevano fatto parte della squadra di ginnastica artistica che aveva vinto l’argento alle Olimpiadi di Amsterdam del 1928. Un argento che, nei racconti non solo loro ma persino dei giornali locali (olandesi, perché olandese fu l’Olimpiade e fu l’Olanda a vincere), avrebbe potuto essere oro se non fosse che l’Italia eseguì l’esercizio senza il supporto di un accompagnamento musicale al pianoforte, cosa che fece l’Olanda impressionando benevolmente i giudici. 

Il mio primo contatto con due autentiche sportive fu quindi con due donne. Lo sport olimpico femminile ebbe il suo primo oro con Ondina Valla alle Olimpiadi del 1936, poi con Irene Camber (secondo la dizione di “Storia delle Olimpiadi”, mutata in Campber in “Storia delle Olimpiadi invernali”) a Helsinki 1952. Credo che il merito di aver sdoganato a tutti i livelli televisivi lo sport al femminile possa essere attribuito a Sara Simeoni, ma siamo già al 1978 ed agli Europei di Praga con record del mondo nel salto in alto. Io invece avevo avuto la fortuna, una volta sbarcato a Milano, di frequentare quasi tutti i giorni, seppure bambino, il campo sportivo “Cappelli” in Piazza Caduti del Lavoro dove, che ci fosse il sole o che piovesse a dirotto, agli ordini del professor Renzo Testa dello Sport Club Italia si allenava ogni giorno una certa Paola Pigni. La pista di atletica del campo Cappelli non era (non lo è neppure adesso) omologata per le gare di atletica: 6 corsie di terriccio nero a fare da cornice ad un campo di calcio spelacchiato, con la particolarità che il giro completo della pista era di circa 370 metri. Così i volenterosi atleti avevano segnato con la vernice sul bordo dell’anello più stretto il punto, ancora sul rettilineo fronte tribune, dal quale dovevano partire per cimentarsi in una cronometrata sui 200 metri. E se volevano provare un 400 metri dovevano percorrere i primi 30 metri del rettilineo prima di affrontare la prima curva. Paola Pigni si allenava lì in qualunque condizione meteorologica: se diluviava, saliva sulle tribune ed affrontava dure sessioni di allenamento sui gradoni degli spalti.


(cronaca di una gara disputata all’Arena di Milano, presa dal sito della Fidal)

Pigni vinse il bronzo alle Olimpiadi di Monaco 1972, quelle della strage di Settembre Nero, e alle stesse Olimpiadi il mondo fece la conoscenza di Novella Calligaris, tre medaglie tra argento e bronzo nel nuoto e poi medaglia d’oro e primatista mondiale a Belgrado 1973 negli 800 stile libero. Nonostante io avessi appena compiuto 5 anni, avevo l’album delle figurine di “Munchen ‘72”, e di Novella Calligaris non si faceva menzione. Ben diverso l’album “Campioni dello sport 1973” dove Calligaris compariva con le sue tre medaglie (la stessa figurina che è oggi sulla sua pagina wikipedia).

A me è sempre sembrato ovvio che Marcello Fiasconaro (tanto per dire di un altro che frequentava il campo sportivo Cappelli e che, dopo gli allenamenti che fecero di lui il primatista mondiale sugli 800 metri, prendeva un pallone dalla strana forma ovale e cercava di insegnare a noi bambini cosa fosse il rugby, lui che veniva dal Sud Africa) fosse “Fiasconaro”, che Pigni fosse “Pigni”, che Donata Govoni (nata a Pieve di Cento, il paese di mia zia Ida, e che vinceva le corse a scuola contro i maschi) fosse “Govoni” e stop.

Quando, nel 1982, giocavo al Palalido per il Billy Milano (oggi Armani Milano), in alcune occasioni veniva ad allenarsi con noi Mabel Bocchi, centro della GBC Milano e della nazionale. In quelle occasioni volavano botte da orbi e da tirare giù i denti… perché Bocchi (186 cm) mollava delle gomitate che scànsati, e poiché Franco Casalini in allenamento durante le partitelle metteva il fischietto in tasca e lasciava che ce la cavassimo da soli, c’era il rischio (e a me è successo!) di andare a caccia del pallone a rimbalzo e di ritrovarsi per terra rintronati con gli uccellini e le stelle tutte attorno ed un “beh!?! Alzati! Cosa stai lì per terra? Sei già stanco?”… ed era la voce di Bocchi. Per me Bocchi è sempre stata solo “Bocchi”.

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In tutti questi anni, da affamato di cronache e telecronache sportive, ho sempre sentito un fondo di disagio nel leggere o nell’ascoltare celeberrimi e meno celebri commentatori sportivi che parlano tranquillamente della gara di Tortu, della nuotata di Paltrinieri o del diritto di Sinner, e poi come se niente fosse commentano il salto delLA Trost, le rimonte delLA Pellegrini e i vincenti delLA Pennetta. Lo considero un retaggio del tempo in cui, nell’atletica come in altri sport, la presenza femminile doveva necessariamente essere connotata dagli addetti ai lavori alla stregua di un mondo a parte, di intermezzo, di "non è una cosa seria". Un maschilismo strisciante che aveva già relegato la parte femminile dell’universo al ruolo di sesso debole.

Questa cosa viene continuamente mantenuta e tramandata di generazione (non solo giornalistica) in generazione in tanti modi subdoli, tra i quali secondo me c’è anche l’uso continuo di quell’articolo “LA”. Non c’è nessun motivo per usarlo, mi dico. Se un telespettatore sta guardando una gara di sci alpino, come è successo a me domenica mattina (ho retto 2 minuti, poi ho spento e sono andato a correre), non c’è nessuno bisogno di continuare a ripetere LA Shiffrin, LA Brignone, LA questa o quella. C’è scritto già: slalom speciale FEMMINILE. Spettatori e spettatrici non l’hanno notato? Se seguono quello sport, sapranno benissimo da solo chi sono Shiffrin e Brignone (mia madre lo sa!)

Se non lo sanno, basta un minuto per vedere l’atleta al traguardo, vedere le sue avversarie (o i suoi avversari, se la gara è maschile) ed inquadrare la situazione. Se ancora non fosse sufficiente, basterebbe al telecronista il piccolo escamotage di dire ogni tanto il nome dell’atleta: MIKAELA Shiffrin, FEDERICA Brignone. Ci sono dubbi? Invece no. Che a fare la telecronaca ci sia IL telecronista o LA telecronista o entrambi, quell’articolo è sempre presente, a perpetuare lo strisciante maschilismo che permea anche il mondo dello sport.

Io non sono un cronista sportivo o un giornalista. Sono solo (e finché mi sarà concesso) uno speaker di orienteering appassionato o, come sento dire sempre più spesso, uno storyteller. Penso (ma attendo smentite) che in tutti questi anni come speaker nessuno mi ha MAI sentito mettere l’articolo davanti al nome di una atleta. E se l’ho fatto, posso vergognarmene. C’è una unica atleta, una sola, per la quale ho usato l’articolo “LA”, ma l’ho fatto unicamente nelle nostre conversazioni al campo di gara, prima o dopo la competizione, dopo aver ben specificato che quell’articolo, usato per lei soltanto, rappresentava unicamente il segno del mio rispetto per una atleta che a livello regionale master si batteva alla grande nelle categorie maschili, dandoci anche delle sonore legnate, come i tempi al Campionato Regionale a Staffetta disputato al Parco della Pellerina sono lì a dimostrare. L’atleta in questione è Giovanna Varoli dell’AAA Genova.

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Detto tutto questo, ho risolto il problema? No. Ho contribuito in qualche forma a cambiare lo status quo? Neppure. Ho vinto qualche riconoscimento? Nemmeno.

Ma nessuno di questi è per me un motivo abbastanza valido per smettere di parlarne.

Sunday, November 01, 2020

En attendant lockdown (parte 1)

E’ la sera del 1° novembre, e credo di essere in compagnia di tanti italiani che stanno aspettando che il governo decida che tipo di lockdown (se e quando) applicare in risposta ai numeri della pandemia che stanno crescendo in modo incontrollato. Negli ultimi giorni una delle decisioni che ho preso è di staccarmi un po’ dai social, per evitare di essere travolto dalle discussioni sempre più accanite e polarizzate sulla modalità migliore per gestire la situazione, dagli scambi di insulti ed invettive pesanti che coinvolgono persone che si conoscono da tempo e che conosco da tempo, e mi chiedo se a tempesta passate queste stesse persone saranno ancora in grado di guardarsi negli occhi e perdonarsi o chiedere scusa per il livore e l’acredine riversato addosso ad altri con tanto di nomi e cognomi.

Oggi, mentre percorrevo la strada che mi porta a casa, in mezzo al nebbione, ho pensato ad una eventuale seconda fase di lockdown come ad una specie di opportunità: quante volte mi sono ripetuto, durante ma soprattutto al termine del pesante lockdown di primavera, che se avessi avuto modo di ragionare meglio non avrei commesso gli stessi errori? E quindi ho redatto una specie di piccola lista di cose che, se sarò costretto di nuovo a casa da un lockdown, cercherei di fare meglio. Sbagliando probabilmente ancora, ma SBAGLIANDO MEGLIO!

Per chi fosse interessato, ecco i primi punti della mia lista:

UNO: La giornata lavorativa NON comincia quando apro gli occhi al mattino, con il pc già acceso di fianco al letto, e NON finisce 14 o 15 ore dopo quando gli occhi si chiudono per la stanchezza, con il pc appoggiato alla sedia di fianco al letto e pronto per il mattino dopo: so di essere fortunato ad avere un lavoro, soprattutto un lavoro che mi consente di lavorare in smart working, ma efficienza non fa rima con stakanovismo sette giorni su sette perché tanto non c’è altro da fare

DUE: Il frigorifero NON è il rifugio per prendere una pausa dai cattivi pensieri, o dalle ore lavorative che nemmeno il protagonista de “Il socio” di Grisham: lo stato in cui mi sono ridotto alla fine del primo periodo di lockdown me lo sono portato dietro fino a novembre, ed è ora di darci un taglio! (non alla prossima fetta di salame, intendo)

TRE: Ci sono tanti modi diversi per tenersi in forma: non mi ero forse dato un impegno di continuare con le sessioni di plank? Di fare gli esercizi suggeriti da Federico Venezian durante le sessioni di ginnastica da camera alle quali mi invitava l’Orienteering Tarzo? Chiaro che se sarò costretto a casa, ben difficilmente potrei percorrere ancora quei pochi chilometri a velocità sostenuta nel parco come facevo a febbraio scorso tre volte alla settimana, quando con la voce di Dolores O’Riordan e la batteria di Fergal Lawler nelle orecchie (live from Hamburg) ero tornato a stampare qualche parziale vicino a 4 minuti al chilometro… è una strada lunga ma ci posso riprovare!

TRE BIS: Riprendere a scrivere sul blog, che nel corso di tutti questi anni mi è servito soprattutto come promemoria per rispondere alle domande “ma dove eri tu \ dove ero io nella settimana tale del mese talaltro dell’anno del salSignùr?”

Per questo sono qui, a riprendere il punto 4 per il blog meno tecnico e più approssimativo dell’intera storia dell’orienteering, meno credibile per chi volesse imparare davvero a trovare i punti nel bosco ma al tempo stesso più veritiero e vissuto per chi crede alle parole “tre ore e 16 minuti ben spesi nel bosco!” come quelle che ho pronunciato all’arrivo della gara long di Doganaccia qualche settimana fa.

Riparto quindi dalle 6 gare nazionali che il fato ci ha consentito di disputare in questo surreale anno 2020… il fato e quelle società che si sono sobbarcate fatiche in più, responsabilità, incombenze e sacrifici per consentire alle atlete ed agli atleti veri di tutte le età ed a qualche sparuto tapascione (di cui mi onoro e mi vanto da solo di essere il number one) di tornare nel bosco a praticare lo sport più bello del mondo, perché diciamocelo pure che più bello della caccia al tesoro dell’orienteering non ce n’è e non ce ne sarà mai!

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Ritorno alle gare: Campionato Italiano Sprint di San Martino di Castrozza

La prima gara (dopo il periodo di riposo forzato) non si scorda mai, soprattutto se la gara si svolge in una località che ormai credo di conoscere a memoria. Guardando il bollettino della gara, non mi sembra forse di vedere la parete di bosco (poi spazzata via dalla tempesta Vaia) dove passava la tratta lunga della tappa finale della prima edizione della Dolomiti Three Days? E mi raccomando: attenzione ai passaggi nella zona della chiesa, con l’insidia dei gradoni e dei recinti e chissà se non mi capiterà ancora di fare da apripista mentre gli orientisti si attardano a consumare il loro pranzo nei baretti della piazza sotto alla chiesa. Ma occhio anche alla parte finale del percorso, che si snoderà vicino alla caserma dei Vigili del Fuoco e del museo a cielo aperto, dove di sera andavo a rompere le scatole ai ragazzi dell’Asco Lugano che si facevano delle spaghettate epocali, guidati da Luca e Martina Rizzi in qualità di “adulti accompagnatori” (20 e 18 anni rispettivamente in occasione della Primiero Three Days 2019, e nessuno che fiatava e tutti in riga da bravi atleti!).

La mia gara? Senza lode e con qualche infamia, soprattutto nel finale nella zona della colonia \ museo all’aperto \ caserma dei vigili del fuoco (ma non mi ero detto di fare MOLTA attenzione?): praticamente dalla 16 parto dritto verso la 18 e me ne accorgo quando ormai ho davanti la colonia, dalla 18 alla 19 mi aspetto che lo specchio d’acqua sia una specie di Mar Tirreno e vado lungo fino alla casetta, dalla 21alla 22 sono talmente cotto che prima mi infilo nel bosco ad est e poi mi infilo del recinto non attraversabile sbagliato (per fortuna sono abbastanza lungo che riesco a punzonare lo stesso allungando il braccio sopra al “non attraversabile”)

Ritorno al disastro: Campionato Italiano Long a Passo Valles… non è la 61!

Da qualche anno, purtroppo, soffro di una fastidiosa sinusite cronica che si manifesta spesso a livello del mare, ma che mi lascia davvero con le gomme a terra quando salgo in quota. La sinusite non poteva che colpire la sera prima del Campionato Italiano Long, che si sarebbe disputata su una carta che già l’anno scorso era stata davvero ostica alla Dolomiti Three Days. Pur conoscendo i trucchi per venire a capo della carta, durante la notte tra sabato e domenica devo prendere un paio di pastigliette miracolose per mettere a tacere la sinusite, altrimenti ben difficilmente riuscirei a mettere a fuoco la carta e i paraggi attorno a me; effetti collaterali? Stomaco in delirio e sonnolenza diffusa, quasi uno stato di torpore. Il resto lo fa il tracciato della gara che prevede una partenza tutta in salita fino alla zona di arrivo dell’impianto a fune.


Per dire come sono messo: nell’attraversamento di uno dei vari valloni per andare dalla 1 alla 2 mi ritrovo sdraiato per terra per aver messo un piede in fallo e il mio primo pensiero coerente è di provare a chiudere gli occhi e fare un breve pisolino per far passare il torpore costante che mi pervade! Per dire come sono messo anche peggio: non ho la più pallida idea, anche riguardando la mappa, di come dal punto 4 sono arrivato al punto 5! Le foto dell’implacabile Carlo Rigoni parlano da sole…



Nel finale di gara tuttavia assisto ad una scena impagabile, che da sola vale il prezzo del biglietto: mi trovo infatti a cercare il punto in compagnia di alcuni atleti di varie categorie (di età e anche di peso) tra i quali una autentica “radio” che non smette un secondo di parlare. Rispetto ad altre “radio del bosco” che in 28 anni di orienteering mi è capitato di ascoltare, questa radio in particolare “smista” la gente nelle varie direzioni per cercare il punto di controllo, che nel caso specifico è il punto 61 (cocuzzolo) ed è anche il mio punto. Infatti, questa volta mi dico tra me e me “quando questi troveranno il punto, lo troverò anche io”. Arrivo quindi, in buona compagnia, in prossimità di una lanterna. Alla mia sinistra c’è una parete rocciosa ai piedi della quale si vede chiaramente una lanterna. C’è un atleta vicino alla lanterna, a non più di 20 metri da me, e la “radio” chiede: “è il punto 61 quello?”. Risposta: no. Il gruppetto prosegue la sua ricerca ed io mi chiedo dove cavolo sono arrivato… d’altra parte in zona di pareti rocciose ce ne sono a profusione! Mi convinco quindi di essere arrivato all’altra parete rocciosa nel cerchietto 11 e quindi risalgo di qualche metro la costa, ma di altre pareti rocciose o lanterne non ce n’è traccia, e l’unica roccia che vedo è Tommy Civera, mai così in palla da parecchi anni, che percorre la costa a velocità warp. A questo punto mi convinco che forse ero arrivato alle pareti rocciose ad est del mio punto 11, e quindi ritorno verso ovest, ripassando a 20 metri dal punto che NON E’ la 61 e scendendo ancora. Qui trovo Marisa Bernagozzi (santa subito!) che sta punzonando un punto che non è ovviamente il mio… mi fa vedere la cartina e io penso che devo tornare indietro, verso quella lanterna che ovviamente NON E’ la 61. Gira che ti rigira, torno dove ero passato prima e prima ancora, e c’è ancora in zona il gruppetto e c’è ancora la radio che, come Radio Maria, non ti abbandona mai. E sento le seguenti immortali parole: “Tu!” (un altro partecipante a caso, chiamiamolo Tizio) “Vai lì a vedere se quella è la 61 o no!”. La faccia di Tizio che viene apostrofato nel bosco per andare a vedere il codice di una lanterna (che sta a 20 metri) è inequivocabile: non sto facendo nomi, perché verranno svelati a suo tempo quando il tutto sarà passato in giudicato… Tizio esegue, arriva alla lanterna, guarda il codice e ripete “NON E’ la 61”. Ed il gruppetto con la radio riprende la sua ricerca, Io aspetto qualche secondo. Quando il gruppetto è scomparso dietro al primo dosso…

Manca solo che Tizio, nel punzonare, si lasci andare in un bel “Ma vieni!”. Quella lanterna è SEMPRE stata il codice 61. Pure a me scappa una risata… A parte questo, o forse anche questo da una chiara connotazione alla mia performance, la mia gara è davvero indegna di questo nome.

(continua…)