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Friday, August 01, 2025

GEIUOCC 2025 – Giorno 3: Pian del Gacc, il giorno lungo (anzi lunghissimo)

Si sono appena spente le luci e i riflettori sulla sprint di Cembra… ed è già il momento di tornare in scena. Pian del Gacc. Si resta vicini a casa base. E questo, onestamente, è un bene. La prima che vuole partire è Nea. Ore 9.02. Che le vuoi dire di no? È Nea. Forse la sorella del protagonista di Matrix... troppe armi!

L’ultima partenza? Ore 14.47. Long distance. Prevedo l’ultimo arrivo per le 16.30. In una giornata così, è chiaro che il ritmo della cronaca non può essere lineare. Sarà un’onda. Alta, bassa. Poi torna alta. E io devo ricordarmi una cosa fondamentale: NON partire forte. Perché se mi brucio tutti gli aggettivi alle 10.15, cosa racconto alle 16.20?

La postazione speaker sembra una strana versione di “Amici miei” – solo con meno talento e più occhiaie. A sinistra Alexander, che a forza di interviste sta diventando l’enfant prodige dei microfoni; poi Alessandro, il leader designato, quello che sa sempre tutto e lo sa anche meglio di te. Nicole è la ragazza da copertina: sempre precisa, sempre sorridente, sempre IOF TV. Poi ci sono io, lo speaker di riserva, il ciccione in fondo alla fila. E infine Marco, reclutato da me per la missione impossibile: sette ore di cronaca, serviva qualcuno che capisse il senso della gara, che non scappasse dopo venti minuti e soprattutto che mi sapesse tenere a bada quando parte il “monologo da vena chiusa”.

Il copione è talmente collaudato che Alexander ed io sembreremmo Tommasi e Clerici, se non fosse che uno dei due è in evidente stato di allucinazione e l’altro parlasse da dietro un cespuglio. Con Alexander ci vediamo a 30 metri di distanza, attraverso una breccia aperta tra le fronde. Il nostro “ok Alexander, go!” sembra un contatto audio, ma in realtà è solo che ci becchiamo di striscio con la vista. Nicole intanto va avanti a intervistare qualunque cosa respiri e abbia una pettorina. Siamo talmente abituati al gioco delle IOF TV che ormai trattiamo anche i personaggi più ansiogeni con una certa nonchalance. Tipo Per Frost, detto internamente “Ma” – così abbiamo coniato il soprannome perfetto: PermaFrost. È uno di quelli che arrivano sempre con richieste dell’ultimo minuto: “Ci serve questo, ci manca quello”. La nostra risposta è diventata un classico: se ce lo dicevate prima, eravamo la vostra soluzione. Non vi lasciamo in un mare di m… ma almeno siatene consapevoli

Intanto la gara corre. E noi dietro. Un Ceco – non chiedetemi il nome, tanto finisce in “-sky” – mette subito il tempo-monstre e lo difende con unghie, denti e cartina. Marco, che gestisce i tempi intermedi, mi passa abbastanza dati per tenere la cronaca viva e frizzante. Una specie di cocktail energetico per le orecchie, con zero zuccheri e tanto sarcasmo.

Le ragazze, invece, sono una variabile impazzita. Arriva una svedese, sembra fatta, sembrano pronti microfoni, dichiarazioni, lacrime, baci al traguardo. Ma no. BOMBA SONICA. Sta arrivando una svizzera che potrebbe ribaltare tutto. La svedese mi guarda – 30 metri di distanza – è il momento più bello della sua vita orientistica, ma io, implacabile come la sveglia delle 6, urlo: “Attenzione! Arriva un’altra!”. Una roba da far crollare l’autostima anche a Pippi Calzelunghe. Alla fine non succede nulla, per sei secondi, ma le imprecazioni che ricevo – in svedese, svizzero e chissà cos’altro – rimbalzano sul gazebo come boomerang.

E poi c’è Rita. Quello che davvero vorrei poter comprare, registrare, mettere in loop su Spotify, sono gli ultimi 15 minuti della sua gara. Doveva essere la queen di questo mondiale junior, ma era finita nella zona retrobottega della classifica, tra “quelle che forse hanno preso la cartina sbagliata”. Poi, all’improvviso, decide di andare “all-in”, con niente in mano, un bluff da sette di quadri e due di picche, come se avesse ricevuto un segnale da un satellite: parte una rimonta che definire mistica è poco. Arriva terza. E la sua dichiarazione post gara, con voce rotta ma sguardo d’acciaio, è da archivio storico dell’orienteering mondiale: “Non voglio essere ricordata solo come una che corre veloce. Io faccio orienteering.” Vent’anni. Long appena finita. Brividi.

Nel frattempo, la mia cronaca ha preso una piega strana. A un certo punto non so più che dire, ma non voglio lasciare silenzio. Allora inizio a parlare “one to one”, come in una telecronaca privata: vedo due con la bandiera slovena e parto con Pogacar, Roglic, salto con gli sci. Poi arrivano due inglesi, e mi metto a parlare del British pride, della tradizione, di quando loro vincono e noi applaudiamo. Poi vedo i francesi, e passo al francese, citando La Feclaz, il team glorioso degli anni Dieci, la grandeur, le baguette e tutta quella roba lì.

Tanto sono convinto che là fuori sia rimasto il deserto. E invece, quando esco un attimo per sgranchirmi le gambe, trovo… LA FOLLA. Davanti al maxischermo, accalcati come al concerto del Primo Maggio: decine, centinaia, con bandiere, birre, sorrisi, urla, tamburi.

E mi guardano. Tutti.

Mi sento come l’attore che ha appena recitato un monologo convinto che in sala ci fossero solo le sedie, e invece si accendono le luci e scopre che è sold out. E loro vedono me, e pensano: “Ma è questo il matto che urla da stamattina?”. E in quel momento, la cronaca cambia: diventa personale, diretta, una specie di stand-up comedy emotiva in cui parlo con ognuno di loro. “Ehi, sì, parlo proprio con te.” Non so chi altro farebbe una cosa del genere. Poi qualcuno mi ha detto che forse lo facevano i baristi di una volta, quelli che conoscevano tutti. O i portinai milanesi, che avevano sempre una battuta per chi entrava e per chi usciva. Eccomi qua: barista o portinaio. In che veste mi vedete meglio? Cappuccino caldo con schiuma tiepida in tazza fredda, goccino di latte scremato a parte, magari il cucchiaino col manico lungo? Oppure volete glissare sul pacchetto appena ricevuto – anonimo, marrone, compatto – con quella forma sospetta da sextoy da Amazon Warehouse? Perché in fondo è così che funziona anche la mia cronaca: un po’ ti coccola, un po’ ti mette in imbarazzo. E spesso non richiesto.

Ma è così che mi viene meglio. Decido – lo decido io, non un algoritmo, non un regista, IO – che qualcuno merita tutta la mia attenzione, e racconto la sua gara come se fossimo solo in due, lui o lei ed io, chiusi in uno scompartimento del treno, diretti verso una destinazione incerta. E anche se tu magari stai cercando di dormire, niente: io ti parlo.

Si arriva così alla fine. Il Ceco vince. Uno dei fratelli Selin – il "little brother", anche se sono gemelli e quindi questa cosa che dico è l’ennesima del tutto priva di senso – è secondo. 

E al terzo posto uno spagnolo pazzo di gioia che urla, canta, balla, come se avesse appena vinto un Eurovision, non il bronzo alla long junior. Mi resta solo da annunciare il settimo posto di Elli Punto e vederla sbiancare al pensiero che io possa, di nuovo, lanciarmi in una digressione sulla sintassi degli indirizzi e-mail, come a Cembra.

Si smonta in fretta. Baselga chiama. Le premiazioni si fanno lì. Ma dove? All’aperto? Al chiuso? Le nuvole non votano, ma si fanno sentire. Decisione presa: al chiuso. Cinema. Sì, proprio un cinema. Non vicino alla medal plaza, ovviamente – perché il destino potrebbe complicarti poco la vita quando può complicartela tanto? Tutto il circo viene traslocato: palchi che pesano una tonnellata, drappi, bandiere, persino quei pennoni da quindici metri che normalmente servono per issare le bandiere sulla luna. Dentro, tra le poltroncine rosse.

Il cinema si riempie. C’è gente a due metri dalle casse. L’umidità è da foresta pluviale. Io, davanti al microfono, guardo la folla e prendo una decisione storica: niente microfono. Non voglio creare una generazione di orientisti con i timpani spappolati. Così urlo. Con grazia. In modalità "proclamazione papale nel Trecento".

“Only in Italy”, direbbero. E avrebbero ragione.

Ovviamente, niente discorsi. Si va all’osso. Julie, Flavia, Alessia radunano premiati e premiate come fossero mandrie da spostare con dolcezza e autorità. Sono perfette. La macchina parte, tutto fila. Tranne il video. Sul muro dove dovevano scorrere le immagini salienti della gara, partono schermate da incubo: file not found, password digitate a caso, messaggi di errore che sembrano composti da uno scimpanzé bendato. Qualcuno tenta di risolvere, ma tanto ormai lo spettacolo è altrove. Ci sono due mondi distinti sul palco: in prima fila l’IOF, lo speaker, i premiati. Dietro succede di tutto ma noi non ce ne accorgiamo nemmeno.

E poi ci sono quelle piccole scene che non vedi se sei solo spettatore, ma che raccontano meglio di mille discorsi cos’è il JWOC: Julie, in fondo alla fila delle ragazze pronte a salire sul palco per le premiazioni, osserva l’arrivo del vincitore della long maschile. Il cognome finisce in -sky, uno di quelli che senti nominare spesso quando si parla di podi. Lui passa lungo la fila, stringe mani, si complimenta con tutte, diplomatico e sorridente come si conviene a un campione che vuole presentarsi ad una fila di ragazze. Arriva davanti a Julie. Le stringe la mano, non la riconosce subito, ha un attimo di esitazione e poi — riflesso condizionato — se ne esce con un “Well done for your race”. Educato, generico. Ma mentre glielo dice, realizza. Realizza! Sembra di sentire dal palco l'effetto sonoro di quel momento in cui la memoria fa click. E lì, tra i flash e l’agitazione da cerimonia, un altro piccolo JWOC va in scena: quello delle sorprese, delle scoperte, delle facce nuove che lasciano il segno.

In sala intanto il caldo aumenta, un drappo cade, la voce mi si spezza. Ma gli inni partono con una puntualità da centro di controllo NASA, e Julie ed Alessia manovrano entrate e uscite con la grazia di un cambio scena a Tokyo 2020. Quando una premiazione finisce, da tutta la sala del cinema si alzano i team per portare le corone di fiori a chi è stato premiato. Ad un certo punto sembra che ci sia più gente sul palco che in platea. Il momento più emozionante? Se solo qualcuno lo avesse registrato “And now, ladies and gentlemen, please rise for the national anthem of…” e tutto il teatro insieme si alza in un silenzio granitico, rotto solo dalle prime note dell’inno. No boooooooo, no sussurri o brusii, solo il rispetto. Poi la voce se ne va, le premiazioni si chiudono. Gloria, applausi, applausometro.

E a un certo punto qualcuno si avvicina e mi sussurra, quasi per consolarmi: “Coraggio, domani è il giorno di riposo”.

Per molti. Ma non per tutti. E sicuramente non per lo speaker.


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