Stegal67 Blog

Tuesday, July 22, 2025

Geiuocc 2025: io, il microfono, e incidenti vari

E tutto finì (quasi) in un lampo.

8 giorni nella pentola a pressione.

8 giorni a tutto vapore e a tutto volume.

8 giorni con i DUE neuroni che urlano e battono le pentole nel cervello al ritmo di: “non sei TU la gara, non ti ascolta nessuno, non succede niente nemmeno se urli parolacce!” (questo è il neurone che vuole togliere pressione, a costo di essere deprimente) oppure “metterai in crisi tutta l’organizzazione, sei impresentabile, non sei adatto, i momenti ufficiali saranno terrificanti !!!” (questo è il neurone spaventato a priori da qualunque cosa).

Ma andiamo con ordine.

O forse no.

Andiamo con disordine, che almeno siamo coerenti.

Il primo impatto col JWOC è stato simile a quello di un criceto che si lancia volontariamente in autostrada per provare il parkour.

Vieni che ci divertiamo”, mi avevano detto.

Parli solo un po’ al microfono”, avevano aggiunto.

Solo che poi quel “microfono” si è rivelato un’arma di distruzione di massa con potenza vocale paragonabile a una sagra di paese in Val Trompia sotto Red Bull scaduta. E “solo un po’” si è trasformato in ore e ore a urlare cognomi slavi impronunciabili, fingendo entusiasmo mentre i miei neuroni litigavano sul significato esistenziale di una Long Distance.

Il giorno del prologo ho indossato per la prima volta la maglietta dell’organizzazione e la maschera del professionista, appositamente fornitami dalle meravigliose volontarie dell’organizzazione (o dai fantastici volontari dell’organizzazione… non saprei dire, mi è arrivato un pacchetto). Peccato che nessuno mi avesse detto che la maschera era quella del Joker e che la maglietta era troppo stretta (per l’autostima, prima ancora che per la pancia). Appena acceso il microfono, avrei subito capito due cose: 1. La voce usciva con un tono da arrotino ma con una chiarezza espositiva rivedibile 2. Nessuno mi ascoltava. Nemmeno io.

Ma non c’era tempo per piangersi addosso, perché ai JWOC ogni momento è il “prossimo momento”. Quando credi di poterti sedere per un caffè, ti ritrovi invece a spostare transenne sotto l’occhio laser di un delegato IOF che ti guarda come se tu stessi sabotando l’intero evento per conto di una potenza straniera.

Nel mezzo, si balla. Si balla tra briefings, Team Officials’ Meetings, addetti stampa che non capiscono il concetto di “quarantena”, volontari che parlano solo dialetto, zone speaker aperte al pubblico come bancarelle del mercato settimanale e allenatrici norvegesi che pretendono solo spiegazioni in perfetto inglese tecnico... da uno che a stento sa dire "starting list".

Picchi massimi? Peggio di una tappa pirenaica del Tour de France! Durante una premiazione, luci, musiche, silenzi drammatici. A un certo punto, prendo il microfono e inizia lo show — “Ladies and gentlemen, welcome to the prize giving ceremony of the JWOC 2025…” — quando un neurone mi sussurra: “Se adesso canti My Heart Will Go On fai la storia”. Per fortuna l’altro gli ha tirato una padellata.

Eppure, in tutto questo bordello ordinato, qualcosa ha funzionato. Ha funzionato perché c’erano Andrea, Alessandro, Alexander, Nicole, Andrea. F., Alessandro&Alessia, Marco, Viviana, Aaron, Janos, Edoardo, Chiara, Alessio, Martina, Alessia, Anna, Irene (buon compleanno!), Andrea S., Irene B., Julie, ragazze-rana, ragazzi-rispo, uomini Haribo, Corrado & team, Michele e la squadra delle partenze, Roberto e gli enforcer degli arrivi e delle arene e chi più ne ha più ne metta e chiedo scusa a tutti\tutte coloro che non ho menzionato.

Grazie a loro sono arrivati i sorrisi degli atleti. Le strette di mano sincere (anche se sudate). Le battute scambiate con chi non capiva una parola ma rideva comunque. Il momento in cui tu ti rendi conto che non sei la gara, ma fai comunque parte della magia.

Non pensi ancora che, a giochi finiti, resterà solo la voce roca, la sindrome da microfono fantasma (tendo ancora a parlare pensando che centinaia di persone mi stiano ascoltando e giudicando severamente) e una certezza: i JWOC sono una macchina infernale che divora ogni energia… ma regala anche storie che si racconteranno tra 15 anni davanti al caminetto nelle lunghe serate invernali, con lo sguardo perso e la frase tipica: “Non potete capire...”.

I JWOC sono meglio dei WOC, credete a me. Sono il luogo nel quale i sogni dei ragazzi e delle ragazze che hanno da 16 a 20 anni diventano realtà, nel quale si concretizzano per una volta quelle speranze di indossare una maglia di una squadra nazionale davanti a genitori, amiche ed amici, una esperienza unica per molti di loro che non arriveranno più a vivere sui campi di gara dei Mondiali “adulti”. Quei pochi che lo faranno, troveranno attorno a loro professionisti già con famiglia e figli, in un caleidoscopio di umanità che copre un arco di 20 e più anni di vita, e non “solo” quei quattro o cinque anni più belli della vita di ognuno con cui trascorrere una settimana di vita che porteranno per sempre nel libro dei ricordi.

Mi capite?

In effetti, no.

Non potete.

Ma fidatevi: è stato bellissimo.

Anche se, per metà del tempo, non sapevo dove fossi, chi fossi o cosa stessi facendo.
Per l’altra metà… peggio ancora.

E questa era solo l’introduzione. Il trailer. Il teaser col montaggio veloce, la musica epica e i sottotitoli sgrammaticati in inglese.

Perché il bello (o il tragico) viene adesso.

Nei prossimi giorni cercherò di portarvi dentro i JWOC, proprio là dove le magliette diventano seconde pelli, le riunioni sembrano uscite da un episodio di The Office, e gli altoparlanti gracchiano parole che avrebbero bisogno del bollino rosso.
Vi racconterò quello che si può dire, quello che non si dovrebbe dire, e quello che si dirà lo stesso, tanto ormai i testimoni sono sparpagliati per l’Europa e nessuno ha ancora sporto denuncia.

Vorrei portarvi a scoprire con me perché ho quasi causato più di un incidente diplomatico con un cartello colombiano, la squadra femminile ucraina, una allenatrice norvegese, più di un addetto stampa; e poi come ho cercato di gestire un’arena con più cavi del backstage di Sanremo e meno segnale di un Nokia 3310 in galleria; e che fine hanno fatto le misteriose scalette per la gestione dei protocolli di premiazione e dei cerimoniali di cui nessuno vuole parlare ma che, secondo alcuni, potrebbe contenere le chiavi per il controllo mentale degli speaker internazionali.

Avete presente l’inizio del delirio?

Ecco, questo è il prima.

Nel prossimo episodio… si balla sul serio.

To be continued...

(E non dite che non vi avevo avvisati.) 

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