Geiuocc 2025: io, il microfono, e incidenti vari
E tutto finì (quasi) in un lampo.
8 giorni nella pentola a pressione.
8 giorni a tutto vapore e a tutto volume.
8 giorni con i DUE neuroni che urlano e battono le pentole
nel cervello al ritmo di: “non sei TU la gara, non ti ascolta nessuno, non
succede niente nemmeno se urli parolacce!” (questo è il neurone che vuole
togliere pressione, a costo di essere deprimente) oppure “metterai in crisi
tutta l’organizzazione, sei impresentabile, non sei adatto, i momenti ufficiali
saranno terrificanti !!!” (questo è il neurone spaventato a priori da
qualunque cosa).
Ma andiamo con ordine.
O forse no.
Andiamo con disordine, che almeno siamo coerenti.
Il primo impatto col JWOC è stato simile a quello di un
criceto che si lancia volontariamente in autostrada per provare il parkour.
“Vieni che ci divertiamo”, mi avevano detto.
“Parli solo un po’ al microfono”, avevano aggiunto.
Solo che poi quel “microfono” si è rivelato un’arma di
distruzione di massa con potenza vocale paragonabile a una sagra di paese in
Val Trompia sotto Red Bull scaduta. E “solo un po’” si è trasformato in
ore e ore a urlare cognomi slavi impronunciabili, fingendo entusiasmo mentre i
miei neuroni litigavano sul significato esistenziale di una Long Distance.
Il giorno del prologo ho indossato per
la prima volta la maglietta dell’organizzazione e la maschera del
professionista, appositamente fornitami dalle meravigliose volontarie
dell’organizzazione (o dai fantastici volontari dell’organizzazione… non saprei
dire, mi è arrivato un pacchetto). Peccato che nessuno mi avesse detto che la
maschera era quella del Joker e che la maglietta era troppo stretta (per
l’autostima, prima ancora che per la pancia). Appena acceso il microfono, avrei
subito capito due cose: 1. La voce usciva con un tono da arrotino ma con una
chiarezza espositiva rivedibile 2. Nessuno mi ascoltava. Nemmeno io.
Ma non c’era tempo per piangersi addosso, perché ai JWOC ogni
momento è il “prossimo momento”. Quando credi di poterti sedere per un caffè,
ti ritrovi invece a spostare transenne sotto l’occhio laser di un delegato IOF
che ti guarda come se tu stessi sabotando l’intero evento per conto di una
potenza straniera.
Nel mezzo, si balla. Si balla tra briefings, Team Officials’ Meetings, addetti stampa che non capiscono il concetto di “quarantena”, volontari che parlano solo dialetto, zone speaker aperte al pubblico come bancarelle del mercato settimanale e allenatrici norvegesi che pretendono solo spiegazioni in perfetto inglese tecnico... da uno che a stento sa dire "starting list".
Picchi massimi? Peggio di una tappa pirenaica del Tour de
France! Durante una premiazione, luci, musiche, silenzi drammatici. A un certo
punto, prendo il microfono e inizia lo show — “Ladies and gentlemen, welcome
to the prize giving ceremony of the JWOC 2025…” — quando un neurone mi
sussurra: “Se adesso canti My Heart Will Go On fai la storia”. Per
fortuna l’altro gli ha tirato una padellata.
Eppure, in tutto questo bordello ordinato, qualcosa ha
funzionato. Ha funzionato perché c’erano Andrea, Alessandro, Alexander, Nicole,
Andrea. F., Alessandro&Alessia, Marco, Viviana, Aaron, Janos, Edoardo,
Chiara, Alessio, Martina, Alessia, Anna, Irene (buon compleanno!), Andrea S.,
Irene B., Julie, ragazze-rana, ragazzi-rispo, uomini Haribo, Corrado & team,
Michele e la squadra delle partenze, Roberto e gli enforcer degli arrivi e
delle arene e chi più ne ha più ne metta e chiedo scusa a tutti\tutte coloro
che non ho menzionato.
Grazie a loro sono arrivati i sorrisi degli atleti. Le
strette di mano sincere (anche se sudate). Le battute scambiate con chi non
capiva una parola ma rideva comunque. Il momento in cui tu ti rendi conto che non
sei la gara, ma fai comunque parte della magia.
Non pensi ancora che, a giochi finiti, resterà solo la voce
roca, la sindrome da microfono fantasma (tendo ancora a parlare pensando che
centinaia di persone mi stiano ascoltando e giudicando severamente) e una
certezza: i JWOC sono una macchina infernale che divora ogni energia… ma regala
anche storie che si racconteranno tra 15 anni davanti al caminetto nelle lunghe
serate invernali, con lo sguardo perso e la frase tipica: “Non potete
capire...”.
I JWOC sono meglio dei WOC, credete a me. Sono il luogo nel quale i sogni dei
ragazzi e delle ragazze che hanno da 16 a 20 anni diventano realtà, nel quale
si concretizzano per una volta quelle speranze di indossare una maglia di una
squadra nazionale davanti a genitori, amiche ed amici, una esperienza unica per
molti di loro che non arriveranno più a vivere sui campi di gara dei Mondiali
“adulti”. Quei pochi che lo faranno, troveranno attorno a loro professionisti
già con famiglia e figli, in un caleidoscopio di umanità che copre un arco
di 20 e più anni di vita, e non “solo” quei quattro o cinque anni più belli
della vita di ognuno con cui trascorrere una settimana di vita che porteranno
per sempre nel libro dei ricordi.
Mi capite?
In effetti, no.
Non potete.
Ma fidatevi: è stato bellissimo.
Anche se, per metà del tempo, non sapevo dove fossi, chi
fossi o cosa stessi facendo.
Per l’altra metà… peggio ancora.
E questa era solo l’introduzione. Il trailer. Il teaser col
montaggio veloce, la musica epica e i sottotitoli sgrammaticati in inglese.
Perché il bello (o il tragico) viene adesso.
Nei prossimi giorni cercherò di portarvi dentro i
JWOC, proprio là dove le magliette diventano seconde pelli, le riunioni
sembrano uscite da un episodio di The Office, e gli altoparlanti gracchiano
parole che avrebbero bisogno del bollino rosso.
Vi racconterò quello che si può dire, quello che non si dovrebbe dire,
e quello che si dirà lo stesso, tanto ormai i testimoni sono
sparpagliati per l’Europa e nessuno ha ancora sporto denuncia.
Vorrei portarvi a scoprire con me perché ho quasi causato più
di un incidente diplomatico con un cartello colombiano, la squadra femminile
ucraina, una allenatrice norvegese, più di un addetto stampa; e poi come
ho cercato di gestire un’arena con più cavi del backstage di Sanremo e meno
segnale di un Nokia 3310 in galleria; e che fine hanno fatto le misteriose
scalette per la gestione dei protocolli di premiazione e dei cerimoniali di cui
nessuno vuole parlare ma che, secondo alcuni, potrebbe contenere le chiavi per
il controllo mentale degli speaker internazionali.
Avete presente l’inizio del delirio?
Ecco, questo è il prima.
Nel prossimo episodio… si balla sul serio.
To be continued...
(E non dite che non vi avevo avvisati.)
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