Stegal67 Blog

Monday, February 17, 2025

Extreme Day

Extreme Ways. Così cantava Moby, raccontando di sentieri tortuosi e di scelte che portano lontano. E ieri Milano, la mia Milano, si è rivelata attraverso strade conosciute e altre dimenticate, in una giornata che avrebbe dovuto essere solo una passeggiata e invece si è trasformata in un viaggio dentro il volto meno raccontato della città.

Marco ed io, entrambi nati nel ’67, entrambi quindi alle soglie dei 58 anni, io più vecchio di lui di qualche settimana (segue immutabile ed immancabile scambio di battute sul fatto che per una volta è lui a dovermi inseguire ed immancabile risposta “pensa a quando ti sorpasserò!”) ci concediamo ogni anno questa passeggiata che ci porta in luoghi talvolta solo immaginati, a sondare un pezzo della strada che abbiamo fatto nella nostra vita e a scavare davvero tanto a fondo nel nostro intimo e nei nostri pensieri quotidiani.

Abbiamo iniziato il cammino, perché di puro e semplice cammino questa volta si è trattato, in Via Cavriana. C'era un tempo in cui qui si trovavano gli uffici di UBI Banca, un luogo che per molti attuali colleghi significava lavoro, routine, scelte economiche e burocratiche. Oggi, il paesaggio urbano sembra immobile, cristallizzato in un'era di transizione tra un passato solido e un futuro incerto. Qui il cemento racconta storie di affari e di scrivanie ormai vuote. Via Cavriana mi è sembrato essere un posto pronto per essere tagliato fuori dal mondo, un mondo che lo smart working ha reso meno bisognoso di uffici e palazzi in vetro e acciaio, di servizi e luoghi di ritrovo (fosse solo per una pausa caffè) ma che non ha ancora ridato spazio e possibilità di crescita a chi potrebbe ambire anche solo ad una esistenza dignitosa: a soli 200 metri da noi, Viale Forlanini conduce da una parte dritto al centro della Milano Olimpica, e dall’altra all’aeroporto di Linate, collegando due estremi che non sempre si concedono il lusso di fermarsi a riflettere, ma lasciando ovattato e sullo sfondo il rumore del traffico che fa da sottofondo ininterrotto alle giornate.

Abbandonato il quadrante est della città, dove saremmo tornati a riprendere le nostre auto, siamo approdati vicino a dove Marco ed io abbiamo vissuto per qualche tempo, ancora lontani l’uno dall’altro da compagni di squadra che non si frequentano anche fuori dai boschi. Porta Lodovica rimane un'area che per me ha un significato tutto personale: ieri il negozio di mio papà, il tragitto per andare a scuola o al lavoro. Ieri siamo entrati proprio nei cortili dove ha sede il centro medico dove porto mia madre a fare le visite periodiche per i suoi acciacchi. Che differenza tra una normale giornata della settimana e la domenica: durante i giorni feriali, nei cortili si affacciano persone di ogni età che attendono una visita, aspettano un responso che potrebbe essere felice o che potrebbe portare a nuove ansie. Quante volte ho percorso quelle strade, quante volte ho atteso il termine di un esame medico, tra un bar anonimo e la sedia troppo dura di una sala d'attesa? Ho ripensato a quelle giornate scandite dall'ansia e dalla speranza, a quelle ore trascorse con lo sguardo fisso su un display che annuncia turni e numeri. Milano sa essere crudele e indifferente, ma sa anche accoglierti nel suo abbraccio asettico fatto di ospedali e di medici che, nonostante tutto, lottano ogni giorno. Di domenica, lo scenario è diverso: gli abitanti dei cortili si riappropriano della loro quotidianità, non si aspettano il comparire di facce nuove e bene abbiamo fatto Marco ed io a prendere i nostri passi ed allontanarci verso una nuova meta.

La stazione di San Cristoforo ci ha accolto con il suo paesaggio ferroviario, con binari che sembrano condurre verso il nulla e promesse di riqualificazione che, come sempre, restano sospese nell'aria. Qui dovrebbe sorgere, prima o poi, un nuovo ospedale destinato a sostituire San Paolo e San Carlo. Si dice, si progetta, si discute. Ma intanto la città continua a esistere nei suoi angoli di attesa e precarietà. Ho attraversato la passerella sopraelevata, guardando le rotaie e chiedendomi quanti altri occhi, come i miei, si siano posati su quello scenario, immaginando un futuro che tarda ad arrivare. I muri scrostati, i graffiti che raccontano storie di rabbia e di speranza, il vento che porta con sé il suono distante di un treno in arrivo. Ho respirato profondamente, cercando di assorbire ogni dettaglio, ogni frammento di quella realtà sospesa.

Proseguendo lungo via Bisceglie, ho ripercorso i luoghi che per dodici anni sono stati il mio mondo lavorativo. Certe strade si imprimono nella memoria con la forza dei giorni ripetuti, degli stessi tragitti, degli stessi semafori. Qui un tempo lasciavo l'auto prima di partire per le trasferte, un punto di partenza e di ritorno, una routine che oggi appare quasi estranea, come un capitolo di vita chiuso e archiviato. Ho osservato gli edifici, alcuni ancora familiari, altri cambiati, trasformati da nuove insegne, nuovi colori e nuovi brand. La consapevolezza che dietro alla città tutta luci e rumori e successo e soldi che sono stato abituato a vedere c’è una pletora di situazioni al limite della vivibilità, se non ben oltre la vivibilità, se non addirittura oltre la soglia della vergogna quando ci viene sbattuto in faccia lo scenario nel quale ancora oggi a Milano le persone possono essere costrette a vivere. E’ proprio vero che talvolta basta dare una occhiata al di là del muro per accorgersi che esiste una realtà parallela e molto più complicata e disagevole rispetto a ciò che crediamo di vedere ogni giorno.

Ma ogni viaggio ha una fine, e la mia giornata si è conclusa bruscamente con una telefonata dall'ospedale. L’ennesimo dottore. Mia madre. Codice giallo. Ricovero. Il resto del percorso non lo ricordo in dettaglio, lo ha scritto la preoccupazione, il bisogno di esserci, il pensiero che certi cammini sono irrilevanti rispetto alla fragilità della vita. Marco mi ha riaccompagnato attraverso quella città che non si ferma mai, che non concede pause, che sembra sempre impegnata a inseguire qualcosa di sfuggente.

Di questa giornata resteranno i passi, i luoghi, i pensieri. Resteranno i sussurri percepiti nei racconti frammentati che rimbalzavano da una bocca all'altra. "Nel buio della metropolitana correvano voci incontrollate e pazzesche. Si diceva che alcune squadre erano state fermate dalla polizia e portate in questura…". Se non avessi visto con i miei occhi un verbale di polizia, mi limiterei a riportare questa frase con la voce del mitico Fantozzi.

Restano le strade di una città che muta, che si nasconde dietro la facciata scintillante, che tra una vetrina e un grattacielo custodisce angoli di estrema bellezza e di estrema ingiustizia. Il nome del protagonista ed il suo brand di tre lettere non li troverete in questo racconto. Perché non si sa mai chi legge il blog. Ma se chi legge ha la pazienza di guardare oltre la superficie, di seguire il filo di queste parole come una mappa invisibile, allora forse riuscirà a vedere Milano non solo per ciò che vuole mostrare, ma anche per ciò che cerca di nascondere e che il protagonista cerca da dieci anni di renderci consapevoli.

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