Extreme Day
Extreme Ways. Così cantava Moby, raccontando di sentieri tortuosi e di scelte che portano lontano. E ieri Milano, la mia Milano, si è rivelata attraverso strade conosciute e altre dimenticate, in una giornata che avrebbe dovuto essere solo una passeggiata e invece si è trasformata in un viaggio dentro il volto meno raccontato della città.
Marco
ed io, entrambi nati nel ’67, entrambi quindi alle soglie dei 58 anni, io più
vecchio di lui di qualche settimana (segue immutabile ed immancabile scambio di
battute sul fatto che per una volta è lui a dovermi inseguire ed immancabile
risposta “pensa a quando ti sorpasserò!”) ci concediamo ogni anno questa
passeggiata che ci porta in luoghi talvolta solo immaginati, a sondare un pezzo
della strada che abbiamo fatto nella nostra vita e a scavare davvero tanto a
fondo nel nostro intimo e nei nostri pensieri quotidiani.
Abbiamo
iniziato il cammino, perché di puro e semplice cammino questa volta si è
trattato, in Via Cavriana. C'era un tempo in cui qui si trovavano gli uffici di
UBI Banca, un luogo che per molti attuali colleghi significava lavoro, routine,
scelte economiche e burocratiche. Oggi, il paesaggio urbano sembra immobile,
cristallizzato in un'era di transizione tra un passato solido e un futuro
incerto. Qui il cemento racconta storie di affari e di scrivanie ormai vuote. Via
Cavriana mi è sembrato essere un posto pronto per essere tagliato fuori dal
mondo, un mondo che lo smart working ha reso meno bisognoso di uffici e palazzi
in vetro e acciaio, di servizi e luoghi di ritrovo (fosse solo per una pausa caffè)
ma che non ha ancora ridato spazio e possibilità di crescita a chi potrebbe
ambire anche solo ad una esistenza dignitosa: a soli 200 metri da noi, Viale
Forlanini conduce da una parte dritto al centro della Milano Olimpica, e dall’altra
all’aeroporto di Linate, collegando due estremi che non sempre si concedono il
lusso di fermarsi a riflettere, ma lasciando ovattato e sullo sfondo il rumore
del traffico che fa da sottofondo ininterrotto alle giornate.
Abbandonato
il quadrante est della città, dove saremmo tornati a riprendere le nostre auto,
siamo approdati vicino a dove Marco ed io abbiamo vissuto per qualche tempo,
ancora lontani l’uno dall’altro da compagni di squadra che non si frequentano
anche fuori dai boschi. Porta Lodovica rimane un'area che per me ha un
significato tutto personale: ieri il negozio di mio papà, il tragitto per
andare a scuola o al lavoro. Ieri siamo entrati proprio nei cortili dove ha
sede il centro medico dove porto mia madre a fare le visite periodiche per i
suoi acciacchi. Che differenza tra una normale giornata della settimana e la
domenica: durante i giorni feriali, nei cortili si affacciano persone di ogni
età che attendono una visita, aspettano un responso che potrebbe essere felice
o che potrebbe portare a nuove ansie. Quante volte ho percorso quelle strade,
quante volte ho atteso il termine di un esame medico, tra un bar anonimo e la
sedia troppo dura di una sala d'attesa? Ho ripensato a quelle giornate scandite
dall'ansia e dalla speranza, a quelle ore trascorse con lo sguardo fisso su un
display che annuncia turni e numeri. Milano sa essere crudele e indifferente,
ma sa anche accoglierti nel suo abbraccio asettico fatto di ospedali e di
medici che, nonostante tutto, lottano ogni giorno. Di domenica, lo scenario è
diverso: gli abitanti dei cortili si riappropriano della loro quotidianità, non
si aspettano il comparire di facce nuove e bene abbiamo fatto Marco ed io a
prendere i nostri passi ed allontanarci verso una nuova meta.
La
stazione di San Cristoforo ci ha accolto con il suo paesaggio ferroviario, con
binari che sembrano condurre verso il nulla e promesse di riqualificazione che,
come sempre, restano sospese nell'aria. Qui dovrebbe sorgere, prima o poi, un
nuovo ospedale destinato a sostituire San Paolo e San Carlo. Si dice, si
progetta, si discute. Ma intanto la città continua a esistere nei suoi angoli
di attesa e precarietà. Ho attraversato la passerella sopraelevata, guardando
le rotaie e chiedendomi quanti altri occhi, come i miei, si siano posati su
quello scenario, immaginando un futuro che tarda ad arrivare. I muri scrostati,
i graffiti che raccontano storie di rabbia e di speranza, il vento che porta
con sé il suono distante di un treno in arrivo. Ho respirato profondamente,
cercando di assorbire ogni dettaglio, ogni frammento di quella realtà sospesa.
Proseguendo lungo via Bisceglie, ho ripercorso i luoghi che
per dodici anni sono stati il mio mondo lavorativo. Certe strade si imprimono
nella memoria con la forza dei giorni ripetuti, degli stessi tragitti, degli
stessi semafori. Qui un tempo lasciavo l'auto prima di partire per le
trasferte, un punto di partenza e di ritorno, una routine che oggi appare quasi
estranea, come un capitolo di vita chiuso e archiviato. Ho osservato gli
edifici, alcuni ancora familiari, altri cambiati, trasformati da nuove insegne,
nuovi colori e nuovi brand. La consapevolezza che dietro alla città tutta luci
e rumori e successo e soldi che sono stato abituato a vedere c’è una pletora di
situazioni al limite della vivibilità, se non ben oltre la vivibilità, se non
addirittura oltre la soglia della vergogna quando ci viene sbattuto in faccia
lo scenario nel quale ancora oggi a Milano le persone possono essere costrette
a vivere. E’ proprio vero che talvolta basta dare una occhiata al di là del
muro per accorgersi che esiste una realtà parallela e molto più complicata e
disagevole rispetto a ciò che crediamo di vedere ogni giorno.
Ma
ogni viaggio ha una fine, e la mia giornata si è conclusa bruscamente con una
telefonata dall'ospedale. L’ennesimo dottore. Mia madre. Codice giallo. Ricovero.
Il resto del percorso non lo ricordo in dettaglio, lo ha scritto la
preoccupazione, il bisogno di esserci, il pensiero che certi cammini sono
irrilevanti rispetto alla fragilità della vita. Marco mi ha riaccompagnato
attraverso quella città che non si ferma mai, che non concede pause, che sembra
sempre impegnata a inseguire qualcosa di sfuggente.
Di
questa giornata resteranno i passi, i luoghi, i pensieri. Resteranno i sussurri
percepiti nei racconti frammentati che rimbalzavano da una bocca all'altra.
"Nel buio della metropolitana correvano voci incontrollate e pazzesche. Si
diceva che alcune squadre erano state fermate dalla polizia e portate in
questura…". Se non avessi visto con i miei occhi un verbale di polizia, mi
limiterei a riportare questa frase con la voce del mitico Fantozzi.
Restano
le strade di una città che muta, che si nasconde dietro la facciata
scintillante, che tra una vetrina e un grattacielo custodisce angoli di estrema
bellezza e di estrema ingiustizia. Il nome del protagonista ed il suo brand di
tre lettere non li troverete in questo racconto. Perché non si sa mai chi legge
il blog. Ma se chi legge ha la pazienza di guardare oltre la superficie, di
seguire il filo di queste parole come una mappa invisibile, allora forse
riuscirà a vedere Milano non solo per ciò che vuole mostrare, ma anche per ciò
che cerca di nascondere e che il protagonista cerca da dieci anni di renderci consapevoli.
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