Deuteronomio
Se non fosse per quella maledetta passionaccia… dovrei cospargermi il capo di cenere e ammettere che la cosa più vicina al colpo di fulmine sportivo (sportivo narrante, non sportivo praticante) l’ho vissuta nel 1994. Si tratta di qualcosa che ha molto a che fare, come in tutti i racconti di questa Bibbia personale, con il modo in cui i presunti addetti ai lavori raccontano ed interagiscono con lo sport. Se non fosse per quella maledetta passionaccia…
L’eroe del Deuteronomio, se ce n’è uno anche nella versione originale, si chiama Lorenzo. Un tipo che a vederlo non gli avresti dato molte lire… un po’ allampanato, con i capelli biondastri un po’ così alla rinfusa, uno che non avrebbe vinto un concorso di bellezza contro Costantino Vitagliano ma insomma… a chi poteva mai fregare?!? Strano tipo, questo Lorenzo. Uno tra i tanti, uno tra i sei, a dire il vero. Ma non avrebbe vinto quel concorso di bellezza nemmeno se stavi a paragonarlo solo con quegli altri cinque. Tu lo guardavi (io lo guardavo) e non capivi (io non capivo), guardavi ancora e ci mettevi davvero poco a stabilire che Andrea, quello col nasone, quello sì che non ci voleva niente a capire che ruolo avesse e quanto importante. Guardavi Andrea, l’altro Andrea, quello coi capelli assurdi (ma un po’ meno assurdi di quelli che ha oggi) e ti rendevi conto subito di quanto, capelli o non capelli, la sua presenza fosse fondamentale.
Poi guardavi Lorenzo e non capivi (io non capivo). Anche se a distanza di anni mi tocca ammettere che ero IO quello che non capiva, ma che più di me ci hanno capito senz’altro coloro che un giorno misero Lorenzo in cima al mondo, lui solo lui a pari merito con quell’altro tizio che di nome faceva Karch … Karch Kiraly, per completezza di racconto, che era uno che un giorno andò a prendere per il collo in diretta televisiva Stefano Margutti perchè aveva lasciato cadere a terra un pallone senza sbattersi troppo per andare a prenderlo. Ma questa è un’altra storia.
Lorenzo, da buon trentino, ti guardava e poi, se non gli aggradava la tua presenza, ti metteva a terra. Fisicamente se stavi dall’altra parte della rete, o metaforicamente se non stavi su un campo da gioco. Come quella volta che sentii l’addetto ai lavori (che probabilmente fino al giorno prima aveva intervistato l’assessore amico suo o il potente di turno) fargli una certa domanda… Eravamo nel 1994. Agosto 1994. E devo riconoscere che ci vuole un certo coraggio unito ad una buona dose di ignoranza, per andare a sventolare il microfono sotto il naso di Lorenzo e dirgli con un certo tono di critica e sfida, come se fosse la cosa più naturale del mondo, che ormai era un giocatore appagato, che stava cominciando a diventare “molle”, che aveva perso quegli “occhi da tigre” che lo avevano reso famoso in tutti il mondo. Ci vuole coraggio, o follia…
Se non fosse per quella maledetta passionaccia… io ricordo Lorenzo, gli occhi puntati dritti davanti a lui, ad una altezza siderale rispetto all’intervistatore. Ricordo la replica. “Molle? Io? … dimmelo tu. Io mi ricordo le facce di tutti coloro che stavano intorno a me al (…) e la tua non c’era. Io invece c’ero, sai? Ero proprio lì.”. E la mia mente comincia a viaggiare.
Adesso siamo nel 1990. E’ il 28 ottobre del 1990. Anzi, no, è il giorno prima. Il 27 ottobre. In casa ci sono due televisori, ma “quello grande” trasmette un film o un telefilm o una qualunque cosa piaccia ai miei genitori. Io sono attaccato a quello piccolo, quello che va sintonizzato ancora manualmente. Ho trovato il segnale di Rai3, e le mie orecchie devono captare la voce di Jacopo Volpi in mezzo al vociare di 20.000 pazzi urlanti (in un'altra occasione, in un’altra stagione, in un altro sport, i pazzi diventeranno 100.000, ma anche questa è un’altra storia). E’ il Ginasio do Maracanazinho: Italia – Brasile, semifinale del Campionato del Mondo di Pallavolo. Da un lato i favoriti, i verde-oro. Dall’altra 6 ragazzi 6 che non sono ancora una “generazione di fenomeni”: Andrea, Paolo, Andrea, Luca, Andrea e Lorenzo.
Se non fosse per quella maledetta passionaccia… come si può credere che il Brasile possa perdere? Non con quella squadra che sono in grado di schierare, non in quel posto davanti al loro pubblico, non in quella edizione dei Mondiali organizzata apposta per loro. Non contro una nazione che, pur in crescita, non si è mai vista a quei livelli. Oddio, proprio “mai” no… certo, chi ma si ricorda dei Mondiali del 1978 giocati in casa? Chi si ricorda del “Gabbiano d’argento”? Eppure il precedente dice che anche nel 1978 finì Italia 3 – Brasile 2. Perché i miracoli, quando sono targati Italia-Brasile, finiscono sempre tre a due… 1978. Il Gabbiano d’argento. E la frase di Carmelo Pittera prima della semifinale: “Se due più due fa cinque, noi battiamo Cuba”. Nel 1978, due più due fece veramente cinque! Ma nel 1990, a distanza di 12 anni, bisogna fare ancora 2+2=5, contro il Brasile, se si vuole andare a giocare la finale contro Cuba. Ma 20.000 pazzi urlanti non bastano a cambiare il verso dell’equazione, a fermare il salto di Andrea Lucchetta e l’ultimo pallone che si schianta a terra nella metà campo brasiliana, ancora un 3 a 2! E’ la sera del 27 ottobre, e quando finisce la partita forse è già il 28 ottobre e mancano poche ore alla finale contro Cuba. Da giocare contro Diago, Vante, Beltran… e contro il più forte giocatore del mondo: “El Diablo”, Joel Despaigne.
Così parlavano all’intervistatore divenuto piccolo piccolo, o a nessuno in particolare, la voce e gli occhi di Lorenzo Bernardi. Si arriva al giorno successivo. Il 28 ottobre 1990, e due più due continua a fare cinque. El Diablo gioca per Cuba, gioca per la revoluciòn, per se stesso, gioca ad un certo momento da solo contro tutti. E se ti chiami Joel Despaigne, o Michael Jordan, o Maradona, qualche volta puoi giocare contro tutti e farcela lo stesso. Non contro la nazionale italiana di quell’anno. Despaigne gioca come un dio, ed il racconto fatto da Andrea Lucchetta degli effetti sonori che accompagnano le bordate del cubano basterebbe per capirlo. Ma alla fine, tra tutti, ad un altro orario impossibile e dopo un quarto set interminabile, è Lorenzo Bernardi a mettere per terra l’ultimo pallone. E a salire sul seggiolone dell’arbitro per urlare a tutti che quella squadra è in cima al mondo, che lui è in cima al mondo. La stessa cosa che sta urlando Jacopo Volpi, poi più noto per le compassate telecronache calcistiche ma quel giorno numero 1 tra i tifosi al Maracanazinho.
Come si poteva porre a Lorenzo una domanda del genere? Molle? Lui? Beh… questa domanda, e la reazione di Lorenzo (che per quanto pacata, più incisiva non poteva essere) la ricorderò per tutta la vita, anche se c’è sempre quella maledetta passionaccia... E mi torna in mente ogni volta che tocca a me raccontare qualcosa sul nostro sport. Perché quel giornalista che nel 1994 provò a mettere Bernardi in difficoltà, lui, al Maracanazinho, non ci aveva probabilmente mai nemmeno messo piede: avrebbe dovuto ricordarsi che, prima di fare una domanda del genere, bisognerebbe mettersi nei panni di quell’altro.
“Mettersi nei panni di”. Proprio così. Qualcuno mi ha mai chiesto perché il sottoscritto si ostina a mettere assieme gare inutili partendo alle 8 (anche più presto, anche molto più presto) per fare la gara prima di tutti quanti gli altri? Perché sono un orientista? Si. Perché il mio lavoro non è fare lo speaker e quindi preferisco di gran lunga fare anche io la gara? Si. Perché essere nel bosco in totale solitudine dà un senso di appagamento che spesso la gara non riesce ad offrire? Si. Perché… perché… perché… Perché io non voglio fare come quel giornalista che si rese ridicolo ponendo a Bernardi una domanda assurda. Perché, proprio io che non sono un narratore professionista, non voglio rendermi ridicolo di fronte a nessun orientista facendo domande, o parlando di una gara, senza prima aver provato sulla mia pelle e sulla mia fatica (sempre sulla mia fatica, ma spesso anche sulla mia pelle) cosa vuol dire essere stato in un certo bosco, su certe salite o a caccia di un certo punto di controllo. Perché, anche quando si parla o si straparla di gare fatte da altri, bisognerebbe sempre cercare di “mettersi nei panni di” quei famosi “altri”.
Una delle frasi che ho scritto e che talvolta mi viene ricordata, per fortuna positivamente dai protagonisti di quel giorno, risale al 9 settembre 2006. Campionati Italiani a staffetta a Jenesien: “nessuno adesso vorrebbe essere nei panni di Marina Simion in terza frazione; nessuno... tranne forse Marina stessa”. Mi piacerebbe aver tenuto in serbo questa frase per un’altra occasione, per la staffetta Mondiale 2011 a La Feclaz, per Klaus e Alessio e Misha; perché tutti quanti abbiamo detto i nostri “Eh certo, vorrei anche vedere che non si riusciva a tenere il treno…” “Eh vabbé… ma guarda poi come è andata a finire…”. E tutti noi saremmo stati certamente a nostro agio a sentirci addosso i panni di Klaus e Alessio e Misha col senno di poi, con il risultato acquisito quando la gara è finita, con le sensazioni stemperate dal tempo che passa e dal podio sfumato. Ma quando sei lì, quando ci sei dentro fino al collo che ti serve un periscopio per poterti guardare attorno, quando ti trovi nel bosco di La Feclaz ed attorno a te non ci sono i panzottelli ma Gonon e Nordberg e compagnia, o sei a Jenesien in fuga per il tuo primo titolo a staffetta e dietro di te si preparano Laura e Heike, allora puoi star certo che non trovi tanta gente pronta a raccogliere e vestire i tuoi panni ed infilarsi dritto nella contesa.
Se non fosse per quella maledetta passionaccia… la lezione più grande che Lorenzo Bernardi ha dato come sportivo (lui) a uno sportivo da divano (io) non è come schiacciare un pallone per terra con precisione chirurgica, ma che anche in uno stato nel quale il diritto di critica è legittimo e sacrosanto bisogna sempre ricordarsi che, talvolta, mettersi nei panni di “quell’altro” prima di parlare o scrivere è sempre cosa buona e giusta, e che non lo si fa mai abbastanza spesso.
Se non fosse per quella maledetta passionaccia…
2 Comments:
... e siamo alla fine del pentateuco.
Chissà cosa ci racconteranno tutti i profeti, ora.
Anche la versione originale è piuttosto divertente, se vista con la giusta lente ;-)
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