GEIUOCC 2025 – Giorno 5: Media distanza dalla tenda media
Prima che parta questo nuovo episodio, una cosa ci tengo a dirla.
Non voglio offendere nessuno con le mie parole, né tantomeno sembrare
superficiale. Quello che è successo a Mattia, quello che sta succedendo attorno
a lui e alla sua famiglia, è qualcosa che non ha paragoni con le piccole facezie
che leggete qui. Le notizie serie, quelle vere, solo altrove.
Il mio blog è un diario personale, letto da poche di persone,
e scriverlo di nuovo non è altro che un modo per fare un po’ i conti con il
dolore che ho provato in questi giorni. Mattia resterà il mio campione italiano
anche se non vedrò più il suo nome nelle griglie di partenza.
E adesso… torniamo al racconto.
Penultimo giorno di gare.
Che detta così fa già venire un po’ di magone. Quando eventi come questi
partono, sembra che possano andare avanti per sempre. Poi però ti accorgi che
la gente che si alza prima dell’alba per montare transenne, stampare mappe,
gonfiare archi e cucinare wurstel forse non condivide esattamente lo stesso
entusiasmo. E lì capisci che la magia sta anche in questo: in una macchina che
si muove tutta insieme, e che ogni sera si smonta e si rimonta da capo. Non
posso giurare sulla stanchezza di tutti coloro che da giorni si alzano prima dell’alba
per posare i punti, per allestire le arene, per preparare gli schermi, gli
accessi, le facilities. Ogni tanto penso al momento in cui la gara quotidiana è
davvero finita, l’arena si svuota e tutti ma proprio tutti se ne sono andati
dicendo “dai… anche oggi ce l’abbiamo fatta… ora una bella birra, uno spritz,
cenetta e poi a nanna presto che domani…”. Ma devono succedere ancora tante
cose quando gli ultimi rumori della
festa si sono azzerati ed entrano in scena loro: quelli che si guardano attorno
e vedono quei quintali di transenne, striscioni, cartelli, panche e tavoli… e
dicono “ok, dentro i furgoni, su i guanti da lavoro, rimbocchiamoci le
maniche!”.
Per loro, la cena è sempre fredda, la doccia un miraggio, il
sonno un fastidio e la sveglia all’alba un incubo. Io, in confronto a loro,
devo solo parlare. Se non faccio cavolate, magari prendo pure i complimenti.
Per parlare. Il che è un po’ uno specchio della nostra società: il talk show è
tutto, per le soluzioni ci sarà sempre tempo…
Il mio penultimo giorno comincia per terra. Letteralmente.
Pavimento del cucinino. Esperimento disperato di insonnia trasformata in
"power nap" alla MacGyver. Funziona. Mi alzo con la grazia di
uno zombie e vesto i panni del running-speaker, walking-speaker, lost-speaker…
insomma, la solita collezione di etichette.
Ma stavolta mi concedo un fuori programma: entro nel bosco.
Voglio vederlo. Voglio perdermi anch’io tra verdi verticali e pendenze da
arrampicata libera. Risultato? Palude finale, rovi fino alle ginocchia, e io
che mi trasformo nell’eroe tragico di un film che nessuno ha chiesto. Dal
sentiero soprastante, un gruppo di ragazzi in funzione di pre-runner mi guarda
e commenta: “Stegal vuole passare attraverso il verdone. È un eroe!”
Traduzione simultanea: “Ma guarda sto pirla!”
Arrivo alla postazione speaker con fango fino alle orecchie e lo stesso appeal estetico di un gladiatore sconfitto. Ma in fondo è bello così: mi sporco io, loro corrono puliti, almeno fino al punto 16 del percorso
Lo schieramento alla cabina di regia è collaudato: Alessandro
al timone, io che parlo finché non mi crolla la mascella, Marco che legge
intertempi come fossero carte da poker, Alexander che intervista anche i sassi,
Nicole che pesca sorrisi per IOF TV. La routine è rodata, ma la tensione
rimane.
E poi arriva l’addetto stampa che, mentre la battaglia ancora infuria, chiede ancora: “E’ finita, possiamo mandare in stampa?”. E io, che ho fatto i compiti, tiro fuori che mancano ancora 17 atlete in grado di vincere. “Ma te la senti di dire che il risultato è definitivo…?” No! Non si chiude! Non ancora! E comincio la lista dei nomi: “Sannwald… Maramarosi… Punto… Hotz… Delahaye… Bjork… volete che continui? Diciassette!”. Le medaglie si decidono lì, sotto il sole.
Intanto dietro di noi, la tenda medica sembra un pronto
soccorso o una sorta di confessionale per atleti: crampi in stile yoga fatto in
modo sbagliato, scavigliature, scottature, drammi da manuale. Noi proviamo a
strappare qualche parola agli atleti, ma l’attenzione è tutta sulle gambe che
tremano e sulle borracce svuotate in un sorso. Poi la tenda medica esonda anche
nella zona speaker che diventa una specie di crocevia da ospedale da campo. Genitori,
fratelli, allenatori: densità umana degna di un sushi-bar di Tokyo. Se mi
azzardo a intervistare qualcuno, vengo ignorato peggio di un volantino
pubblicitario. Alexander e Nicole, invece, riescono sempre a strappare parole,
sorrisi, gesti, emozioni. Loro hanno il tocco.
Poi c’è quell’attesa sospesa tra la fine della gara (ore 16) e le premiazioni (ore 18). Due ore che evaporano tra chi cerca ombra sotto le tende, chi si inventa partite a frisbee con un piatto di carta, chi si addormenta seduto sul prato e si sveglia con la cartina stampata in faccia. Io cammino avanti e indietro, mezzo rimbambito dal caldo, e penso: “Se questo è il penultimo giorno, cosa mi aspetta domani?”.
Ore 18: Medal Plaza. La Graticola Arena. I fotografi
sembrano spiedini umani, le autorità sgocciolano come granite al sole, e la
mascotte… povera mascotte! Non sapevo si potesse sudare attraverso il cartone
pressato. Io mi rifugio in un francobollo d’ombra, contornato da atleti
internazionali che ridono a ogni mia frase in italiano. Così passo al piano B:
il finto inglese milanese. Funziona sempre: “Only in Italy!”, e giù a
ridere.
Intanto, mentre le medaglie passano di mano e gli inni
nazionali si alzano nell’aria caldissima, io penso che il countdown è davvero
partito. Domani staffette, VIP race, cerimonia finale, caos garantito. L’aria è
già quella dell’ultimo giorno di scuola: compiti consegnati, zaini buttati,
voglia di fare casino.
C’è ancora tempo per una
giornata, ma per una soltanto, e io so già che sarà un frullatore. Una giostra,
un circo, un caos felice. E una frase, solo mia, che tengo lì pronta.
Ve la dico la prossima volta.
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