Castelrotto: coming home...
Voglio scrivere qualcosa sulla gara di Coppa Italia di
Castelrotto prima che i ricordi di ieri sera, quando ho provato a rifare la
gara nella mia mente punto per punto, sbiadiscano e si confondano con i
prossimi appuntamenti. In realtà c’è ben poco da confondere… quello che al
limite potrei mischiare insieme sono i ricordi di Castelrotto con quelli del
bosco nel quale sono cresciuto!
Sono cresciuto infatti nel bosco di Tavon, una
pineta\abetaia su un piccolo altopiano rettangolare circondato da: il burrone
che butta verso San Romedio, la strada che collega Coredo alla località Due
Laghi, il paese di Coredo, lo stradone che da Coredo porta a Tavon. Perdersi?
Impossibile. In quella pineta c’è sempre stato posto per i sentieri più ampi,
quelli che si usavano per portare avanti i trattori quando c’era da andare a
fare le sorti di legna e quelli che sono poche volte i trattori percorrevano
per andare a recuperare qualche albero caduto. E poi ci sono sempre stati quei
piccoli sentieri, una piccola riga pelata e netta in mezzo agli alberi o ai
licheni, che servivano ai fungaioli per andare a cercare nei posti che
conoscevano. Una rete che noi bambini conoscevamo così bene che ci veniva
concesso di andare a giocare nei boschi anche di notte; non ricordo che mai
nessuno si sia perso! A scrivere così, tuttavia, sembra che si voglia fare un
impietoso paragone con la gara di Sopramonte che si era disputata solo tre
giorni prima… il che non è! Per questo voglio provare a dare sfogo ai miei
pensieri e raccontare.
Allora. Dato che sono cresciuto nel bosco di Tavon, ho
sempre creduto che tutti i boschi fossero come quelli di Tavon! Per dirla in
linguaggio “comunicato gara”: visibilità ampia, percorribilità da buona a
ottima, fondo del terreno compatto e asciutto, vegetazione non invasiva… Ho
sempre pensato che, per definirsi “bosco”, queste fossero le caratteristiche
necessarie. Quando ho scoperto l’orienteering, ero ancora contagiato dal “morbo
di Tavon”. Ho pensato quindi, e l’ho pensato per anni, che essere un atleta
Elite (che io non sono mai stato, ma me li immaginavo così) voleva dire poter
correre (e cercare i punti) in uno bosco come quello della mia gioventù, facendo
scappare da tutte le parti i cerbiatti ed i coniglietti e correndo veloce là
dove nessun ostacolo si frappone tra me ed il prossimo punto. Che poi… “trovare
il prossimo punto”… quella era la vera sfida!
Ero contagiato a tal punto che, pensavo, se io che sono un
povero orientista sfigato posso correre nel bosco di Tavon, chissà gli Elite
quando fanno i campionati mondiali in che razza di paradiso corrono! Questo
pensavo. Finché un bel giorno, nel 1999, sono andato alla Sei giorni di Scozia
che si disputava come gara parallela al mondiale Elite. Con mia somma sorpresa,
ho scoperto che tutto quello che mi ero immaginato era falso: non che i boschi
scozzesi fossero terrificanti… insomma…, ma è stato in Scozia che ho scoperto
la “vegetazione percorribile in un solo senso” (in un ultimo impeto di
stupidera mi ero convinto che fossero punti nei quali si poteva correre in una
sola direzione, One Way appunto… e se scopro di essere arrivato lungo e devo
tornare indietro, cosa faccio???), le distese di erica durissima e
compattissima alta anche più di un metro nella quale cercare di nuotare facendo
emergere solo il tronco e combattendo una battaglia (persa) a livello dei
piedi, i boschi o meglio i dis-boschi con i rami buttati là come a confermare
quello che ha detto Attilio “sembra che usino le bombe per abbattere gli alberi”.
Pensavo nel 1999: “Ma gli Elite li mandano a correre in
questi posti? Dove non è quasi corsa d’orientamento ma un percorso di guerra?”
(ecco perché ne vedevo tornare tanti all’arrivo laceri e sanguinanti…). Ho
scoperto a quei WOC la nuda verità: orienteering vuol dire “andare a correre
nel posto che il Good Lord ti ha messo a disposizione”. Certo, quando il Good Lord
ti mette a disposizione la Capriasca (che odio) o il bosco di Carvico (che odio
di più), pensi che si potrebbe anche salutare il Good Lord, voltare gabbana e
votarsi a quel tale grasso e ciccione che predica la pace e la tranquillità o a
quell’altra seduta all’indiana con 6 braccia… In buona sostanza, non ho più problemi
a gareggiare in un bosco come quello di Sopramonte (che a tratti avrebbe fatto
perdere la pazienza a Giobbe) più di quanto io non provi gioia nel poter scorrazzare
nel bosco di Castelrotto.
Dico di più. L’80 se non il 90 per cento dei ragazzi che
hanno partecipato alla gara di Sopramonte sono scesi in campo solo contro se
stessi. Davvero un qualunque master che non sta in quel club ristretto che dà
la tessera solo se ti chiami Cipriani, Corradini, Hueller o Beltramba o
Dallasanta e compagnia ha pensato “adesso entro nella sassaia a grugno duro e vinco
il campionato italiano”? Io, fossi stato (e lo sono stato, persino sotto il
diluvio per tutta la gara) al posto di tanti dei partecipanti, mi sarei
affidato a qualche scelta tranquilla… altro che “stavo saltando dalla punta di
un sasso all’altra e sono scivolato per colpa della pioggia”! Perché poi il
giorno dopo si va a lavorare, a scuola, si va in giro bendati come mummie ed
alla vecchia scusa che sei stato aggredito da due rottweiler non ci crede più
nessuno…
Lasciato quindi ai posteri il fatto che non mi crea problemi
gareggiare a Sopramonte sotto il diluvio e che quella sassaia è stata quasi
pure simpatica da vincere (Capriasca no! Carvico vade retro!!! Sopramonte
promossa), resta però il fatto che preferisco i boschi come quello di
Castelrotto, dove mi sento quasi a casa. “Quasi a casa” significa anche che
quando, dopo la bellissima esperienza di Clusone, Fabio Marsoner mi ha chiesto
se avrei gradito essere speaker a Castelrotto (per la prima volta speaker per
il T.O.L.!), io ho risposto “Si! Dai! Chiedi la deroga per farmi correre in
Elite!”. Perché sapevo che il bosco di Castelrotto non mi avrebbe fatto male e
che gli alberi, seppure non avrebbero salutato il mio passaggio con incitamenti
ed invidia, almeno non mi avrebbero rivolto sguardi perplessi e penosi. Dovevo però
ancora fare i conti con il mio stato fisico, quello si penoso e da lasciare
perplessi… Il mercoledì pre-gara, giunto alla SportZone di Laranza, non ero
mica sicuro di riuscire a fare l’Elite: per precauzione ho chiesto a Thomas
Widmann se c’era una carta in più della M40, per provare almeno quella. Thomas
mi ha risposto “Si… maaaaa… tu non volevi fare l’Elite?” “Vediamo cosa succede domani,
Thomas. Ok?”.
Mercoledì sera due spiegelei mi rimettono in sesto. La
semifinale di Champions dura quel che deve durare e si capisce presto come va a
finire, la notte porta consiglio e alla mattina il panorama che mi trovo
davanti mentre scendo all’appuntamento con Giuliano e Federica per andare a
Laranza è questo:
C’è anche una specie di selfie (se si dice così). Questa ombra nel prato infatti sono io.
Dall’altra parte della valle, verso nord, c’è quest’altra cosa…
sono proprio
tornato a casa!
Ma la voglia di fare la MElite ancora non mi è tornata. Al
campo di Laranza fervono i preparativi. Rudi con la sua giacca dalle mille
tasche sta organizzando gli ultimi giri di controllo, io sono già pronto per
entrare nel bosco, Thomas è pronto con una carta MElite tutta per me ed io dico
“Thomas… tu sei sicuro che io posso farcela?”. E Thomas rispose (cit.) “Maaaaa…
tu non volevi fare l’Elite?”. Avete mai fissato Thomas Widmann negli occhi? Se
siete Johanna Murer, si. Se non siete Johanna Murer, avete perso in partenza la
sfida: impossibile resistere a quegli occhi azzurri e decisi! “Ok, Thomas, vada
per la MElite… ma ricorda che mi avrai sulla coscienza!”. Ultimo messaggio di
Thomas: “Non credo proprio. Vai e divertiti, è quello che dici a noi ogni volta,
o no?”.
E così è stato che sono andato nel bosco di Castelrotto a
fare la MElite. E che l’ultima cosa che ho visto prima di entrare nel bosco è
stata questa cosa qui, che occupava uno spazio di visuale di circa 120° davanti
a me…
E poi così è stato che non ho avuto un solo cattivo pensiero, perché era
proprio come essere nel bosco di Tavon, anche se a Castelrotto ci sono più
pietre e Rudi e Thomas avevano piazzato parecchie lanterne proprio in mezzo ai
roccioni con il solito metodo “prima vedere oggetto, poi vedere lanterna”. Ed è
così che, infine, sono tornato alla base con tutti i punti in saccoccia, con i
miei errori talvolta grossolani, talvolta quasi impalpabili, con la mia
lentezza e con 270 metri di dislivello nelle gambe che… sentirli? Dove? Senza
un solo cattivo pensiero e con tutte le sensazioni giuste al loro posto. Però
ad Ernesto Rampado gliel’ho detto, che certe cose sul comunicato gara non deve
proprio scriverle, perché poi la gente si fa una impressione sbagliata e magari
mette le scarpe con la suola sbagliata e non vince la categoria! “Visibilità
ampia. Percorribilità da buona ad ottima. Possibilità di vedere caprioli,
conigli e cervi”.
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