Ein Zwei Speakerei…
Negli anni
della mia giovinezza, il mio augusto genitore mi spinse a studiare francese
anziché quell’altra roba strana che cominciava a diventare di moda per via dei
Beatles e dei Rolling Stones. Così ho imparato che François,
Madeleine e Guillaume erano soliti mettere “le chat sur la table”, probabilmente
per farlo giocare con the pen… e chissà se poi pulivano il tavolo prima di
appoggiare il cibo sul tavolo! Poi ancora apprendevo che “le train entre
dans la gare” (e non capivo perché ‘sti francesi facessero le gare coi treni). Intanto venivo severamente edotto sul fatto
che la mia conoscenza del francese mi avrebbe consentito di viaggiare e farmi
capire il tutto il globo, e che non sarei mai rimasto senza lavoro, perché il
francese era la lingua del futuro!
Quest’ultimo pronostico si colloca nella classifica mondiale
delle profezie di Nostradamus a metà strada tra il “Chi mai vorrà andare al
cinema a sentir parlare un attore? Il muto è l’unica forma di cinema
possibile!” di uno dei fratelli Warner ed il “Quel ragazzetto francese che è
arrivato centesimo nella long dei JWOC non avrà mai e poi mai una chance in
Elite!”.
Tramontata l’epoca coloniale, buttati in discarica quei
tre o quattro “ordinateurs” disponibili sul mercato, superata anche l’epoca dei
“coupons” al distributore di benzina e degli chaffeurs con il cappello a
visiera (resistono le entraineuses, ma con difficoltà)… il francese è rimasto
quella lingua che mi ha salvato la vita in Lussemburgo, una nazione i cui
abitanti vanno fieri del fatto di parlare cinque lingue e tutte male – se lo
dicono da soli –: nei posti dove ho lavorato io erano tutti mezzi francesi.
Inoltre è una lingua praticamente desueta con la quale uno se la può tirare un
po’, ha quel certo tono naif (stantìo)che fa fare bella figura in società, come
indossare il papillon o giocare a petanque. Purtroppo né Lio né Vanessa Paradis
hanno fatto tanta strada nel mondo della musica, ma il francese resta pur
sempre la lingua di quel ragazzetto che una volta arrivò davvero centesimo ai
JWOC… e che quando l’ho intervistato ho usato l’inglese, sennò ci capivamo solo
lui ed io!
L’inglese, appunto. Non l’ho mai studiato sul serio, tanto
c’erano le canzoni dei Beatles e dei Rolling Stones che si potevano tradurre. Ancora
oggi la frase che uso nei negozi all’estero, quando un commesso mi fa fretta, è
“I still haven’t found what I’m lookin’ for”… che è il titolo di una canzone
degli U2! Uso l’inglese tutti i giorni al lavoro, e spesso mi stupisco di come
alcuni miei corrispettivi presso altre banche lo parlino male. D’altra parte
oggi disponiamo dello strumento del demonio: GuugolTransleit sta facendo dei
danni da paura di cui ci accorgeremo solo tra 20 anni… la gente scaraventa nella
finestra di sinistra qualunque frase, poi copia e incolla il risultato come se
fosse stato dettato dal British Council, ed uno si trova che il pagamento da 1
milione di Euro è stato oggetto di uno storno … di uno STIRLING! ... come se un
uccello se lo fosse portato via. Se devo
parlare al telefono con un madrelingua, lo stoppo subito con un “Hey brota!
Spicc english veri slo tett I’m not a native”. Se devo discutere con il
proprietario svedese della casa dell’O-Ringen, mi limito a scuotere il testone di
fronte al loro inglese da BBC (a cominciare da una panettiera incontrata anni
fa a Tonder…) e lascio che se la vedano con PLab. Definiamo pure quindi il mio
inglese come “da battaglia” (from battle) e che sia finita lì.
Ma con il tedesco come la mettiamo? Ach! Scheisse!!! Fine
del mio tedesco. Non è mai passato nemmeno per l’anticamera del cervello.
L’unica cosa che so dire in tedesco è “Ich liebe dich, du liebst mich nich… AHA”
(con sottofondo di Da Da Da, dei Trio… precisazione che si rende necessaria
vista la presenza sempre più insistente in ufficio di giovanotti e pischelle che
non sanno neppure chi è Tracy Spencer … ma a scuola non è materia obbligatoria
“Questi meravigliosi anni ‘80”???). La suddetta frase in tedesco, peraltro, è
servita parecchio allo scopo nell’anno del tempo che fu, quando io ed altri due
tizi (che non posso citare ma che hanno fatto più carriera di me) battevamo
furiosamente a pettine tutti i campetti estivi della Romagna balneare e
baskettara, guadagnandoci qualche migliaio di lire ed una cuccia per dormire ad
ogni torneo di 3-contro-3… che il vecchio trucco poi reso celebre da “Chi non
salta bianco è” con Woody Harrelson non lo ha mica inventato Ron Shelton ma
noialtri!
Con il tedesco, escludendo di poter parlare in pubblico con
la cadenza e la pronuncia del fiero alleato Galeazzo Musolesi da San Giovanni
in Persiceto (mica perché mi vergogno, ma per rispetto verso quelli che il
tedesco lo parlano bene), sto a zero spaccato. Il risultato è che ho cominciato
a percepire un lieve brivido lungo la schiena dopo aver risposto positivamente
a Thomas Widmann (sempre lui! Quello che a Laranza mi disse “Vai e divertiti!”
dopo avermi dato la carta dell’Elite) che mi chiedeva se ero disponibile per
fare lo speaker all’Arge Alp di Weissenstein-Pietralba. “Perché mai ho detto di
si???”. Questo è stato il pensiero ricorrente, divenuto nel corso del 2014 sempre
più insistente, che mi ha accompagnato fino al week-end dell’Arge Alp. Giusto
per fare un paragone… la diretta da Trento della sprint-relay ai Mondiali mi
preoccupava di meno!
Anche perché non è che andavo ad usare una lingua
straniera a me ignota in presenza di orientisti cialtroni sui quali far valere
la mia superiorità atletica e tecnica. “Arge Alp” significa Canton Ticino (dove
si parla italiano, ma tutti quanti o quasi parlano anche il tedesco e sono
assai più precisi di noi), significa Graubunden ovvero Grigioni, significa
Sankt Gallen e Tyrol, significa pure Vorarlberg che è una parola terrificante con
una sequenza di tre lettere R-L-B che non esiste in nessuna lingua latina e
dovrebbe essere vietata dalla Convenzione di Ginevra; infine significa Baviera,
che mi mette meno paura e che scrivo in italiano, tanto gli unici con cui avrei
parlato sono Valerio e Milena Casanova (e me la potevo cavare con un “belìn
belàndi” di Larrycettiana memoria) e poi Teodor Yordanov con il quale parlo in
inglese.
In ultima analisi c’erano tutte le premesse per un
disastro di dimensioni epocali, con sicure inevitabili conseguenze sul piano
dei rapporti internazionali, esclusione della penisola a forma di stivale dalle
future competizioni, vergogna e pubblico ludibrio. Da un punto di vista
prettamente sportivo, ci sarebbe stato anche da spiegare a tutto questo po’ po’
di gente perché una persona sana di mente (penso che sarei stato definito tale solo
fino all’”Herzlich wilkommen” che rappresentava tutto ciò che mi ero preparato
da dire) dovrebbe scapicollarsi nel bosco all’alba per affrontare i tracciati
dell’Arge Alp, arrivare al traguardo in condizioni miserande e mettersi
successivamente a cianciare in un idioma sconosciuto. Perché questa cosa poi
gliela spiegate voi a Donatus Schnyder, a Simon Seger, a Mario Ammann e Dieter
Wolf… (e già che ci siete, spiegate anche a Dario PeTrotti chi sono costoro).
Se ad un certo punto, giunto sul pratone al cospetto del
Santuario di Pietraba, ho smesso di preoccuparmi del mio tedesco, è stato solo
per un altro motivo ancora più impellente; prima di affrontare il microfono,
avrei dovuto affrontare una cosa assai più impegnativa, l’H40. Herren Fierzig. H40
all’Arge Alp, dove non si scherza per un cacchio, sui tracciati di Thomas
sempre-lui Widmann, correndo all’alba da solo nel bosco di Pietralba! Non è che
io fossi proprio spaventato… In fondo, mi dico sempre, ho solo un’età quasi
buona più per la H50 (Herren Funfzig) che per la H40. In fondo non mi alleno da
alcuni anni, quindi che differenza fa se ho saltato le ultime 25 sessioni di
rifinitura. In fondo il mio fisico è solo quei 20 chili sovrappeso, sono solo molto
stanco ed ho una caviglia (la destra) che sta attaccata al piede per via
dell’involucro di pelle cresciutoci intorno. E fosse solo questo…
Ma se la carne è debole, lo spirito è forte e mi ripete che sono
lo speaker trilingue, ‘azzarola! Per colpa dello spirito, accidenti a lui, mi
tocca partire all’alba quando tutti gli altri sono ancora a letto, quando il
bosco è buio come il culo del tasso, quando non c’è nessuno che può darmi una
mano entrando o uscendo da un punto o che mi può accompagnare per una tratta
(come se ci fossero orientisti in H40 che vanno piano tanto quanto me). So
benissimo che prima o poi non ce la farò più ad affrontare i miei percorsi
all’alba, o più probabilmente saranno gli organizzatori che non sopporteranno
più il sottoscritto che parte all’alba circondato dai posatori.
Se lo faccio, è tutta colpa di Thomas Widmann! Così anche
questa volta, come a Laranza il 1° di maggio, sono partito per la mia Herren
Fierzig con tanti pensieri per la testa; l’ultimo segno di una presenza umana
attorno a me è proprio stata la voce di Thomas che, dopo avermi dato la carta
di gara, con un braccio indicava da qualche parte laggiù in fondo, lungo la
strada, e mi diceva “la svedese è lì dove c’è l’ultima curva che riesci a
vedere… troverai una collinetta… la poseremo più o meno lì…”. Il risultato
immediato è che i primi problemi li ho avut già a capire dove fosse ‘sta
svedese! Decido però che non posso stare sulla strada ad aspettare il minuto
zero delle partenze o che la lanterna mi venga incontro, entro nel bosco in un
punto X a casaccio ed immediatamente vengo avvolto dal culo del tasso: è talmente
buio che non vedo nemmeno dove metto i piedi!!!
L’unica cosa che percepisco è che per fortuna il bosco è un
po’ più morbido, anzi decisamente più morbido, di quello affrontato il giorno
prima durante la staffetta; il terreno è ricoperto dagli aghi di pino, l’acqua precipitata dal cielo a secchi la sera
prima non si sente nemmeno, ed il piede si appoggia dapprima con circospezione
e poi con sempre maggiore sicurezza. Solo che è buio pesto! Scendo nel bosco
cercando di valutare ad occhio le curve di livello che avevo sbirciato sulla
mappa quando ancora la vedevo lungo il sentiero, cerco di tenere la direzione,
ed improvvisamente (più per culo – del tasso - che per anima) inciampo
letteralmente in un sasso poco voluminoso che ha una lanterna di fianco: è il
mio punto! Più per culo che per anima, appunto… per il punto 2 risalgo sugli
avvallamenti mentre l’alba comincia a rischiarare il bosco. Prima ancora che
vederlo, è dal rumore di scicc sciacc che fanno i miei piedini nell’acqua che
mi accorgo che sto attraversando il torrentello davanti al punto; approccio la
zona con tatto (proprio nel senso di uno dei cinque sensi… la vista sta ancora aspettando
le prime luci dell’alba) ed anche il punto 2 è in saccoccia!
Per la 3 c’è solo da andare sul sentiero e sbattere sul
punto, la 4 è infrattata in una buca sotto un bellissimo albero di Natale ma la
trovo facile, la 5 sta appena al di là del torrente e in pratica non faccio
altro che stare sotto la linea magenta. Alla 6 incrocio Rudi Mair che sta
facendo il controllo del percorso, corro in salita sul sentiero per farmi
vedere agile e scattante come una lepre (si, una di quelle nella vetrina del
macellaio) e finalmente alla luce del giorno capisco che la mia gara è finita e
posso tornare al traguardo, dove mi aspetta il microfono e dove tutti i
germanofoni mi attendono con il forcone ed il cappio, memori delle performances
del giorno prima (e della sera delle premiazioni… terminata al grido di "Ich habe fertig!").
Non esiste infatti una sola possibilità che io possa
raggiungere la settima lanterna in un tempo appena decente da consentirmi di
tornare indietro in tempo. Anzi: direi che non esiste una sola possibilità che
io riesca a raggiungere la settima lanterna, punto! Ci sono, semplicemente,
troppe curve di livello e troppi avvallamenti e montagne per arrivare fin lassù;
demoralizzato e sconfitto, resto per qualche decina di secondi alla lanterna 6
per decidere il da farsi, finché la realtà delle cose mi appare chiara nella
mente come la luce del giorno che ormai illumina il terreno di gara: non esiste
un solo motivo valido per piantare lì quella gara, quel bosco, quel percorso!
Non ce n’è nemmeno uno!!! A ripensarci con il senno di poi, non riesco nemmeno
a capacitarmi del perché tutti i dubbi del mondo mi avevano assalito prima di
affrontare la “Rocco Siffredi leg” dell’Arge Alp…
Mi armo dunque di santa pazienza e comincio a scalare la
montagna. Unico tra tutti i partecipanti all’Arge Alp, mi lascio sulla sinistra
tutte le curve di livello incasinate e affronto di petto la scalata lungo la
linea di massima pendenza. La prima parte, per venire fuori dalla zona delle
paludi, è decisamente penosa; nella seconda parte, con le pendenze davvero a
picco, sono utili le unghie e le mani per procedere ad una andatura tipo “Apes
Revolution”, ma senza la tecnologia di Hollywood. Infine arriva la parte
goduriosa… su un sentierino stretto, proprio sulla cresta delle colline: è
ancora salita, ma il sentiero è battuto con gli aghi di pino, ci sono i segnali
del bianchi e rossi del CAI verniciati su alberi e rocce, alla mia destra ed
alla mia sinistra è un susseguirsi di piccole vallette, il profumo dei pini e
degli abeti è talmente intenso che mi sembra di essere immerso nel bagnoschiuma
Pino Silvestre… so che devo soffrire fino alla cima, ma quando ci arrivo e compare
davanti a me la NeuHutte, so di essere arrivato in Paradiso!
La NeuHutte a quota 1785, nell’angolo in basso a destra
della carta, è ancora immersa nel silenzio, le imposte alle finestre sono
chiuse, gli ombrelloni della birra Stiegl sono ripiegati ed il rumore dei miei
passi sul sentiero è l’unica cosa che rompe la quiete di quel posto magico. Un
soffuso gorgoglìo… quello della fontanella davanti all’ingresso della Hutte: mi
fermo a bere e approfitto per rinfrescarmi un po’ e riprendere le forze. Guardo
la carta di gara e sorrido: non dovrò più fare un solo metro di salita fino al
traguardo! Il lungo sentiero che mi porta alla 7 è uno spettacolo: sono proprio
sulla cresta della montagna, da un lato ho la valle con lo sfondo del Santuario
di Pietralba, e qualche piccola nuvoletta a mo’ di batuffolo di ovatta a
lambire le punte dei rami. Dall’altra godo di una una vista che arriva fino al
Latemar, vedo distintamente le punte degli abeti che cominciano ad arrossire
per l’autunno. E soprattutto ci sono solo io, quello spettacolo è tutto per me.
La strada forestale è sempre in leggera discesa e la
lanterna 7 mi viene quasi addosso, 8 e 9 diventano addirittura banali. Non ho
un solo pensiero negativo e, prima ancora di pensare che la 10 mi potrebbe dare
qualche grattacapo, vado dritto sotto la linea magenta e sbuco dritto sulla
madre di tutte le radure dell’universo, con la lanterna che è proprio lì che
aspetta me. Inizio il trasferimento alla 11 e mi sposto sul prato appena a sud
della 10, dove posso correre come Peter nei cartoni animati di Heidi.
Non faccio niente di eclatante, la parte finale è più facile
di altre affrontate in passato nei boschi dell’Alto Adige, ma non sbaglio
proprio niente e, dopo un finale “steeplechase” sul sentiero saltando uno dopo
l’altro in bello stile gli alberi caduti di traverso, posso persino sprintare
in salita verso il traguardo. Dove trovo il colpevole di tutto ciò: Thomas
Widmann, intento a collocare i sacchetti per il ritiro delle cartine.
I 100 MINUTI MEGLIO SPESI DI TUTTA LA STAGIONE
ORIENTISTICA 2014.
Ecco spiegato il motivo per il quale sono rimasto con il
sorriso stampato in viso fino alla fine della cronaca in triplice lingua. Non
ho avuto un solo cattivo pensiero per la figura che stavo facendo con il mio
“non-tedesco” e, in definitiva, non è che me ne sarebbe importato molto: l’Arge
Alp di Pietralba meritava di essere corsa, anche a velocità infinitesima
rispetto a quella di Simon Seger. E se il prezzo da pagare consisteva nel fare
la figura di Galeazzo Musolesi… beh… a me è andata benissimo così!
2 Comments:
certo che sti altoatesini c'hanno proprio tutto, persino gli abeti che diventano rossi in autunno, no come noi terroni che gli abeti li abbiamo sempreverdi...
certo che sti trentini sono proprio precisini... io sto alla botanica come Stegal sta a SteMadda :-)
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