Stegal67 Blog

Friday, August 30, 2019

Estate 2019: secondo tentativo di autodistruzione...


La puntata estiva con il secondo tentativo di autodistruzione avrebbe dovuto uscire su questo blog molto prima rispetto ad oggi. Purtroppo non potevo immaginare che le settimane coincise con la 5 giorni d’Italia e la Dolomiti 3 (+2) Days sarebbero risultate, a conti fatti ma non ancora del tutto conclusi, le meno faticose e snervanti di questa afosissima estate. Conduco a tutti gli effetti da qualche settimana una vita da autentico nomade, con il bagagliaio dell’auto (che ad un certo momento ne ha avuto piene le scatole pure lei) zeppo di vestiti buoni per tutte le stagioni, materiale dell’ufficio itinerante tra varie filiali del nord Italia, scarpe da orienteering che vagano qua e là insieme a pezzi di tuta e magliette termiche… sono ormai diventato uno dei sostenitori più efficaci dei bilanci delle aziende petrolifere e delle autostrade italiane, e sulla tratta Carpenedolo – Peschiera – Rovereto – Coredo conosco a memoria l’ubicazione di tutte e lavanderie a gettone, benzinai, autoofficine perché non si sa mai e paninoteche dove mangiare qualcosa al volo perché è già tardi.

L’ultimo passo di corsa l’ho mosso con l’ultimo arrivo al traguardo di Val Canali a metà luglio, e tutto l’orienteering che ho fatto è rappresentato dalla visione in streaming dei mondiali dispitati in Norvegia attorno a Ferragosto. Come farò a presentarmi al via delle prossime gare lo sa solo il mio angelo custode, ma giusto per chiudere il racconto delle gare di luglio mi prendo qualche minuto per mettere su tastiera come è andata alla Dolomiti 3(+2) Days in Primiero.

Come è andata? Con un altro tentativo di autodistruzione, peraltro quasi portato a termine. Sono venuto via dal Cadore in un venerdì di inizio luglio, affrontando la strada per Passo Monte Croce Carnico (“perché non facciamo una gara lì…? Oppure lì…? Oppure ancora lì…?”) e poi la discesa verso San Candido – Innichen. Non me ne vogliano i miei amici dell’Haunold Team, ma quando hai la fortuna di nascere e crescere in un posto come Innichen, dove non c’è un filo di erba fuori posto ed il panorama tutto attorno è tra i più belli che ci possono essere, forse non si riesce ad immaginare che il mondo non è fatto tutto come quell’angolo di paradiso… Statale della Val Pusteria, autostrada del Brennero verso sud ed eccomi di nuovo di passaggio a Coredo a vedere come sta la mamma e a leccarmi le ferite della 5 giorni.

Domenica sono di nuovo in viaggio verso il Primiero, dove mi attendono le gare della competizione biennale inventata dai maghi dell’US Primiero e destinata spero a diventare una classicissima delle estati degli atleti scandinavi. Per l’occasione mi sono iscritto ad una categoria più consona alla mia vetusta età: M45. Anche perché sapevo già che le due long distance valide come prima e seconda tappa (m terzo e quarto giorno di gare) sarebbero state due mazzate nei denti da paura. L’altra cosa che sapevo di queste due tappe è che non avrei mai potuto farle all’alba (comunque troppo lunghe per arrivare al traguardo in tempo per iniziare la cronaca) e nemmeno anticiparle di una o due giorni perché il terreno di gara sarebbe stato raggiungibile solo in seggiovia – aperta solo nei giorni di gara – o con un trasferimento a piedi di 50 minuti a salire e 50 a scendere per arrivare all’auto.

Quindi niente gare anticipate, come feci due anni fa, e niente Elite all’alba. Per questa volta, una bella M45 più abbordabile! Dopo la visita doverosa al santuario di Fiera di Primiero – leggi “la sede dell’US Primiero” – si comincia martedì nello stesso posto dove era finita a 5 giorni di due anni fa, al Prà delle Nasse di San Martino di Castrozza. Lo scenario che ci si dovrebbe presentare è quello del prato, con lo sfondo del temibile costone di abeti sul quale si era sviluppata la long leg dell’ultima tappa del 2017. Purtroppo, dopo il passaggio della tempesta Vaia, di quell’anfiteatro naturale è rimasto solo il prato… il costone di abeti non esiste più, o meglio esiste solo la ripida salita con la vista della nuda terra dalla quale sbucano i mozziconi degli alberi rimasti vittime della tempesta. Uno scenario surreale e quali apocalittico da piangere.
Dopo aver scalato la montagna per arrivare alla partenza della prima tappa, mi accingo a gettarmi all’inseguimento di Marco che parte qualche minuto prima di me. Arrivare a prenderlo è impossibile, perché Marco è semplicemente troppo allenato e troppo tecnico per me, ma vorrei almeno arrivargli vicino in classifica. Fu così che parto alla garibaldina in discesa, perché comunque non è mai detta l’ultima parola, ed arrivo abbastanza bene al primo punto di controllo che è un classico esempio del normotipo “se lo manco, poi devo scalare la montagna di nuovo per recuperarlo”.


I punti 2 e 3 vanno via abbastanza bene, ma sulla lunga strada verso il punto 4 commetto il peccato di superbia di cercare di correre dietro a Maurizio Castellaz (imprendibile) e mi ritrovo a boccheggiare già a metà strada. Senza stare a tediare con tutti i punti successivi, vado subito al sodo: attraversamento del prato vicino all’arrivo, per andare nel rock paradise a sud della strada. Sapevo di non poter battere Marco, ma non sono proprio contento di accorgermi, dal suo incitamento a squarciagola, che lui è già al traguardo (e chissà da quanto tempo, penso io) mentre io devo ancora fare l’ultimo loop…


Il punto 12 va via liscio, così come il punto 13 anche se le curve di livello adesso urlano addosso alle gambe. Cerco di trovare un punto di attacco per il punto 14 ed è lì che succede il patatrac: mentre controllo la cartina non mi accorgo di un sasso nascosto nell’erba alta. Ci vado a sbattere di punta, con tutta la velocità (poca) ed il peso (abbondantissimo) che posso scaricare in un urto tra la rotula ed il sasso. Il sasso non so come se la cava, ma la rotula esplode e con essa tutta la gamba. Finisco per rotolare in mezzo alle ramaglie ad un paio di metri mentre mi tengo il ginocchio con le mani. Il pensiero che ci sia qualcosa di rotto è più di un sospetto, e che le mie gare siano finite viene di conseguenza. Per un paio di minuti il mondo è soltanto il dolore al ginocchio, i cattivi pensieri e la sensazione che da quelle ramaglie posso uscire solo se qualcuno mi tira fuori di peso…

Il primo toro scandinavo che passa da lì forse fa finta di non sentire i miei richiami, o forse non mi sente proprio. Il secondo che passa è il mitico Tiziano Bettega ed i soccorsi vanno già meglio. Dopo essermi rimesso in piedi, lo invito a continuare la sua gara e gli chiedo di avvisare qualcuno al traguardo affinché metta man alle scorte di ghiaccio. Zoppicando e con pochissima concentrazione, cerco di arrivare al punto 14: la maggior parte dei miei pensieri dice che la 3(+2) giorni è già finita, un’altra cospicua percentuale dice che dovrei limitare al minimo indispensabile i passi dirigendomi subito al traguardo, una minoranza rumorosa dice che invece farei meglio a finire la gara perché non si sa mai. Vince la minoranza, a scapito degli sguardi atterriti di una famigliola posizionata a bordo laghetto che vede scendere dal pendio una specie di reduce della ritirata di Russia e a scapito dei sorpassi che patirò nella lunghissima (per me che zoppico) tratta su strada che porta agli ultimi due punti e poi al traguardo.

Qui vengo effettivamente accolto dal personale medico che Tiziano aveva allertato e, con abbondante ghiaccio, mi aiutano a tenere insieme il ginocchio che ha già assunto la dimensione di un melone. Per la prima volta (così mi pare di ricordare) nella mia poco luminosa carriera devo chiedere a qualcuno di venire al ritrovo a prendermi in auto, dopodiché passerò il pomeriggio alternando sul ginocchio altre compresse di ghiaccio e una serie infinita di buste di surgelati che diventano per forza di cose il menu della cena della sera (i surgelati, non le buste di ghiaccio).

Dopo una notte quasi insonne per il male, il giorno successivo si va in Val Venegia per la seconda gara. Il ginocchio tiene molto poco e la ferita non accenna a rimarginarsi bene. Il che non è il modo migliore per affrontare il percorso su una delle carte più belle che esistono.


In effetti la mia andatura è già zoppicante lungo il sentiero che porta al ritrovo di Malga Venegia, e lo diventa ancora di più quando devo mettere i piedi fuori dai sentieri sul terreno sconnesso ed insidioso delle malghe. Al momento della partenza, mi scanso per evitare di essere travolto dai concorrenti che partono al mio stesso minuto, ma mi accorgo già andando al primo punto che, nonostante il dolore, il ginocchio è più saldo di quel che temevo; il morale migliora, la stabilità aumenta ed il tracciato di Erik Nicolao e Nicolò Orler fa il resto: va bene che Val Venegia è uno di quei posti dove puoi mettere le lanterne ovunque, ma il percorso ed i rimbalzi nella zona a nord del fiume sono davvero azzeccati. Mi ruga tantissimo aver perso tempo alla lanterna 6, che poi scoprirò essersi rivelata ostica per parecchi concorrenti, perché pur andando piano ho la sensazione di essere sempre in carta e sempre a contatto con i dettagli del rilievo in mappa. Al traguardo, sempre zoppicante, vedo qualcuno dei soccorritori del giorno prima che si chiede come diavolo faccio ad essere in piedi e soprattutto ad essere in gara… potenza di Val Venegia, rispondo io.

Dopodiché si finisce di scherzare, perché le due tappe successive sono previste alla quota oltre 2000 metri di Passo Valles. E sono cavoli amarissimi! Che si sarebbe trattata di una “prima assoluta” da ricordare me lo ha raccontato in tutte le salse Franco Orler che, puntualissimo sulla sua auto alle 6.10 del mattino di San Martino di Castrozza, mi ha scarrozzato fino al ritrovo. Lo scenario cui mi trovo di fronte mentre mi cambio è lunare:




La temperatura è di pochi gradi sopra lo zero. Io dispongo di due maglie termiche ed un pantalone parimenti termico. Pensavo di tenere una maglia ed il pantalone per le ore che avrei passato dietro al microfono, ma con una temperatura di 3 gradi ed il vento gelato che spira ovunque mi trovo costretto a vestirmi a cipolla… e quando verrà il momento della cronaca ci penseremo! Il sole sale un po’ e mi consente di riprendere queste foto della zona di partenza:




(le nuvole stanno sotto di noi!)

Il terreno di Passo Valles non saprei descriverlo in altro modo se non “lunare”: alberelli ce ne sono pochissimi e sparsi qua e là, rocce e movimenti del terreno ce ne sono quanti sono i centesimi nel deposito di Zio Paperone, e se soltanto si commette l’errore di perdere il contatto con il terreno, la rovina è immediata. Per qualche motivo mi convinco che la partenza è abbastanza facile: basta andare al punto dove il sentiero fa la curva, scendere in bussola ed arrivare al punto.

Facile, no?

Grande capo Eestiqaatsi dice “Anche no!”.

Otto minuti e trenta secondi per venire a capo di un punto che è “lì dietro”. Si, ma “lì dietro” a cosa? Ci sarò passato a 5 metri? A 10 metri? Boh… Eppure è l’unico avvallamento in direzione est-ovest! Niente: otto minuti e trenta secondi che praticamente mi fanno da warm up, e che mi fanno capire che da lì in poi l’angolo della bussola sarà piazzato ben saldo sulla mappa sopra al punto in cui mi trovo. Peraltro questa cosa del “punto numero 1 problematico” la racconteranno parecchi altri concorrenti, anche tra i fortissimi: c’è gente che si ha lasciato il quarto d’ora sul primo punto: “Benvenuti a Passo Valles!” sembrava che ci fosse scritto…

Dal terzo punto in poi la tecnica di gara diventa quella che mi ha spiegato Pierpaolo Corona durante la mia visita alla sede dell’US Primiero. Prima cosa: si guarda nella direzione indicata dalla linea magenta. Seconda cosa: si identificano tutte le macroforme del terreno, soprattutto le colline ed i roccioni, che praticamente tracciano la strada per il punto successivo. Terza cosa: ci si mette di buzzo buono e si va in direzione di queste macroforme identificate da lontano. Poi quando si arriva in zona punto, si fa orientamento fine. Et les jeux sont faites...

La terza cosa, quella sera alla sede dell’US Primiero, mi era sembrata una cagata pazzesca. Mentre PierPaolo mi descriveva cosa avrei dovuto fare, a secco e su una mappa senza percorso, la mia testa diceva “si, ok” ed il mio cervello alternava pensieri del tipo “ma non ce la farò nemmeno dipinto sul muro…” oppure “si, certo, queste cose le sai fare tu che sei stato nelle Fiamme Gialle!”. Però come fai a dire “no” a PierPaolo? Quindi succede che dopo aver trovato il punto 3 dieci metri alla mia sinistra (good choice, Stegal!), arrivo fino alla prima curva della pista da sci, mando un pensiero non del tutto gentile a PierPaolo, guardo dritto davanti a me e comincio a vedere: il laghetto con la collina ad est cui devo passare dritto in mezzo, la collinetta posta subito dopo, il sentiero, la roccia a forma di baffo che devo tenere a sinistra, la collina con la roccia a forma di “U” cui devo passare in mezzo… e il punto non può che essere lì a pochi metri!!!!
Come diceva Watson a Sherlock in non so quale libro “ma è di una banalità sconvolgente!”. Grazie PierPaolo! Grazie e ancora grazie! Praticamente metto via la carta e comincio la seconda parte di gara con uno spirito sicuramente più sollevato. Ora… proprio banale non sarà mai, d’altra parte devo sempre venire a patti con il mio ginocchio, ma chi l’avrebbe mai detto che mi sarei trovato a mio agio in tratte come la 7-8-9-10 ? Il diavolo era davvero molto più mansueto di come me lo ero figurato la domenica sera precedente, e così in poco meno di due ore sono riuscito a venire a capo del percorso e presentarmi stanco ma soddisfatto al traguardo.

Succede così che, per una volta, mi presento al via il giorno successivo con un po’ di fiducia: in fondo tutta quanta la prima tappa a Passo Valles era stato un lungo warm up di cui avrei fatto tesoro il giorno successivo. Lasciamo perdere il punto 1, di cui avevo trovato il paletto il giorno prima mentre peregrinavo senza meta e senza testa, ed il punto 2 per il quale basta scendere (ahi che male il ginocchio!) stando a sud del roccione. Purtroppo il punto 3 mi sembra più lontano delle Colonne d’Ercole, e la migliore strategia che mi viene in mente consiste nel salire mille curve di livello, ripassare dalla partenza e poi scendere lungo la traccia… se 24 minuti vi sembrano pochi!

Sarà la quarta tappa, sarà il ginocchio, sarà ‘altitudine ed il freddo, sarà quel che sarà… ma dopo aver ingollato il carbogel e fatto una foto…

… entro in modalità “survivor” e cerco di trascinarmi lungo il percorso fino al traguardo. Sbagliando nell’ordine: la 4 (il roccione non era sbagliabile, ma non mi sono accorto che la lanterna stava sul lato ovest), la 5 (sono finito alla curva del ruscello… ma quella fuori dal cerchio magenta, a sud ovest!), la 6 (e si che bastava stare tra i due ruscelli!), la 7 (che ho trovato solo quando mi sono girato a guardare dietro di me), la 8 (eppure c’era la trincea…). Per arrivare alla 9 sono passato in zona arrivo, poi ho percorso tuuuuuuto il sentiero che porta verso la 10 e, all’incrocio con i fili dell’alta tensione, mi sono buttato a destra in bussola.

Cercando di seguire Anna Pradel che stava facendo l’apripista sul percorso W18.  Non riuscendo a seguirla. Perdendomi inesorabilmente a 10 metri dal punto. Mentre sono lì che brancolo nel vuoto, ogni tanto mando una occhiata a sinistra e vedo che lontanissimo sul costone della zona del ritrovo ci sono alcuni puntini (leggi: persone) che si stagliano sull’orizzonte. Mi viene in mente che uno di quei puntini potrebbe essere Marco che mi segue con il binocolo, che commenta ogni mia malefatta (soprattutto i lunghi periodi nei quali sono fermo e mi guardo intorno a 360° pensando “eppure dovrebbe essere qui!”) pronto a farmi a pezzi quando sarò al traguardo. Alla 9 perdo parecchi minuti, e quando la trovo mi verrebbe proprio voglia di prendere a calci il paletto… Il pensiero di Marco con il binocolo però è salvifico, perché da lì in poi rimetto insieme il mio senso dell’orientamento e, seppure con la lentezza di un bradipo, riesco a venire a capo bene delle ultime lanterne fino al traguardo.

Negli ultimi metri trovo ancora la forza di combattere, perché vorrei finire la gara in un tempo inferiore a quella del giorno prima, e ci riesco seppur per soli 9 secondi: una magra consolazione per una prestazione francamente dimenticabile. Poi scoprirò che Marco non mi stava osservando con il binocolo, che NESSUNO mi stava osservando (perché se loro erano un puntino sulla linea dell’orizzonte per me, io ero un puntino nel nulla cosmico per loro…) e che mi ero fatto un pippone da solo.

Per l’ultima tappa si va su un terreno più tradizionale: Val Canali. Partenza dal pratone che aveva ospitato lo start della staffetta mondiale del 2009, percorso strutturato in modo molto simile a quello della Due giorni del Primiero del settembre 2018, e punti posati in alcuni casi sullo stesso oggetto (punto 12) o sul masso\avvallamento\cocuzzolo a fianco. Va da sé che mi piacerebbe fare una bella gara su un terreno che conosco, laddove “bella gara” vuol dire “stare sotto l’ora”, ma non ci riesco e non posso nemmeno dare la colpa solo alla fatica (siamo ormai alla decima gara) o al ginocchio. Perdo qualche secondo qua e là e, soprattutto, dopo il punto 17 non ne ho davvero più: finisco in 68 minuti, staccato di 20 da Fabio Hueller, ma considerato il fatto che si tratta di un terreno che conosco non posso proprio dire di aver fatto una bella gara.

Poi arriva l’ultimo commento, le premiazioni, i saluti. Il sole rimane alto nel cielo come merita l’US Primiero e con enorme rammarico arriva il momento i riprendere la strada di casa, un momento triste che anche questa volta cerco di annacquare con un ennesimo passaggio da Coredo. Senza ancora sapere che gli accadimenti dell’estate mi avrebbero portato a Coredo molto più spesso di quanto io stesso avrei voluto…

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