SOW – Every day is not the hardest day…
(che sia chiaro per tutti: “SOW” non
significa una brutta parola inglese per indicare una ragazza non
particolarmente attraente; sta per “Swiss Orienteering Week”… chissà se gli
svizzeri sono consapevoli di questa strana associazione)
Sono passati
19 anni dalla mia prima, ed ultima, partecipazione alla 6 giorni di Svizzera. Dal
1997 ad oggi sono trascorsi 19 anni durante i quali il mio sport è cambiato
profondamente! Una volta usavamo ancora il cartellino cartaceo (che
puntualmente, in quella fredda e bagnata estate del ’97, persi durante la sesta
ed ultima gara a caccia…), le carte di gara erano precise ma anche abbastanza
generalizzate senza tutto il diluvio di dettagli che possono essere proposti
oggi; le divise di gara erano molto più spartane, una accozzaglia di colori
messi assieme al solo scopo di sembrare variopinti… tanto “Orienteering is not a fashion
event!” recitava qualcuno; a giudicare dagli abbinamenti cromatici e
dalla aerodinamicità, anche in questo campo l’orienteering ha fatto passi da
gigante: oggi il 99% degli atleti gareggia con i pantaloni attillati sui
polpacci e niente affatto svolazzanti (come invece continuo a fare io) per far
vedere muscoli ben torniti e forme aggraziate (ed io non ho né gli uni né le
altre da mostrare, quindi mi tengo i miei bragoni belli larghi). Nell’estate
1997 il viaggio verso Thun, e poi verso Friburgo, aveva avuto come massima base
informativa il mio atlante del Touring Club Italiano stampato nell’anno del
terremoto in Friuli…
(ed esiste ancora!)
… ed i
risultati si videro purtroppo immediatamente, ancora prima di passare il
confine; ora nell’anno di grazia 2016 ci affidiamo alle coordinate ed a Google
Maps per raggiungere i ritrovi, anche se non è affatto detto che la cosa
funzioni meglio. Quel bel tipo di Kornell Ulrich, che nel 1997 vinse in HElite
la 6 giorni di Svizzera, l’ho ritrovato in cima alle classifiche anche nel
2016: ovviamente in un’altra categoria (la H50), ma continua a vincere come se
per lui gli anni non fossero passati. Un altro per il quale gli anni non
passano mai è il vecchio lupo Dieter Wolf, che continua imperterrito a correre
(si… a correre!) in HElite anche se ormai gli anni dovrebbero essere ben
superiori ai 60, che continua ad arrivare al traguardo come se niente fosse;
così ogni volta che, seguendo il live di un campionato mondiale di orienteering
a staffetta, vedo la Nuova Zelanda che naviga sempre nel gruppo di testa mi chiedo
se anche in questo caso non ci sia lo zampino del vecchio lupo.
Cambia tutto
per non cambiare nulla. Alla fine a conti fatti io stesso in questi ultimi 19
anni sarò invecchiato di qualche mese. Quello che di sicuro in 19 anni non è
cambiato è la predilezione, per le organizzazione elvetiche, ed il gusto per utilizzare
le soluzioni logistiche più complicate e che dalle nostre parti (se dessero
origine a disguidi) darebbero lo spunto a tanti e tali casini da far parlare e
polemizzare gli orientisti nostrani per decenni, scatenando ostracismi e litigi
verso questo o quel territorio… Intendiamoci: i rossocrociati sono benissimo in
grado di organizzare le loro gare come vogliono senza ascoltare i miei suggerimenti;
se continuano a fare numeri come i 4000 iscritti della seconda multi-days
consecutiva di metà luglio (perché la prima è stata quella in corrispondenza
con i Mondiali Juniores disputati la settimana prima, sempre in Engadina), se
continuano ad avere un seguito sempre maggiore di praticanti di tutte le età, e
se il loro livello di punta continua a sfornare atleti in gradi di vincere 7
medaglie d’oro su 8 ai suddetti Mondiali, allora è possibile che le cose debbano
proprio essere fatte come dicono loro. Alle mie latitudini, alcune variazioni
sul tema dell’organizzazione logistica cadono sotto la voce “mettere il culo
sulla pedata”, ma finché funziona…
La mia Swiss
O Week nasce all’improvviso in un fine settimana di maggio, senza grandi
prospettive, quando i compagni di squadra del GK si pronunciano “si va in Engadina!”. In fondo sono solo
3 ore di macchina (se va male) da Milano e senza dover dipendere dai bollini
autostradali. L’Engadina è quella valle che attraversiamo tornando da
Langenfeld, ed ogni volta che l’abbiamo fatto i nostri nasi si sono incollati
ai vetri dell’auto prima di un diluvio di “chissà
come sarebbe bello correre qui… e qui… e poi ancora lì…”. Così questa volta
il GOK prende la balla al balzo, getta il cuore oltre l’ostacolo, getta il
portafoglio ed i costi approssimativi oltre la decenza (4,5 euro per un chilo
di pasta Barilla alla Coop???) ed è già l’ultimo giorno utile per le iscrizioni
ed occorre scegliere la categoria da affrontare. E’ vacanza, è Svizzera, 6
giorni sono impegnativi. I filmati che Paolo Consoli ci ha fatto vedere nel
corso degli anni, quelli relativi alle edizioni precedenti, parlano di gare
tracciate senza risparmio di fatica per nessuno, su terreni infami e scoscesi a
cui non sono tanto abituato. Vacanza + Svizzera + 6 giorni di gare mi fanno dunque
propendere per una prudenziale H45K, la versione corta della categoria over-45.
Corta ma orientisticamente tecnica, così penso… e in fondo in H45K si è
iscritto anche il mio buon amico Espen Nilsen (Stavanger OK) che incrocerò dopo
tanti anni!
Domenica 17
luglio si comincia a S-Chanf, che sarebbe anche il posto più lontano rispetto
alla nostra cuccia di Maloggia. La prima cosa da fare quando si va ad una gara
in Svizzera è capire come si arriva al ritrovo, e quali sono i tempi per poi
arrivare alla partenza: non è raro trovare quelle descrizioni, che per noi sono
agghiaccianti, del tipo “parcheggi a 20 minuti dal ritrovo, poi per arrivare in
partenza ci sono 20 minuti di furgone e poi 30 minuti a piedi…” e alla fine
magari l’arrivo è nel bosco a 30 minuti da dove hai lasciato (al ritrovo) i
vestiti. Ma si vede che si diventa forti anche così. A proposito… nel parterre
della gara girava un volantino di una due giorni in Svizzera nel quale
l’informazione alla voce “come arrivare” faceva
esplicito riferimento all’autostop! E basta. Come dicevo sopra:
agghiacciante.
Così la
prima cosa che studiamo PLab, Bibi ed io è come si arriva al ritrovo. E
leggiamo che ci sono tre parcheggi: il primo (con le sue belle coordinate) si
trova nei pressi del ritrovo; l’organizzazione scrive che quando il primo è
pieno, si comincia a riempire il secondo che sta a 10 minuti di navetta. Se
occorre, c’è un terzo parcheggio a 30 minuti di navetta… Poiché già di mio lavoro all’Ufficio Complicazioni Affari
Semplici (e poi sono pessimista, polemico e negativo per natura) mi chiedo,
e ci chiediamo: “E se ad un certo momento
scoprono che il parcheggio è pieno e ci dicono di tornare indietro… come ci
organizziamo con i tempi e gli spostamenti?”. Poiché non abbiamo una soluzione
chiara (e forse siamo tutti pessimisti) decidiamo di partire all’alba per
essere sicuri di guadagnarci un posto nel parcheggio comodo. Evidentemente la
mia laurea in fisica non basta per capire le indicazioni elvetiche, perché al
parcheggio ci arriviamo, eh?, ma non senza prima essere entrati con la macchina
sul campo gara (ed essere passati ad un centimetro dalla lanterna con codice
90, ed esserci fermati solo quando abbiamo visto le fettucce del corridoio di
arrivo…) perché la strada che indica Google Maps con le coordinate non è quella che gli organizzatori ci vogliono
far fare per arrivare al parcheggio (diciamo che questo però non è colpa
loro!).
Alla fine di
tutta questa storia con i parcheggi, la mia gara è questa:
Comincio a capire
almeno un paio di cose. Uno: la mia categoria, oltre ad essere corta, è a
tratti anche molto facile (da metà in poi siamo a livello di tapasciata
podistica…). Due: ma è così che appaiono i boschi dopo il passaggio di così
tante persone???
Si vede bene
la traccia – e non è un sentiero! – che porta al primo punto? Sarà che per
motivi di speakeraggio non sono abituato ad avere né affollamento nel bosco, né
gente che mi chiede quasi ad ogni lanterna dove siamo, né tracce da seguire… ma
così è proprio uno sport diverso!
(primo punto
della prima tappa. A sinistra a fondovalle la zona di arrivo – immagine fornita
dalla headcam sulla mia testa…)
Dal momento
che l’approccio con i parcheggi della prima tappa non è stato così positivo,
decidiamo di studiare meglio come arrivare alla seconda tappa che si svolge a
God da Staz, una carta sulla collina che separa S. Moritz Bad (ed il suo
bellissimo lago) da Celerina. Siamo in
piena zona glamour, fashion e modaiola di S.Moritz, quindi dobbiamo cercare
di comportarci bene! Le indicazioni dicono che, a parte i soliti pullman
navetta (che, mi dicono i meglio informati, per la prima tappa erano
sovraffollati oltre ogni limite di decenza), chi arriva in macchina da Maloggia
può trovare posti auto – ma pochi! – ad una delle funivie di S. Moritz e poi
farsi 3 o 4 chilometri a piedi per arrivare in zona ritrovo. In alternativa
bisogna andare oltre S.Moritz, a Celerina, e “scollinare” a piedi per arrivare
al ritrovo. Optiamo per la prima soluzione e ci alziamo di nuovo all’alba per essere
certi di conquistare, riuscendoci, uno dei pochi posti auto a disposizione.
Dopodiché ci mettiamo gli zaini in spalla e cominciamo a camminare.
La strada
per arrivare al ritrovo, almeno a giudicare dal francobollo di cartina mostrato
nelle istruzioni, sembra quella sempre diritta
che parte dal centro gare e costeggia il lago; in una gara con 4.000 persone
non si fa fatica a distinguere la fila degli orientisti che procede verso la
zona gara: davanti a tutti, ovviamente, due ragazzi con i colori del Kalevan
Rasti (ripeto: ovviamente!), poi le tute verdi gialle e nere dell’NTNUI
norvegese, poi ci siamo noi, più dietro il gruppo del Lokomotiva Plzen e poi arrivano
degli austriaci. Procediamo diritti attraversando tutta S.Moritz Bad finché le
case finiscono e ci troviamo davanti il
bosco: finora di “balise” o di
fettucce non ne abbiamo trovato nemmeno una e ci fermiamo a pensare che Claudio
Valer e la sua collaudata truppa di balisatori
farebbe faville da queste parti. Seppur in assenza di qualunque altra
segnalazione, i ragazzi del Kalevan Rasti si infilano dritti nel bosco e, visto
che da almeno 12 anni c’è un pennellone alto e con il pizzetto ed i colori del
Kalevan Rasti che insegna orienteering a tutto il globo, tutti andiamo dietro a
loro! Il lago rimane in basso a sinistra, la direzione è quella giusta che
punta verso la voce dello speaker… e presto cominciano a comparire le prime lanterne:
siamo di nuovo finiti dritti dritti in mezzo al campo gara! In particolare,
nella zona di bosco che vedrà impegnati i percorsi dei più giovani e dei
supermaster…
Dopo tutto questo, la gara è questa qua…
… e anche questa
volta è consentito a chi commenta dal divano dire che non è proprio una
gara tecnicamente “demanding”, anzi!
Mi tocca ammettere che Paolo Consoli, che mi fa vedere la sua gara con partenza
da Celerina, si deve essere divertito molto di più; l’unica difficoltà della
mia gara, per arrivare al primo punto, è avanzare nella erica spessa e
lussureggiante presente in quella parte di bosco :-( … e poi ci sono sempre le
solite tracce!)
Dopodiché ci
mettiamo gli zaini in spalla e ricominciamo a macinare i chilometri che ci
separano dal parcheggio... Dopo due tappe che definire “blande” è dire poco, possiamo concentrarci sulla terza tappa che,
invece, minaccia di essere decisamente oltre la mia portata. Si sale infatti in
quota oltre i 2.000 metri di Diavolezza, lungo la strada che porta al Passo
Bernina, per la classica gara sul terreo aperto e brullo che si sviluppa oltre
la linea degli ultimi alberi. Aperto, brullo e molto, ma molto, ma molto
pietroso…
Per i
parcheggi non c’è problema, in quanto abbiamo a disposizione tutta l’area a
valle della funivia di Diavolezza. Per la gara invece di problemi ce ne sono
eccome!
Innanzitutto
l’altitudine, che mi toglie qualsiasi velleità di provare qualche passo di
corsa già al primo punto di controllo; poi il fondo davvero insidioso del
terreno, che per tutta la prima parte di gara (ma anche nella seconda) prevede
una abbuffata di pietre, pietre ed ancora pietre. Io sono capace di fare una
sola cosa alla volta: o mi oriento, o cerco di salvare la pelle! A Diavolezza,
il mio cervello resta focalizzato sulla seconda opzione. Durante la gara colgo un
paio di situazioni che coinvolgono un ragazzo dell’ASCO Lugano ed una signora
dell’O92 Magadino nelle quali all’urlo di dolore fa seguito l’immagine
dell’atleta che rimane a terra sulle
pietre, ma in entrambi i casi vedo la scena piuttosto da lontano e la cosa
buona è che in entrambi i casi i malcapitati vengono subito soccorsi dagli
atleti che si trovano nelle immediate vicinanze. Giusto per dare una idea,
nella over-45 dove gareggiano i vari Eidsmo, Ivarsson, Janne Salmi e compagnia
cantante (tutta gente che vinceva le medaglie mondiali quando i mondiali erano
ogni due anni e c’erano solo due gare…), a Diavolezza vince Stefano Maddalena!
Lo dico perché così i pochi lettori che sono arrivati fin qui si possono
rendere conto del fatto che quando lo speaker dice che “Maddalena è il più forte orientista che abbia mai corso dalle nostre
parti” non fa solo un omaggio alla sua grandezza orientistica (e alle sue
doti di ballerino dei terreni impestati che più impestati non si può) ma non va
nemmeno troppo lontano dal vero.
Segue il
giorno di riposo, e per la quarta tappa corriamo in casa, proprio a Maloggia,
con arrivo nella zona della diga dell’Orden. Anzi: la nostra partenza corre
proprio lungo tutto il ballatoio della diga dell’Orden: molto suggestivo! Meno
suggestivo il fatto che, sorprendentemente visto che siamo in Svizzera e molto
sorprendentemente visto che siamo reduci dalle infami pietraie di Diavolezza,
alla partenza gli addetti ci ammoniscono in inglese “fate attenzione: ci sono molti più sassi oggi di quanti ne avete
trovati nella terza tappa”. Come può essere possibile?
E’
possibile. Infatti stavolta NON è consentito a nessuno dire dal divano “bastava fare così e cosà”… Il fondo del
terreno è costituito per lo più da sassi, che però sono nascosti da cespugli,
erica, rododentri, erba alta. Tra i sassi si
annidano buche e crepacci nei quali alcuni concorrenti letteralmente a
volta scompaiono e li si deve tirare fuori prendendoli da sotto le ascelle (io
lo faccio, intendo il tirare fuori una tizia da un buco tra le rocce). PLab
addirittura si avventura sul ponte tibetano (!) che conduce ad uno dei primi
punti… laddove io opterò per una scelta in costa su terreno infame e il ponte
tibetano lo vedrò solo nel filmino di PLab.
La mia gara
è, per una volta, decente. Mi piacciono i punti vicini tra loro e fino al sesto
punto faccio del mio meglio per stare almeno nel secondo gruppetto di atleti in
classifica. Poi per la tratta lunga mi si apre il dilemma: scendere lungo i
prati ed attaccare il punto da sotto? Andare in curva di livello incontro ad un
disastro di sassi e vegetazione fitta? O risalire mille curve di livello fino
al sentiero che mi consentirebbe di arrivare facile facile al punto? Non so
cosa abbiano fatto gli altri… io scelgo la terza opzione ma la risalita è
penosa e pietosa, da far venire il vomito per la fatica appena arrivo in cima,
e quando tocca a me finire lungo e disteso nella buca non c’è nessuno che mi
dia una mano a tirarmene fuori. Molti altri probabilmente fanno meglio di me tirando
dritto sulla curva di livello e sfruttando (forse) qualche traccia, con il
risultato che in questa sola tratta perdo qualche decina di posizioni in
classifica e mi faccio superare anche da Espen.
Dopo tutto
questo, il fatto di avere la gara vicino alla nostra cuccia ci risparmia
un’altra possibile apocalisse logistica (Maloggia era dichiarata come località
priva di parcheggi e quindi raggiungibile solo via navetta); abbiamo quindi il
tempo di preparare la vera Odissea della quinta tappa, che prevede la seconda
gara in quota a Corvatsch. Durante tutta la quarta tappa lo speaker ha esortato
gli atleti a non presentarsi alla partenza della funivia con un anticipo
superiore alle due ore rispetto al proprio orario di partenza; la procedura
prevede infatti di lasciare l’auto a Sils Maria (posto delizioso!), arrivare
alla funivia per Corvatsch, salire in quota, andare all’arrivo che dista una
ventina di minuti per lasciare qualche indumento, e poi salire per un’altra
mezz’ora verso la partenza. Insomma… se tutto va bene, è una figata! Ma se
qualcosa comincia ad andare storto, siamo
in piena area “culo sulla pedata”. Il nostro gruppo ha orari di partenza
attorno alle 13.30, a fondo griglia, e quindi arriviamo alla funivia verso le
11.25. La situazione della coda epocale per salire sulla funivia è ben
immortalata dalla foto di Roberto Sanna
(e ce ne
sono altrettanti davanti)
Trattandosi
di funivia, la gente sale “a pacchetti”: la coda avanza, poi si ferma il tempo
necessario a far scendere la cabina, far uscire chi ha già finito la gara,
eccetera. La cosa positiva è che si tratta di una coda “svizzera”, nella quale
tutti rispettano molto bene il loro ordine di posto. La cosa negativa è che il
nostro gruppetto è sempre in fondo alla coda… C’è infatti un ragazzo
dell’organizzazione, dotato di microfono e di
uno spirito da martire superiore a quello di tutti gli altri, che ogni
tanto richiama i ritardatari: “tutti
coloro che hanno un orario di partenza attorno alle 12.30 vadano alla corsia preferenziale!”…
e SBADABEM! … tutti quelli che avevamo dietro di noi ci superano. Poi
dieci minuti dopo (siamo attorno alle 11.45): “tutti quelli che hanno un orario di partenza attorno alle 13.00 vadano
alla corsia preferenziale!”… e SBADABEM!... stessa cosa. Noi siamo sempre
in fondo alla fila, siamo in coda insieme a tutti quanti i tapini che hanno
partenza a fondo griglia e, a quel punto, pensiamo che tra un quarto d’ora il
martire chiamerà alla corsia preferenziale tutti quelli che partono attorno alle
13.30… E CIOE’ TUTTI QUELLI RIMASTI in coda visto che le partenze alle 14
finiscono.
A quel punto
anche gli svizzeri più sgamati cominciano a pensare che, a fondo griglia,
qualcosa non andrà per il verso giusto con gli orari di partenza; ma mentre
cominciamo a lambiccarci il cervello per immaginare cosa si inventeranno per
farci fare la gara (magari una partenza con il tempo preso in modalità punching start?) il martire rimette mano
al microfono; mentre stiamo per raccattare le nostre cose e fiondarci alla
corsia preferenziale, ci viene dato invece l’annuncio che la gara è sospesa per maltempo in quota. Niente gara, niente quinta
tappa.
Considerazioni
sparse (e senza pretesa di essere nel giusto):
- la possibilità di annullamento di una tappa per cause non dipendenti dagli organizzatori era citata nel libretto della gara, quindi possiamo solo recriminare per un costo pro tappa che, con l’annullamento di questa, è diventato ancora più esoso; mi chiedo che effetto farebbe questa cosa in Italia…
- il meteo svizzero di solito ci azzecca, con orari puntuali come la cartella delle tasse: pensare ad un “piano B” e scambiare tra loro quinta e sesta tappa, visto che il sesto giorno correremo ancora a Sils Maria, con ritrovo nello stesso posto, ma nella parte bassa della carta?
- O pensare addirittura ad un “piano C”, ovvero posizionare tutta la quinta gara in un posto vicino, fosse anche stata solo una sprint nel (ripeto: delizioso) paesino di Sils Maria? (cosa ci hanno chiesto a fare allora a tutti quanti un numero di cellulare per eventuali contatti?).
- Bene senz’altro il discorso sicurezza: il sito SOLV.ch segnalerà la sera stessa come si fosse riunito urgentemente il “comitato di crisi” per giungere a quella decisione. Però che smacco!, e soprattutto: quando devi muovere 4.000 persone, forse non è il caso di mettere in campo logistiche così complesse ed estreme (navette, funivie, spostamenti a piedi…) per far apprezzare una 6 giorni che, per noi, resta purtroppo legata a “quella volta che non ci hanno fatto salire in funivia”. Altrimenti resta solo il commento, letto su facebook, che gli organizzatori si sono salvati da una figuraccia (far partire gli atleti con il punching start) solo grazie al maltempo…
Con lo
spirito decisamente polemico e negativo si va quindi alla sesta tappa: ultima
della manifestazione, si deve prima chiudere casa, riconsegnare le chiavi e
ritornare sul luogo del misfatto. Il meteo è piovoso e i nostri orari di
partenza sono tutti prima delle 9 del mattino (cosa che ci consentirà di essere
a Milano in tempi rapidi).
Partenza in piedi e gara tutto sommato nemmeno
tanto impegnativa (tutti quelli sul divano possono scatenarsi…). Molto bello
correre a tutta velocità la canaletta nel prato che porta alla lanterna numero
XXX, molto meno bella la discesa finale verso l’ultimo punto di controllo prima
del rettilineo di arrivo, dove si rischiano per l’ultima volta le caviglie e
dove, su un terreno viscidissimo, pianto un volo con salto mortale carpiato che
mi fa atterrare (anzi: travolgere!) proprio i due paletti dell’ultima lanterna
sotto gli occhi esterrefatti (prima) e in lacrime dalle risate (subito dopo) di
due master svizzere che arrivavano dalla curva di livello.
Dopodiché resta solo il ricordo di un’altra 6 5 giorni… da capire ancora se la
ricorderò più per i prezzi esorbitanti del costo della vita in Svizzera, per lo
smacco della quinta tappa, per il terribile ma in fondo inusuale terreno di
Diavolezza o per una scelta di categoria che mi avrebbe potuto vedere più
coraggioso. La prossima edizione nel 2019, a Gstaad, posto che mi dicono essere
caro quanto Davos o Nyon, sicuramente più di S.Moritz. C’è da mettersi fin
d’ora le mani nei capelli!
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