UN UOMO, SOLO, IN FUGA
Tanti anni fa, ma forse ne sono passati proprio pochini, gli orientisti di ogni latitudine non avevano ancora preso possesso di internet e non c’era ancora una proflusione di colleghi che raccontavano, ognuno a modo suo (chi meglio chi peggio, chi in italiano chi in italiese, chi in modo coinvolgente chi in modo un po’ pedestre) le avventure orientistiche più assurde o noiose, più aneddotiche o didascaliche, viste dal fondo classifica di una gara promozionale o dalla cima del podio di un Campionato del Mondo. Solo alcuni anni fa, e Pedro e OriBea mi possono credere, persino WorldofO non era noto a tutti; l’orienteering non sembrava proprio uno sport capace di portare così tante persone a raccontarlo su internet.
E così lo scambio di nuovi indirizzi internet remotamente scovati in qualche meandro della rete avveniva solo se tale scambio di informazioni fosse stato proficuo per entrambi; il tutto ricordava quelle pratiche di baratto che coinvolgevano la preziosa figurina di Pizzaballa, il numero di telefono della compagna di classe procace, quel passaggio “ottativo aoristo” di una versione di greco particolarmente ostica, un vecchio numero di Skorpio con l’inserto con le foto di Corinne Clery…
E tra i pochi siti che una volta si potevano consultare, c’era quello mantenuto (credo) da Denny Pagliari. Che un giorno nemmeno tanto lontano uscì con un titolo laconico: “Tavernaro stops with professional orienteering”. Quello fu uno shock per tanti. Io, per esempio, ero uno di quelli che credeva che Tavernaro avrebbe fatto l’orientista per sempre, che in qualunque occasione io mi fossi presentato su un campo di gara a praticare il mio gioco preferito, Tavernaro sarebbe stato là a guidare la classifica, a fare da punto di riferimento irraggiungibile per tutta la platea, fossero essi gli altri Elite italiani, i semplici appassionati o un impiegato panzottello.
Io non ho davvero nessuna pretesa di essere un punto di riferimento per chicchessia, quindi il paragone con il Michele nazionale è assolutamente forzato. Eppure mai come domenica scorsa, quella della gara di Alzate Brianza, sarei stato pronto a scrivere sul mio meno illustre blog “Stegal stops with orienteering”… ovviamente non quello “professional” che non mi riguarda! Semplicemente l’orienteering, il mio gioco.
Quello appena passato è stato un lungo inverno che, nonostante i primi tepori di inizio marzo, per me non si è ancora chiuso ed anzi minaccia di essere tale ancora per un tempo impronosticabile. E’ stato un lungo inverno fatto di qualche acciacco di troppo, di qualche pensiero di troppo, di qualche preoccupazione di troppo, di qualche ansia di troppo. Infine, ciliegina sulla torta, è arrivato anche il mio improvviso (dal lunedì al martedì, ed ero appena riuscito a sistemare altre cose) e non richiesto trasferimento in una remota località del medio-nord Europa. L’unica località, probabilmente, nella quale non esiste nemmeno una federazione di orienteering… (attenzione alla sintassi della frase: “l’unica probabilmente nella quale” è diverso dal dire “l’unica nella quale probabilmente”).
Ma se anche ci fosse una federazione di orienteering, qui con me non ci sono i miei cari amici, i miei affetti; praticando questo sport da quasi 20 anni con (inde)fessa costanza, le persone che ho più care sono anch’esse tutte rappresentanti del magico gioco che si pratica con una cartina e (se non sei Pasi Ikonen) una bussola. Mi sono improvvisamente sentito lontano dal GOK, dai boschi, da quegli amici ticinesi o trentini o veneti o di qualunque posto essi siano originari che incontri magari alla gara di Coppa Italia cinque volte all’anno ma che senti vicini ogni volta che cerchi una lanterna a qualunque latitudine del globo. E’ venuto a mancare il mio gioco e con esso anche tante certezze che hanno accompagnato la mia vita negli ultimi 20 anni: come diceva Andrea “Rebelot” Gianotti, ho trascorso 20 anni facendo passare le giornate solo come accompagnamento tra una occasione di giocare e quella successiva (mica di vincere, mica di “gareggiare”, solo di giocare).
Ho dovuto aspettare fino al 4 marzo per cercare di porre fine a questo inverno dell’anima, per cogliere l’occasione propizia e tornare a praticare il mio gioco preferito, ma le cose non sono andate come speravo. Un attacco di panico, o di ansia, o di paura mi ha colto tra le lanterne 12 e 13 (credo fosse quella la tratta), proprio mentre mi accingevo ad saltare una specie di fossato di cemento in mezzo ad un prato. Solo qualche ora prima, mentre posavo le lanterne al Parco Forlanini insieme all’amico Alessio (lui si che è un membro del GOK ad honorem), ci eravamo trovati davanti ad un attraversamento simile per ampiezza, senza le rive in cemento ma con un corso d’acqua: un fosso che in altra età e con altro peso avrei saputo scavalcare “per il lungo”. Credo che Alessio ed io ci siamo soffermati proprio lì a pensare a ciò che certi fossati rappresentano non solo per un atleta che pratica l’orienteering, ma soprattutto per le tutte le persone impegnate a condurre una vita reale e normale e che cercano di mettere assieme quelle tessere che rendono le giornate degne di essere trascorse… e perché no? Cercando qualche lanterna.
A distanza di nemmeno 24 ore, un altro fossato mi è venuto addosso e non sono riuscito a tirarmelo via dalla mente. Un fossato che ha finito per rappresentare alcune difficoltà che credevo di saper gestire e davanti alle quali mi sono sentito indifeso come l’ultimo degli immaturi o dei “poco cresciuti”. Dal punto di vista orientistico, da quel momento in poi mi sono solo lasciato trascinare dalla corrente perché da solo non sarei stato nemmeno in grado di trovare la strada per il divano di casa: Luigi Giuliani una lanterna più avanti, poi Paolo Grassi ancora più avanti, un ragazzo svizzero con i capelli biondastri e poi forse Roberto Biella. Finché alla 18, per la prima volta in vita mia, ho trovato il bosco opprimente; l’ho percepito violentemente come un nemico che non mi faceva tornare a casa. Ho visto la mappa come un oggetto estraneo e indesiderato, che mi prendeva in giro e mi negava persino la libertà di scegliere come passare le poche ore che trascorro tra una trasferta di lavoro ed un’altra.
Panico ed ansia. Questi sono stati i miei compagni di viaggio nei 15 minuti che ho trascorso per fare i 150 metri che mi separavano tra la lanterna 17 e la 18. Nei quali ho finito per coinvolgere anche la povera Ombretta Milesi, alla quale mi sono aggrappato con tutte le forze per farmi portare fuori dal bosco, perché da solo non sarei mai riuscito a trovare la strada (grazie ancora Ombretta, e scusami!). Credo che la faccia con la quale mi ha visto Ivano Benini al traguardo sia stata sufficiente per evitargli di rivolgermi qualunque domanda: non avrei saputo nemmeno cosa dire, da tanto che ero sconvolto.
Scrivo tutto questo sul blog senza nemmeno lasciare, a chi fosse arrivato in fondo a questa miseranda e poco avvincente storia, la possibilità di lasciare un commento. Perché lo faccio?
Perché il lavoro mentale che sto facendo sul sottoscritto parte anche da qui. Parte dal tentativo di rendere me stesso, o la mia ombra, consapevoli del fatto che gli inverni finiscono… ma la mia ombra deve essere la prima disposta a crederci. Così adesso anche lei avrà un posto dove andare a leggere che un certo Stegal67 le sta dicendo di piantarla lì con i pensieri negativi e di cercare di tornare a sorridere. Come diceva Daniele Silvestri “Più in basso di così \ c’è solo da scavare”, ma a me nessuno è ancora venuto a regalare una pala!
(la foto è di Alessandro Manzoni, un regalo di Natale che speravo di usare per un post più bello)