Stegal67 Blog

Wednesday, July 25, 2012

Perchè lo fai?



Forse perché dopo la pioggia viene il sereno, forse perché dopo una gara negativa c’è sempre la possibilità di averne una positiva, forse perché dopo una lanterna trovata per caso dopo aver navigato a vuoto per mezzo bosco ce n’è quasi sempre una che ci viene incontro come se ci chiamassimo Gueorgiou… Forse perché solo all’Oringen può capitare di fare la coda al Toi-Toi avendo proprio alle spalle Anne Margrethe Hausken (tralascio il fatto che per qualche ora ho cullato l’ipotesi di scrivere “Come sono riuscito a stare davanti ad Hausken per 5 minuti…”).

Perché lo fai? Forse la risposta è in quella sorta di lucida follia che prende gli orientisti che hanno passato troppo tempo a mollo nel fango e sotto la pioggia, a faticare per un duecentesimo posto in una categoria di contorno combattendo solo contro se stessi o contro la propria ombra. O forse per un senso di “peterpan-esimo” che fa sentire sempre giovani ed incuranti degli acciacchi, che invece sono lì a manifestarsi proprio nel momento in cui avresti bisogno di avere una risposta dalle tue gambe o dalla tua testa…

Perché l’ho fatto? E soprattutto cosa ho fatto? Semplice. Mi sono iscritto, e sono qui a cimentarmi, nella O-Ringen 2012. Categoria H40. Quella lunga, non le due categorie corte. Proprio quella lunga. Ci sono un paio di cose, o anche di più, che non tornano. La prima: non mi alleno da questo inverno, fatte salve alcune comparsate all’alba quando ero impegnato come speaker. La seconda: la caviglia destra è gonfia come un peperone e non accenna a guarire. La terza: in realtà avrei potuto iscrivermi alla H45, visto che l’anno di nascita è 1967. La quarta: avrei potuto scegliere la categoria “Corta”. La quinta… eccetera eccetera eccetera.

Le ultime due aggravanti sono state già oggetto di battute da parte di Maria Braun “anche io sono qui all’O-Ringen, ma mi sono iscritta alla gara Corta” e soprattutto dell’amicissimo Christian Olivestam dell OK Vimmerby “Ti ho cercato in H45, ma non ho trovato il tuo nome”; basterebbero queste due frasi aa convincere la giuria che non tutte le rotelle sono al posto giusto e a guadagnarmi le attenuanti generiche per insanità mentale.

Poi, a confermare i primi due punti in scaletta, ci pensa il collasso totale che mi ha preso durante la prima tappa (una long distance particolarmente fisica, come dice anche il sito Fiso) quando al punto 8 ho finito completamente la benzina; da lì fino al traguardo, la mia gara si è trasformata in un calvario fatto di passaggi a tutti i ristori per cercare di assumere un po’ di acqua, e di successivi attacchi di vomito tra un ristoro e l’altro; sulla strada per il punto 12 passo per il punto di soccorso (che per fortuna è in pieno sbaraccamento) e resisto alla tentazione di rispondere affermativamente alle domande dei tizi dell’organizzazione che si offrono di riportarmi all’arena in camioncino.

“Perché lo fai?” resta ad aleggiare nell’aria fino al giorno successivo. Guardo i miei piedi, le due vescicazze terribili che mi sono venute sul calcagno (io che non ho mai avuto particolari problemi di questo tipo), le tre unghie che sono già saltate nei contatti con i ruvidi terreni svedesi. Infilo le mie “piote” malmesse in un paio di Inov-8 che sono ancora fradicie della gara del giorno prima (che è finita alle 15 e la partenza della seconda tappa è alle 9), che è come infilare i piedi nelle budella di un pesce… e si riparte.

Riparto per una middle che non vedrà tratte di 19 centimetri di lunghezza (sotto la linea rossa, in realtà molti di più!) ,non vedrà passaggi tra le rocce nei quali ritrovare come alla Capriasca i poteri dell’Uomo Ragno onde evitare di sfracellarsi parecchi metri più in basso (e i concorrenti che mi seguono in quel passaggio sembrano tutto fuorché propensi ad occuparsi della salvezza o dell’eventuale salvataggio dell’Impiegato Panzottello eventualmente sfracellato). La middle del secondo giorno sarà bosco svedese, con un sacco di dettagli. Un bosco da leggere con attenzione, soprattutto i codici delle lanterne, perché in zona punto ogni sasso avvallamento buca cocuzzolo semicurvadilivello hanno la loro brava lanterna; e così capita che l’uscita dalla lanterna svedese sia già l’attacco al primo punto, e l’uscita dal primo punto è l’attacco al secondo punto e così via.

Quando arrivo al nono punto di controllo, codice 106 in una zona dove le tracce dei trattori che hanno recentemente disboscato si confondono con le tracce vere segnate in carta, e dove le paludi hanno sconfinato su tutta l’area, e dove ogni dettaglio ha una lanterna (e dove il mio punto alla fine lo trovo per caso mentre sto cercando di ricollocarmi), ecco che allora penso che la seconda gara è finita ed io sono ancora tutto intero. Perché per il decimo punto basta seguire e poi farsi staccare da Peter Braun ma precederlo sulla sua uscita dal punto (che per me diventa l’ingresso). Perché l’11esimo punto è lì dove te lo aspetti ed il 12esimo è a 100 metri e… cosa ci fanno queste 50 persone attorno al mio punto? Possibile che siano arrivati tutti qui? Noi 5 che cerchiamo proprio questa lanterna ed altri 45 che si guardano intorno per capire dove sono capitati?

Perché il maledetto ponticello di oggi che ti sbarca sull’arena del traguardo non è il “MURO!” del giorno prima e cioè un ponticello metallico alto 5 metri e quasi a picco (la salita ha persino le borchie per riuscire a far fare presa alle scarpe). Oggi persino il ponticello in legno ha un’aria simpatica anche se si arriva già in salita e in contropendenza e solo i migliori, ma veramente i migliori!, riescono ad arrivare in cima correndo.

E lo faccio perché c’è sempre il giorno dopo del giorno dopo. Perché la “tappa bingo” dell’Oringen stavolta è la terza, e si arriva sulla spiaggia ed il bosco è piatto e i piedi sembrano aver voglia di correre un po’ anche se le vesciche e le unghie pulsano da matti. Perché devi stare attento ad ogni stramaledetto dettaglio e chi è arrivato al traguardo ti dice che il punto 1 e 2 sono proprio tecnici, ma io su quei due punti ci sono arrivato come un laser… perché quando il bosco da quasi piatto diventa piattissimo devi tirare quegli azimut da 500 metri nel bosco aperto a cercare una radura 3 metri x 4 metri e se anche la trovi per approssimazioni successive c’è sempre qualcuno ancora più disperso di te.

Perché poi arrivano le dune, il finale più pazzo delle mie 3 Oringen e mezzo fin qui disputate. 5 punti tra le dune di sabbia fronte mare, prima accompagnato soltanto dai compagni di gara che cercano in tutte le buche ed in tutti gli anfratti e poi sempre più “preso” nella parte finale dove non si capisce più se le persone che guardano e fanno il tifo sono i bagnanti venuti a prendere il sole, o gli orientisti che si son trasformati in bagnanti. Sarebbe bastata solo un po’ di cattiveria in più nel finale (o 1 minuto di errore in meno al punto 9) per stare sotto l’ora. Era l’ultima occasione per finire una gara sotto i 60 minuti, visto che domani e dopodomani si ricomincia con le maledette long distance. E pensare che ero riuscito persino a correre tutta la tratta di quasi 400 metri dall’ultimo punto all’arrivo, compreso il maledetto ponticello… (probabilmente l’ultimo di questa edizione 2012).

Domani si ricomincia con le long distance, allora. I piedi sono un disastro, il fisico uno sfacelo. Il terreno è difficile e la tipologia di gara è quella che mi piace di meno. Ma se anche tutto quanto finisse in un maledetto disastro, so che ci sarà sempre un'altra possibilità: dopo la pioggia viene sempre il sereno.

Ecco perché lo faccio.

Wednesday, July 04, 2012

Deuteronomio

Se non fosse per quella maledetta passionaccia… dovrei cospargermi il capo di cenere e ammettere che la cosa più vicina al colpo di fulmine sportivo (sportivo narrante, non sportivo praticante) l’ho vissuta nel 1994. Si tratta di qualcosa che ha molto a che fare, come in tutti i racconti di questa Bibbia personale, con il modo in cui i presunti addetti ai lavori raccontano ed interagiscono con lo sport. Se non fosse per quella maledetta passionaccia…


L’eroe del Deuteronomio, se ce n’è uno anche nella versione originale, si chiama Lorenzo. Un tipo che a vederlo non gli avresti dato molte lire… un po’ allampanato, con i capelli biondastri un po’ così alla rinfusa, uno che non avrebbe vinto un concorso di bellezza contro Costantino Vitagliano ma insomma… a chi poteva mai fregare?!? Strano tipo, questo Lorenzo. Uno tra i tanti, uno tra i sei, a dire il vero. Ma non avrebbe vinto quel concorso di bellezza nemmeno se stavi a paragonarlo solo con quegli altri cinque. Tu lo guardavi (io lo guardavo) e non capivi (io non capivo), guardavi ancora e ci mettevi davvero poco a stabilire che Andrea, quello col nasone, quello sì che non ci voleva niente a capire che ruolo avesse e quanto importante. Guardavi Andrea, l’altro Andrea, quello coi capelli assurdi (ma un po’ meno assurdi di quelli che ha oggi) e ti rendevi conto subito di quanto, capelli o non capelli, la sua presenza fosse fondamentale.

Poi guardavi Lorenzo e non capivi (io non capivo). Anche se a distanza di anni mi tocca ammettere che ero IO quello che non capiva, ma che più di me ci hanno capito senz’altro coloro che un giorno misero Lorenzo in cima al mondo, lui solo lui a pari merito con quell’altro tizio che di nome faceva Karch … Karch Kiraly, per completezza di racconto, che era uno che un giorno andò a prendere per il collo in diretta televisiva Stefano Margutti perchè aveva lasciato cadere a terra un pallone senza sbattersi troppo per andare a prenderlo. Ma questa è un’altra storia.

Lorenzo, da buon trentino, ti guardava e poi, se non gli aggradava la tua presenza, ti metteva a terra. Fisicamente se stavi dall’altra parte della rete, o metaforicamente se non stavi su un campo da gioco. Come quella volta che sentii l’addetto ai lavori (che probabilmente fino al giorno prima aveva intervistato l’assessore amico suo o il potente di turno) fargli una certa domanda… Eravamo nel 1994. Agosto 1994. E devo riconoscere che ci vuole un certo coraggio unito ad una buona dose di ignoranza, per andare a sventolare il microfono sotto il naso di Lorenzo e dirgli con un certo tono di critica e sfida, come se fosse la cosa più naturale del mondo, che ormai era un giocatore appagato, che stava cominciando a diventare “molle”, che aveva perso quegli “occhi da tigre” che lo avevano reso famoso in tutti il mondo. Ci vuole coraggio, o follia…

Se non fosse per quella maledetta passionaccia… io ricordo Lorenzo, gli occhi puntati dritti davanti a lui, ad una altezza siderale rispetto all’intervistatore. Ricordo la replica. “Molle? Io? … dimmelo tu. Io mi ricordo le facce di tutti coloro che stavano intorno a me al (…) e la tua non c’era. Io invece c’ero, sai? Ero proprio lì.”. E la mia mente comincia a viaggiare.

Adesso siamo nel 1990. E’ il 28 ottobre del 1990. Anzi, no, è il giorno prima. Il 27 ottobre. In casa ci sono due televisori, ma “quello grande” trasmette un film o un telefilm o una qualunque cosa piaccia ai miei genitori. Io sono attaccato a quello piccolo, quello che va sintonizzato ancora manualmente. Ho trovato il segnale di Rai3, e le mie orecchie devono captare la voce di Jacopo Volpi in mezzo al vociare di 20.000 pazzi urlanti (in un'altra occasione, in un’altra stagione, in un altro sport, i pazzi diventeranno 100.000, ma anche questa è un’altra storia). E’ il Ginasio do Maracanazinho: Italia – Brasile, semifinale del Campionato del Mondo di Pallavolo. Da un lato i favoriti, i verde-oro. Dall’altra 6 ragazzi 6 che non sono ancora una “generazione di fenomeni”: Andrea, Paolo, Andrea, Luca, Andrea e Lorenzo.

Se non fosse per quella maledetta passionaccia… come si può credere che il Brasile possa perdere? Non con quella squadra che sono in grado di schierare, non in quel posto davanti al loro pubblico, non in quella edizione dei Mondiali organizzata apposta per loro. Non contro una nazione che, pur in crescita, non si è mai vista a quei livelli. Oddio, proprio “mai” no… certo, chi ma si ricorda dei Mondiali del 1978 giocati in casa? Chi si ricorda del “Gabbiano d’argento”? Eppure il precedente dice che anche nel 1978 finì Italia 3 – Brasile 2. Perché i miracoli, quando sono targati Italia-Brasile, finiscono sempre tre a due… 1978. Il Gabbiano d’argento. E la frase di Carmelo Pittera prima della semifinale: “Se due più due fa cinque, noi battiamo Cuba”. Nel 1978, due più due fece veramente cinque! Ma nel 1990, a distanza di 12 anni, bisogna fare ancora 2+2=5, contro il Brasile, se si vuole andare a giocare la finale contro Cuba. Ma 20.000 pazzi urlanti non bastano a cambiare il verso dell’equazione, a fermare il salto di Andrea Lucchetta e l’ultimo pallone che si schianta a terra nella metà campo brasiliana, ancora un 3 a 2! E’ la sera del 27 ottobre, e quando finisce la partita forse è già il 28 ottobre e mancano poche ore alla finale contro Cuba. Da giocare contro Diago, Vante, Beltran… e contro il più forte giocatore del mondo: “El Diablo”, Joel Despaigne.

Così parlavano all’intervistatore divenuto piccolo piccolo, o a nessuno in particolare, la voce e gli occhi di Lorenzo Bernardi. Si arriva al giorno successivo. Il 28 ottobre 1990, e due più due continua a fare cinque. El Diablo gioca per Cuba, gioca per la revoluciòn, per se stesso, gioca ad un certo momento da solo contro tutti. E se ti chiami Joel Despaigne, o Michael Jordan, o Maradona, qualche volta puoi giocare contro tutti e farcela lo stesso. Non contro la nazionale italiana di quell’anno. Despaigne gioca come un dio, ed il racconto fatto da Andrea Lucchetta degli effetti sonori che accompagnano le bordate del cubano basterebbe per capirlo. Ma alla fine, tra tutti, ad un altro orario impossibile e dopo un quarto set interminabile, è Lorenzo Bernardi a mettere per terra l’ultimo pallone. E a salire sul seggiolone dell’arbitro per urlare a tutti che quella squadra è in cima al mondo, che lui è in cima al mondo. La stessa cosa che sta urlando Jacopo Volpi, poi più noto per le compassate telecronache calcistiche ma quel giorno numero 1 tra i tifosi al Maracanazinho.

Come si poteva porre a Lorenzo una domanda del genere? Molle? Lui? Beh… questa domanda, e la reazione di Lorenzo (che per quanto pacata, più incisiva non poteva essere) la ricorderò per tutta la vita, anche se c’è sempre quella maledetta passionaccia... E mi torna in mente ogni volta che tocca a me raccontare qualcosa sul nostro sport. Perché quel giornalista che nel 1994 provò a mettere Bernardi in difficoltà, lui, al Maracanazinho, non ci aveva probabilmente mai nemmeno messo piede: avrebbe dovuto ricordarsi che, prima di fare una domanda del genere, bisognerebbe mettersi nei panni di quell’altro.

“Mettersi nei panni di”. Proprio così. Qualcuno mi ha mai chiesto perché il sottoscritto si ostina a mettere assieme gare inutili partendo alle 8 (anche più presto, anche molto più presto) per fare la gara prima di tutti quanti gli altri? Perché sono un orientista? Si. Perché il mio lavoro non è fare lo speaker e quindi preferisco di gran lunga fare anche io la gara? Si. Perché essere nel bosco in totale solitudine dà un senso di appagamento che spesso la gara non riesce ad offrire? Si. Perché… perché… perché… Perché io non voglio fare come quel giornalista che si rese ridicolo ponendo a Bernardi una domanda assurda. Perché, proprio io che non sono un narratore professionista, non voglio rendermi ridicolo di fronte a nessun orientista facendo domande, o parlando di una gara, senza prima aver provato sulla mia pelle e sulla mia fatica (sempre sulla mia fatica, ma spesso anche sulla mia pelle) cosa vuol dire essere stato in un certo bosco, su certe salite o a caccia di un certo punto di controllo. Perché, anche quando si parla o si straparla di gare fatte da altri, bisognerebbe sempre cercare di “mettersi nei panni di” quei famosi “altri”.

Una delle frasi che ho scritto e che talvolta mi viene ricordata, per fortuna positivamente dai protagonisti di quel giorno, risale al 9 settembre 2006. Campionati Italiani a staffetta a Jenesien: “nessuno adesso vorrebbe essere nei panni di Marina Simion in terza frazione; nessuno... tranne forse Marina stessa”. Mi piacerebbe aver tenuto in serbo questa frase per un’altra occasione, per la staffetta Mondiale 2011 a La Feclaz, per Klaus e Alessio e Misha; perché tutti quanti abbiamo detto i nostri “Eh certo, vorrei anche vedere che non si riusciva a tenere il treno…” “Eh vabbé… ma guarda poi come è andata a finire…”. E tutti noi saremmo stati certamente a nostro agio a sentirci addosso i panni di Klaus e Alessio e Misha col senno di poi, con il risultato acquisito quando la gara è finita, con le sensazioni stemperate dal tempo che passa e dal podio sfumato. Ma quando sei lì, quando ci sei dentro fino al collo che ti serve un periscopio per poterti guardare attorno, quando ti trovi nel bosco di La Feclaz ed attorno a te non ci sono i panzottelli ma Gonon e Nordberg e compagnia, o sei a Jenesien in fuga per il tuo primo titolo a staffetta e dietro di te si preparano Laura e Heike, allora puoi star certo che non trovi tanta gente pronta a raccogliere e vestire i tuoi panni ed infilarsi dritto nella contesa.

Se non fosse per quella maledetta passionaccia… la lezione più grande che Lorenzo Bernardi ha dato come sportivo (lui) a uno sportivo da divano (io) non è come schiacciare un pallone per terra con precisione chirurgica, ma che anche in uno stato nel quale il diritto di critica è legittimo e sacrosanto bisogna sempre ricordarsi che, talvolta, mettersi nei panni di “quell’altro” prima di parlare o scrivere è sempre cosa buona e giusta, e che non lo si fa mai abbastanza spesso.

Se non fosse per quella maledetta passionaccia…

Monday, July 02, 2012

Come diceva qualcuno, “Ci sono le bugie, le grandi bugie, e poi addirittura le statistiche”. Magari statistiche che dicono che i bagagli in aeroporto vengono restituiti sempre entro un certo lasso di tempo (a meno che non ci sia la partita dell’Italia in contemporanea, perché in questo caso si blocca tutto fino al fischio finale). Magari statistiche che dicono che i voli aerei da e per Lussemburgo sono sempre puntuali… anche se negli ultimi tempi il tragitto Milano – Lussemburgo – Milano in automobile sembrerebbe essere diventato addirittura concorrenziale (e lo sarebbe davvero se le autostrade svizzere non fossero piene di radar).




In quest’ultimo periodo, di statistiche ne ho viste girare parecchie. Ed ogni tanto, leggendo il modo in cui alcune informazioni vengono fatte girare “statisticamente elaborate” persino su un paio di O-siti, a me non girano solo le statistiche… Magari se troverò il tempo e la voglia tornerò sull’argomento.

La statistica di oggi invece riguarda le gare di sabato e domenica scorsa in provincia di Vicenza, quelle che hanno assegnato il titolo italiano di Trail-O. Ebbene quella che vado a dire non è una bugia o una grande bugia, ma assurge di diritto al rango delle grandissime panzane… ehmmm… statistiche: se non ricordo male, io mi sarei classificato al sesto posto (italiano). Certo, occorre contare gli assenti, quelli che erano impegnati in organizzazione, quello che è italiano ma non è tesserato per la Fiso, gli stranieri veri e propri. Alla fine, però, il dato che entra nella statistica è un sesto posto che sembra essere stato estratto al lotto più che qualcosa di effettivamente guadagnato sul campo.

Il mio numero magico, nella settimana che precede le gare di San Zenone Ezzelino e Nove di Brenta, è 68: sono le ore di lavoro fatturate al cliente in Lussemburgo in 5 giorni. La divisione ,sempre ai soli fini statistici, di fa in fretta… Dire che l’aereo che torna a Milano (perennemente in ritardo) tra venerdì e sabato trasporta un orientista-bollito è dire poco. In Italia si fa sentire l’ondata di caldo, quando la partenza da Lussemburgo avviene con un tempo che ogni giorno butta giù i suoi 3 o 4 squacqueroni di temporale. Ci sono modi diversi, e senz’altro qualcuno anche peggiore, per passare una settimana lavorativa, con il pensiero del volo che mi aspetta per riportarmi là solo poche ore dopo la fine della seconda gara.

L’auto che parte da Milano trasporta quello che farebbe la felicità di qualunque statistico passasse nelle vicinanze. Ci sono infatti: un orientista lombardo (anzi, milanese, che di questi tempi sembrano essere sempre più rari), un secondo orientista lombardo che però gareggia con la divisa dell’Aget Lugano, un terzo orientista lombardo di origine valsuganotta che però gareggia per una società slovena, un quarto orientista sloveno trasferito in Lombardia che gareggia per la stessa società slovena ma è tesserato per una squadra della Valsugana. Sembra il “quesito con la Susi”, manca solo il maglionazzo a righe nere orizzontali della tettoruta bionda della Settimana Enigmistica, oppure uno di quei quiz logici da Brain Storming. Se Kri o Rusky dovessero vincere il titolo, darebbero lavoro ai legulei della Fiso almeno per un paio di mandati… e d’altra parte ricordatevi che c’è sempre la questione di chi ha portato a casa medaglie nazionali senza averne diritto (probabilmente è passato un numero di anni sufficienti a mandare la cosa in giudicato, ma non si da mai!).

La gara del sabato, che mi vede penultimo in partenza, si disputa con un caldo ed una umidità da giungla tropicale; con un contorno in alcuni punti di zanzare e insetti vari che trovano particolarmente saporito il sangue delle mie braccia. Dire che all’inizio sui primi punti ci capisco poco, è riduttivo! Ogni singolo millimetro della carta ed ogni metro di terreno mi manda in confusione, con salvataggi all’ultimo secondo (sulla risposta esatta) che sono più inaffidabili della scelta di un numero del lotto sulla ruota di Bari. Il culmine alla piazzola 6, nella quale solo per me che sono a fondo gruppo il quesito (“termine sentiero”) è svelato dal passaggio di un tizio in bicicletta che sfiora solo di qualche centimetro la lanterna… se in quella specie di giungla non sta utilizzando il sentiero che potrebbe essere solo a qualche metro, allora è un pazzo. Come me, del resto, che sto qui a farmi queste paturnie mentali!

Da quel punto in poi, come contrappasso per essermi potuto giovare di un simile inatteso (non richiesto) aiuto esterno, calano le tenebre e calano anche le zanzare. Cala il livello di concentrazione e sale invece una tale confusione mentale da farmi mettere a segno alcune prodezze di livello europeo; valga per tutte il fatto che al punto 12 vedo un concorrente accasciato su un sentiero che sta una curva sopra al mio, penso che sia stato colto da impellenti bisogni fisiologici e decido quindi per lasciargli un minimo di privacy di starmene al largo… e invece lui stava sul sentiero giusto, nel posto giusto e stava solo scrutando da una posizione più bassa le 3 lanterne! Il caldo soffocante, la sensazione di totale inadeguatezza, i dubbi, la mancanza di tempo fanno sì che le ultime lanterne siano davvero una specie di lancio del dado: potrei farle tutte giuste e non sarebbe nemmeno sportivo, o potrei farle tutte sbagliate ed il mio sentimento sarebbe “chissenefrega… voglio solo venir via da qui”. Cosa che bene o male quando sono ormai le 6 di sera avviene davvero, ed è ora di andarsene a cuccia con la macchina “Quesito con la Susi”.

Poiché la classifica parla chiaro (e non potrebbe altrimenti!) e quindi sono staccatissimo, a fondo classifica e tagliato fuori da tutto, non è un problema il fatto che in camera l’aria condizionata rumorosissima parte e si spegne ogni 15 secondi facendomi fare il flipper a letto praticamente per tutta la notte (l’anno scorso a Cavalese la notte era stata ugualmente agitata, ma per motivi di classifica!). Così il giorno dopo, sotto una calura tra e il malsano e l’insopportabile, posso proseguire nel mio week-end di scarsa comprensione ed autostima; se la mia altezza mi consente di essere (forse) l’unico ad aver visto la lanterna 1 da due punti di vista diversi distanti 90 gradi tra loro, la mia insipienza tecnica non giustifica una serie di piazzole di controllo del tutto incomprensibili.

Ad un certo punto, per puro bastiancontrarismo, decido che da lì in poi non avrei più utilizzato la risposta “Z” (tanto fin lì potevano quasi esserlo tutte, per quanto ero riuscito a capire…).Arrivo al traguardo con una serie completa di dubbi amletici ed il solo pensiero dell’aereo che dopo poche ore devo riprendere per tornare a Lussemburgo. E invece, per motivi a me ignoti, finisco quinto nella seconda tappa e sesto tra gli italiani nella classifica generale. Una classifica che vede un bell’ex-aequo tra Guido e Michele che si dividono il titolo italiano (persino giusto, perchè alla fine essere divisi anche di un solo secondo avrebbe fatto molto male ad uno dei due) ed il quarto posto dello sloveno Marco G. che potrebbe essere persino un primo posto da solo se il suo reclamo venisse accolto (poi è tutto da vedere cosa sarebbe successo per l’assegnazione del titolo italiano vero e proprio, visto che alcuni nostri regolamenti sembrano essere stati scritti all’epoca delle Signorie).

Col senno di poi, è con un certo sollievo che vedo la conclusione (o quasi) della stagione di trail-O. Ora è tempo di cercare di mettere un po’ in ordine le trafile lavorative, la mia luxemburgois-ità e di pensare a cosa fare quest’estate. Cercando di lasciare indietro le tossine delle 68 ore lavorative alla settimana, che fanno tanto orari da “Il socio” di John Grisham (non il brutto film né la dimenticabile serie televisiva, ma il libro vero e proprio): il primo passo è quello di cominciare a scaricare qualche “flyer” delle multi-days estive che ancora accettano iscrizioni oltre il tempo utile… Ma a proposito di mettere ordine, vorrei anche trovare il tempo di mettere mano a certe famose statistiche che stanno girando su internet: tipo “numero di tesserati”, “partecipazione alle gare” e tante altre belle cose. Perché, guardando le cose dalla prospettiva lussemburghese, i numeri di cui sento parlare sembrano raccontare storie completamente diverse da quelle che leggo…