Stegal67 Blog

Tuesday, August 09, 2016

5 days of Tesino


Ci sono tanti modi diversi per trascorrere una settimana di ferie: la maggior parte dei miei colleghi si trasferisce in spiaggia, dove l’unica decisione da prendere consiste nello scegliere dove piazzare l’ombrellone, oppure in montagna a fare passeggiate rilassanti o crogiolarsi in qualche spa; io quest’anno ho deciso di andare sull’Altopiano del Tesino, dormendo nella struttura comunale di Cinte Tesino, mangiando i pasti preparati da Marco Bezzi e dormendo in una piccola mansarda con Eddy Sandri, o talvolta da solo.

La mia 5 giorni di Italia: 6 giorni di gare, 10 competizioni, 5 premiazioni, per 5 volte sono stato dietro al microfono a commentare le gare.  Non è stata una passeggiata di salute, probabilmente non lo è stata nemmeno per alcuni degli atleti che già il terzo giorno dimostravano di mal sopportare il mio pessimo inglese e il diluvio di parole che li sommergeva per 5 ore al giorno; solo per fare un confronto, lo speaker della 6 giorni di Svizzera si limita a dare gli aggiornamenti dei primi tre classificati nelle categorie Elite ed under-20 e a fare gli annunci di servizio che servono agli organizzatori. Io ho snocciolato interi alberi genealogici, fatto molto gossip, enunciato piazzamenti in classifica oltre la X-esima posizione (con X anche molto alto). Devo ammettere che alla lunga tutto questo potrebbe anche aver stancato le orecchie degli ascoltatori… insomma: devo imparare a darmi una calmata!. Tuttavia ogni sera, rientrando nella mia cuccia a Cinte Tesino, ho pensato di essermi meritato la cena preparata da Marco o le mani di carte a Whist, sollevato per il fatto di essere riuscito a fare il meglio che potevo. Da un punto di vista strettamente sportivo, devo invece ammettere che la maggior parte delle mie gare non hanno avuto l’esito che speravo… si, diciamo proprio che ho fatto abbastanza schifo in tutte le gare!

Gare che cominciano il 2 luglio a Drio Castello, subito dopo aver provato con molta infamia e scarsissima lode nonché infiniti gradi di incomprensione il percorso di trail-O. Il cielo non promette nulla di buono, ma le previsioni del tempo fornite da quell’autentico ufficio meteorologico che sono le ossa del Sig. Gozzer dicono che la pioggia dovrebbe salvare la prima tappa degli atleti. Degli atleti, appunto: di quelli che partono nell’orario canonico di gara. Ma io parto prima (e non so nemmeno se sono un atleta!).

E’ circa mezzogiorno quando vengo lanciato nel bosco da Alessandro Conci. Nel bosco… la mia scelta per la prima lanterna della prima tappa della 5 giorni prevede una abbondante dose di strada asfaltata, percorsa fino a raggiungere la linea tra il punto 1 ed il punto 2: Emil Wingstedt, il tre volte campione del mondo che doveva gareggiare contro di me (astenersi dalle risate, prego!) in H40 e che, poi, ha preferito rifugiarsi in Elite, mi dirà che la mia scelta è giusta, e che la sua scelta sotto la linea magenta lo ha costretto ad aprire la strada nella vegetazione fitta a tutti quanti gli altri.

Dopo la salita violenta al terzo punto, affrontato dall’avvallamento situato molto più in basso, vado via abbastanza tranquillo fino al punto 9, cercando soprattutto di stare sul sicuro perché i posatori non sono ancora passati nella zona con le rocce e ci sono solo i paletti. Alla 9 vivo il momento “sgurz” della giornata: l’idea originale è quella di uscire dal punto in direzione nord-ovest, andare a prendere la strada, girare in senso orario attorno alla grande parete rocciosa e raggiungere il punto 10 per la strada più lunga ma più facile. Dal divano, però, è sempre facile… nella realtà vado in direzione nord, infilo il sentierino che sta nell’avvallamento tra due alte pareti di bosco e capisco che sto tornando verso la partenza. Come sanno bene gli amici del GOK, io sono campione del mondo nell’arte di ripassare dalla partenza durante la mia gara! Non “in zona partenza”… ma proprio dai cancelli e dal gazebo delle partenze. Ancora non mi è stato mostrato un articolo del regolamento (e di articoli ne abbiamo mille milioni) che me lo vieta! E poi il triangolo di partenza è, solitamente, un punto certo sulla mappa. Mentre corro verso il basso ed elucubro tutto ciò, vedo un nastro bianco e rosso che attraversa il sentierino, ed anche un cartello “DON’T CROSS” rivolto verso di me che sono nel bosco; i successivi pensieri sono due: UNO: non esiste da nessuna parte che io faccia dietrofront in salita DUE: non so leggere, sono analfabeta, non conosco l’inglese… Quindi tiro dritto fregandomene del cartello.

La 10 la raggiungo dal prato a sud, scalando tante curve di livello e contraddicendo la mia scelta di percorso originale. Per la 11 rifaccio il giro dal campo di calcio, ripassando nella zona della 1, e infine per la 12 passo nella zona delle case dove la gente normale sta già mangiando e mi guarda come se io fossi un miraggio o una allucinazione (ma nessuno che mi offre neppure un bicchiere di acqua!). A proposito di acqua, da qualche minuto piove che Dio la manda: il bosco viene rischiarato ogni tanto dai lampi sempre più vicini, ed i botti che seguono parlano di un temporale che si sta sviluppando a non più di qualche centinaio di metri da me che sono in mezzo agli alberi e sto cercando dei paletti metallici conficcati nel terreno (la legge 626 mi fa un baffo…). Dalla 12 alla 16 bisogna solo scendere un migliaio di curve di livello, e poi per arrivare alla 17 bisogna affrontare sotto il diluvio torrenziale una zona (quella sotto alla linea elettrica) dove le felci e la vegetazione mi arrivano letteralmente al mento; felci fradicie, il che vuol dire che è come farsi largo in una , foresta di asciugamani zuppi d’acqua: se casco per terra qui mi troveranno solo in primavera se verranno a falciare la zona. Il finale di gara è poi quantomeno insensato perché nella tratta 17-18 occorre attraversare una profonda palude di acqua sporca, liquami vari e fango che ricorda solo e purtroppo certi film sulla battaglia delle Ardenne, e non c’è diluvio che tenga per farmi arrivare al traguardo almeno un po’ pulito…

(l’abbigliamento è da “partenza con il sole”… e notare le scarpette da corsa)

Anche la seconda tappa parte con propositi di gara bagnata (durante la notte si è abbattuto sul Tesino un mezzo nubifragio che ha fatto rimbombare le pareti della mia mansardina, o era Marco Bezzi che russava???), ma in realtà alla fine il tempo terrà per tutta la giornata. Monte Mezza è proprio una bella carta di gara, che ricordavo dai tempi della finale dei Campionati Italiani Middle. Di tutte le prime 13 lanterne, la parte più difficile consiste nel salire lungo il sentiero pieno di fango fino al triangolo di partenza (mi chiedo in che razza di “fanghéo” abbiano messo i piedi gli ultimi). E’ veramente un bel bosco, amichevole, senza pendenze difficili e con una ampia visibilità… c’è da chiedersi a che velocità potrebbe correrci uno come Wingstedt! Incontro al punto 3 il coach Cristian Bellotto che sta posando i punti, poi nessun problema sui rimbalzi fino al punto 9, ed al punto 10 incontro il Campione del Mondo di trail-O Michele Cera che sta controllando il percorso. Arriviamo insieme alla 11, in una zona nella quale il numero di sassi cartografati è decisamente inferiore a quelli presenti sul terreno, e ci separiamo definitivamente sulla strada verso la 13.

O sono andato un po’ troppo allegro nella prima parte di gara, oppure sono veramente scarso; spendo infatti le ultime energie per risalire le curve di livello fino alla 14 (il sasso si vede benissimo da fondo valle, ma li mortacci non ho la ragnatela dell’Uomo Ragno per tirare verso di me la lanterna…) ed alla 15 non ne ho più. E qui comincia la parte difficile della giornata, perché la 16 e la 17 sono posizionate ad una quota molto più alta, e soprattutto si trovano in una zona nella quale felci ed erbacce sono alte tanto quanto il paletto: tocca quindi come al solito a me, e poi anche ai primi a partire, aprire la strada a tutti quanti gli altri che troveranno sicuramente delle autentiche autostrade per arrivare al punto. Percorro quindi tutto il sentiero che porta fuori carta arrivo al punto 18, poi cammino penosamente nell’erba alta ed invadente fino alla radice che sta tra la 17 e la 16… scendo alla 16 (per fortuna i miei piedi trovano la canaletta prima ancora che io la veda); a questo punto posso risalire ancora più penosamente alla 17 (chissà perché l’immagine che mi viene sempre in mente è quella di Sean Connery ne “La collina del disonore”), ritorno alla 18 trovando per fortuna le stesse tracce che avevo fatto all’andata e poi è solo discesa.

Segue poi una giornata al microfono durante la quale il momento clou è quello nel quale devo annunciare della “scomparsa” del piccolo Marek, 7 anni, arrivato dalla Repubblica Ceca: quando invito qualche partecipante di quella nazione a venire al microfono per lanciare un appello in lingua autoctona (sono già intervenuti anche i vigili del fuoco e sono tutti un po’ agitati…) la risposta che ricevo è di questo tenore: “Si è perso un bambino? Ma chi è… per caso è Marek? Lasciatelo fuori per carità e non cercatelo più, che forse è la volta buona che ce ne liberiamo!!! Quello ormai lo conosce tutta quanta la Repubblica Ceca e non solo!”. Diciamo che mi segno nome e cognome del bambino, e aspetto di leggerne il nome in cronaca.

Il terzo giorno ha un connotato decisamente turistico, perché la 5 giorni arriva sulla spiaggia del lago di Levico Terme per la sprint. Io arrivo a Levico un po’ con il fiatone, ma anche con il morale sotto i tacchi dopo aver preso parte alla gara a staffetta di Trail-O del mattino, nella quale riesco nell’impresa di far naufragare una squadra che oltre a me schiera ben due campioni europei in carica (potrei anche dilungarmi a parlare dell’atteggiamento poco sportivo di alcuni partecipanti, ma ormai non mi meraviglio più di niente…)

(il Gabibbo…)

I ragazzi dell’organizzazione Crea Rossa mi consentono di partire molto presto (umidità fuori scala) ,a per fortuna posso archiviare in fretta la mia pratica, la mia gara sprint, prima che i pensieri e la delusione per la gara del mattino possano avere il sopravvento.

Levico è ovviamente ben nota ai più per il finale “filante” lungo il torrentello fino alla spiaggia, spiaggia che si anima nel corso del pomeriggio con tanti orientisti arrivati a gareggiare (forse finalmente) in una vera località turistica. Ci sono parecchi nordici che non perdono occasione per fare il bagno, o per stendere le loro stuoie sul prato per prendere il sole. I più sfortunati sono quelli dell’MS Parma (i finlandesi che nel nome del team ricordano quel delizioso insetto che dalle nostre parti prende il nome di “tafano”) che si trovano proprio nel cono degli altoparlanti che partono sparando a bomba la musica dei Black Eyed Peas e che si allontanano decisamente infastiditi e contrariati nei confronti dello speaker.

Per la quarta e la quinta tappa si sale fino a Monte Agaro, sugli ultimi tornanti del Passo Brocon che volge verso la Valle del Vanoi dove abbiamo disputato quest’anno i Campionati Italiani Sprint e Middle. E’ una località del tutto nuova per me, e forse anche per gli ultimi 20 anni di orienteering italiano; una valle sicuramente suggestiva per paesaggi e quasi totale assenza di antropizzazione, e l’organizzazione è aiutata da un tempo che si manterrà clemente per i due giorni di gara che dobbiamo fare in questa zona abbastanza disabitata e quasi desolata del Trentino. Sicuramente è il momento nel quale anche noi andiamo a “mettere il culo sulla possibile pedata”: se avesse piovuto a Monte Agaro non so come ce la saremmo cavata con il piano parcheggi e la possibilità di dare riparo a centinaia di orientisti, ma la fortuna ci aiuta e tutto  bene quel che finirà bene.

Quella che per gli altri Xcentonovantanove orientisti in gara è il giorno della quarta tappa, per me è il giorno della quinta e viceversa: la quinta tappa è troppo lunga per essere corsa in solitaria il mattino del’ultimo giorno all’alba, e quindi (dato che tutti i punti sono già marcati sul terreno) decido di approfittare del giorno di riposo per correre la quinta tappa, sempre dopo la consueta “avventura” nel trail-O.

Devo ammettere che il “diavolo” è più brutto a vederlo che a percorrerlo. Quella che dal divano di casa sembrerà sicuramente una follia, dal vivo si rivela solo una mezza follia… il trucco consiste nell’andare piano, con calma, mantenendo sempre il dito sulla posizione in carta e senza lasciarsi prendere dai facili entusiasmo del tipo “la lanterna è sicuramente là!”. E io sono campione nel mondo di “andare con calma”… Una volta scalata per la via più breve la pista da sci che mi porta in partenza, l’inizio è abbastanza tranquillo: anche alla lanterna 3 che sembrava posizionata oltre le Colonne d’Ercole ci si arriva percorrendo tutta la mulattiera etrusca e poi andando a cercare l’ultima propaggine di bosco. Decisamente impegnativa la discesa verso il punto 4, perché il bosco bianco è in realtà un autentico merdaio di felci, avvallamenti, buche piene di vegetazione ed un terreno che più irregolare non si può. Mi fermo alla 5 a prendere il primo carbogel prima di affrontare il punto 6 (che non è sbagliabile) ed il 7 (che ovviamente lo è ancora meno),  prima di prendere una “stringa” terribile scontrandomi con il recinto elettrificato tra la 7 e la 8.

Secondo carbogel al punto 10, salvifico sia perché sto per affrontare nell’ora più calda della giornata la salita al punto 11 (ma so o immagino, sbagliando, che è l’ultima asperità di giornata), sia perché il punto 12 è introvabile! Dal divano sembra facile, dal bosco è un casino! Per raccapezzarmi, dopo aver girato a vuoro per qualche minuto, devo tornare ad ovest fino a vedere di nuovo le rocce che sovrastano la mulattiera… Non mi piace, ma quando mai mi può piacere?, la discesa che dalla 14 porta alla 15, una discesa che mi mette paura solo a guardare giù (mannaggia a me che mi ostino a correre con le scarpe da jogging lisce…), e a quel punto non mi resta altro da fare se non risalire la fila delle ultime lanterne verso l’arrivo.

Se non fosse che nella zona della 16 incontro alcuni concorrenti della gara di trail-O che stanno facendo l’esame post-mortem alle piazzole di gara e si chiedono chi io sia e perché ci sia un matto che sta gareggiando alle due del pomeriggio; cerco di darmi un contegno e di assumere l’andatura di un vero atleta (ma quando mai?!?!?!?), ma è evidente che la zona non è proprio adatta per alimentare le mie personali ambizioni di sembrare figo (remember Lago di Calaita)… cerco di dileguarmi alla loro vista verso la 17 scendendo nel bosco, ma quel bosco bianco e quel dolce avvallamento che compare in cartina è nella realtà un oceano terrificante di felci alte così, quella classica situazione dove il primo che passa è un eroe. E il primo che passa sono io, cazzarola!

Impossibile sperare di restare in piedi a lungo nonostante tutte le mie speranze e le mie preghiere… infatti non ho nemmeno il tempo di pensarlo che sto facendo un volo olimpionico tra le felci e nelle ortiche! Mentre rotolo senza possibilità di fermarmi, disegnando una autostrada tra le ortiche, vedo gli occhiali che partono in una direzione, la testa che va dall’altra ed un masso che viene proprio incontro ad essa: in un nanosecondo mi chiudo come una testuggine, mi viene in mente nel successivo nanosecondo il ricordo di Tavernaro che si schianta contro un masso in preparazione dei Mondiali e viene portato via in elicottero, ma alla fine finisce tutto bene e ritrovo pure gli occhiali (andrà bene anche alla farmacia di Pieve Tesino, che svaligerò acquistandone tutta la scorta di Polaramina per dare sollievo alla mia pelle). E non è ancora finita… perché avrò ancora occasione di vomitare le ultime energie sulla tratta 20-21, su quei 40 metri di dislivello, messi lì gratis nel finale.

Avendo messo in saccoccia con due giorni di anticipo la quinta tappa, posso concentrami il giorno successivo a correre la quarta tappa sulla media distanza. Come avevano anticipato sia Antonio Loss che Fabio Hueller, i tracciatori, avrei potuto giovarmi dell’esperienza del giorno prima al primo impatto con Monte Agaro per correrci nel secondo giorno consecutivo. In effetti fino al quinto punto mi sembra di essere a casa mia: la roccetta dove c’è il punto 4 la avevo identificata durante le mie peregrinazioni attorno al 12esimo punto del giorno prima, e dal punto 5 ci ero addirittura già passato e avevo visto già il paletto. Tuttavia le energie cominciano ad essere al lumicino: il tratto di bosco dopo la linea elettrica per arrivare al sesto punto è ancora uno di quelli del tipo “impossibile restare in piedi”. La scalata al punto 7 è impietosa anche se, grazie a Dio, almeno si tratta dello stesso punto che avevo già trovato il giorno prima…

Raduno le penultime energie per andare alla ricerca del punto 8, che mi sembra l’ultima importante insidia orientistica, dove Marco Bezzi e Carlo Cristellon stanno “lavorando” (e si stanno cristonando l’un l’altro) per posare le stazioni e controllare i punti; infine mi metto di buzzo buono per l’ultima salita davvero penosa della 5 giorni, quella per arrivare alla stessa quota del punto 9 utilizzando il sentiero. Il parziale di circa 13 minuti, con molte soste, per andare dal punto 9 al punto 10 mi mette direttamente nell categoria “bradipi in decomposizione che farebbero meglio a giocare a whist”. Da lì è soltanto fiatone, allucinazioni che spero siano dovute solo all’altitudine (e non avevo ancora fatto la 6 giorni di Svizzera!), pietre ed ulteriori scivolate nell’erica alta per scendere al dodicesimo punto. Con le scarpette da corsa a suola liscia, stabilisco che è meglio mettere il culone per terra nella discesa al punto 14 (che era uno dei punti a tempo della gara di Trail-O) e “remare” con i piedi per arrivare fino al punto 16.

Dopodiché posso dichiarare chiusa anche questa avventura… (anche se mancherebbero ancora il commento al microfono della gara che ho appena concluso, l’ultima gara di trail-O a Cinte Tesino – andata anche questa in modo pessimo! – ed il commento dell’ultima gara). Il premio per la mia caparbietà? Questo:
Perché dopo 5 giorni di commento dietro al microfono, ho scoperto che c’è un ragazzino norvegese - che un giorno sarà un campione - che andrà a raccontare ai compagni di classe di uno speaker italiano che diceva che il suo Halden Skiklubb è il Real Madrid dell’orienteering; e raccontava al microfono che se l’Halden SK è il Real Madrid dell’orienteering, allora suo papà Emil Wingstedt non può che essere il Cristiano Ronaldo dell’orienteering… Sempre per la serie “Shakespeare mi fa una pippa”, e chissà quante altre ne devo aver raccontate durante questa 5 giorni d’Italia 2016…!

Tuesday, August 02, 2016

SOW – Every day is not the hardest day…

(che sia chiaro per tutti: “SOW” non significa una brutta parola inglese per indicare una ragazza non particolarmente attraente; sta per “Swiss Orienteering Week”… chissà se gli svizzeri sono consapevoli di questa strana associazione)
 
Sono passati 19 anni dalla mia prima, ed ultima, partecipazione alla 6 giorni di Svizzera. Dal 1997 ad oggi sono trascorsi 19 anni durante i quali il mio sport è cambiato profondamente! Una volta usavamo ancora il cartellino cartaceo (che puntualmente, in quella fredda e bagnata estate del ’97, persi durante la sesta ed ultima gara a caccia…), le carte di gara erano precise ma anche abbastanza generalizzate senza tutto il diluvio di dettagli che possono essere proposti oggi; le divise di gara erano molto più spartane, una accozzaglia di colori messi assieme al solo scopo di sembrare variopinti… tanto “Orienteering is not a fashion event!” recitava qualcuno; a giudicare dagli abbinamenti cromatici e dalla aerodinamicità, anche in questo campo l’orienteering ha fatto passi da gigante: oggi il 99% degli atleti gareggia con i pantaloni attillati sui polpacci e niente affatto svolazzanti (come invece continuo a fare io) per far vedere muscoli ben torniti e forme aggraziate (ed io non ho né gli uni né le altre da mostrare, quindi mi tengo i miei bragoni belli larghi). Nell’estate 1997 il viaggio verso Thun, e poi verso Friburgo, aveva avuto come massima base informativa il mio atlante del Touring Club Italiano stampato nell’anno del terremoto in Friuli…
(ed esiste ancora!)
 
… ed i risultati si videro purtroppo immediatamente, ancora prima di passare il confine; ora nell’anno di grazia 2016 ci affidiamo alle coordinate ed a Google Maps per raggiungere i ritrovi, anche se non è affatto detto che la cosa funzioni meglio. Quel bel tipo di Kornell Ulrich, che nel 1997 vinse in HElite la 6 giorni di Svizzera, l’ho ritrovato in cima alle classifiche anche nel 2016: ovviamente in un’altra categoria (la H50), ma continua a vincere come se per lui gli anni non fossero passati. Un altro per il quale gli anni non passano mai è il vecchio lupo Dieter Wolf, che continua imperterrito a correre (si… a correre!) in HElite anche se ormai gli anni dovrebbero essere ben superiori ai 60, che continua ad arrivare al traguardo come se niente fosse; così ogni volta che, seguendo il live di un campionato mondiale di orienteering a staffetta, vedo la Nuova Zelanda che naviga sempre nel gruppo di testa mi chiedo se anche in questo caso non ci sia lo zampino del vecchio lupo.
 
Cambia tutto per non cambiare nulla. Alla fine a conti fatti io stesso in questi ultimi 19 anni sarò invecchiato di qualche mese. Quello che di sicuro in 19 anni non è cambiato è la predilezione, per le organizzazione elvetiche, ed il gusto per utilizzare le soluzioni logistiche più complicate e che dalle nostre parti (se dessero origine a disguidi) darebbero lo spunto a tanti e tali casini da far parlare e polemizzare gli orientisti nostrani per decenni, scatenando ostracismi e litigi verso questo o quel territorio… Intendiamoci: i rossocrociati sono benissimo in grado di organizzare le loro gare come vogliono senza ascoltare i miei suggerimenti; se continuano a fare numeri come i 4000 iscritti della seconda multi-days consecutiva di metà luglio (perché la prima è stata quella in corrispondenza con i Mondiali Juniores disputati la settimana prima, sempre in Engadina), se continuano ad avere un seguito sempre maggiore di praticanti di tutte le età, e se il loro livello di punta continua a sfornare atleti in gradi di vincere 7 medaglie d’oro su 8 ai suddetti Mondiali, allora è possibile che le cose debbano proprio essere fatte come dicono loro. Alle mie latitudini, alcune variazioni sul tema dell’organizzazione logistica cadono sotto la voce “mettere il culo sulla pedata”, ma finché funziona…
La mia Swiss O Week nasce all’improvviso in un fine settimana di maggio, senza grandi prospettive, quando i compagni di squadra del GK si pronunciano “si va in Engadina!”. In fondo sono solo 3 ore di macchina (se va male) da Milano e senza dover dipendere dai bollini autostradali. L’Engadina è quella valle che attraversiamo tornando da Langenfeld, ed ogni volta che l’abbiamo fatto i nostri nasi si sono incollati ai vetri dell’auto prima di un diluvio di “chissà come sarebbe bello correre qui… e qui… e poi ancora lì…”. Così questa volta il GOK prende la balla al balzo, getta il cuore oltre l’ostacolo, getta il portafoglio ed i costi approssimativi oltre la decenza (4,5 euro per un chilo di pasta Barilla alla Coop???) ed è già l’ultimo giorno utile per le iscrizioni ed occorre scegliere la categoria da affrontare. E’ vacanza, è Svizzera, 6 giorni sono impegnativi. I filmati che Paolo Consoli ci ha fatto vedere nel corso degli anni, quelli relativi alle edizioni precedenti, parlano di gare tracciate senza risparmio di fatica per nessuno, su terreni infami e scoscesi a cui non sono tanto abituato. Vacanza + Svizzera + 6 giorni di gare mi fanno dunque propendere per una prudenziale H45K, la versione corta della categoria over-45. Corta ma orientisticamente tecnica, così penso… e in fondo in H45K si è iscritto anche il mio buon amico Espen Nilsen (Stavanger OK) che incrocerò dopo tanti anni!
 
Domenica 17 luglio si comincia a S-Chanf, che sarebbe anche il posto più lontano rispetto alla nostra cuccia di Maloggia. La prima cosa da fare quando si va ad una gara in Svizzera è capire come si arriva al ritrovo, e quali sono i tempi per poi arrivare alla partenza: non è raro trovare quelle descrizioni, che per noi sono agghiaccianti, del tipo “parcheggi a 20 minuti dal ritrovo, poi per arrivare in partenza ci sono 20 minuti di furgone e poi 30 minuti a piedi…” e alla fine magari l’arrivo è nel bosco a 30 minuti da dove hai lasciato (al ritrovo) i vestiti. Ma si vede che si diventa forti anche così. A proposito… nel parterre della gara girava un volantino di una due giorni in Svizzera nel quale l’informazione alla voce “come arrivare” faceva esplicito riferimento all’autostop! E basta. Come dicevo sopra: agghiacciante.
Così la prima cosa che studiamo PLab, Bibi ed io è come si arriva al ritrovo. E leggiamo che ci sono tre parcheggi: il primo (con le sue belle coordinate) si trova nei pressi del ritrovo; l’organizzazione scrive che quando il primo è pieno, si comincia a riempire il secondo che sta a 10 minuti di navetta. Se occorre, c’è un terzo parcheggio a 30 minuti di navetta… Poiché già di mio lavoro all’Ufficio Complicazioni Affari Semplici (e poi sono pessimista, polemico e negativo per natura) mi chiedo, e ci chiediamo: “E se ad un certo momento scoprono che il parcheggio è pieno e ci dicono di tornare indietro… come ci organizziamo con i tempi e gli spostamenti?”. Poiché non abbiamo una soluzione chiara (e forse siamo tutti pessimisti) decidiamo di partire all’alba per essere sicuri di guadagnarci un posto nel parcheggio comodo. Evidentemente la mia laurea in fisica non basta per capire le indicazioni elvetiche, perché al parcheggio ci arriviamo, eh?, ma non senza prima essere entrati con la macchina sul campo gara (ed essere passati ad un centimetro dalla lanterna con codice 90, ed esserci fermati solo quando abbiamo visto le fettucce del corridoio di arrivo…) perché la strada che indica Google Maps con le coordinate non  è quella che gli organizzatori ci vogliono far fare per arrivare al parcheggio (diciamo che questo però non è colpa loro!).
 
Alla fine di tutta questa storia con i parcheggi, la mia gara è questa:
 
Comincio a capire almeno un paio di cose. Uno: la mia categoria, oltre ad essere corta, è a tratti anche molto facile (da metà in poi siamo a livello di tapasciata podistica…). Due: ma è così che appaiono i boschi dopo il passaggio di così tante persone???
 
Si vede bene la traccia – e non è un sentiero! – che porta al primo punto? Sarà che per motivi di speakeraggio non sono abituato ad avere né affollamento nel bosco, né gente che mi chiede quasi ad ogni lanterna dove siamo, né tracce da seguire… ma così è proprio uno sport diverso!
 
(primo punto della prima tappa. A sinistra a fondovalle la zona di arrivo – immagine fornita dalla headcam sulla mia testa…)
 
Dal momento che l’approccio con i parcheggi della prima tappa non è stato così positivo, decidiamo di studiare meglio come arrivare alla seconda tappa che si svolge a God da Staz, una carta sulla collina che separa S. Moritz Bad (ed il suo bellissimo lago) da Celerina. Siamo in piena zona glamour, fashion e modaiola di S.Moritz, quindi dobbiamo cercare di comportarci bene! Le indicazioni dicono che, a parte i soliti pullman navetta (che, mi dicono i meglio informati, per la prima tappa erano sovraffollati oltre ogni limite di decenza), chi arriva in macchina da Maloggia può trovare posti auto – ma pochi! – ad una delle funivie di S. Moritz e poi farsi 3 o 4 chilometri a piedi per arrivare in zona ritrovo. In alternativa bisogna andare oltre S.Moritz, a Celerina, e “scollinare” a piedi per arrivare al ritrovo. Optiamo per la prima soluzione e ci alziamo di nuovo all’alba per essere certi di conquistare, riuscendoci, uno dei pochi posti auto a disposizione. Dopodiché ci mettiamo gli zaini in spalla e cominciamo a camminare.
La strada per arrivare al ritrovo, almeno a giudicare dal francobollo di cartina mostrato nelle istruzioni,  sembra quella sempre diritta che parte dal centro gare e costeggia il lago; in una gara con 4.000 persone non si fa fatica a distinguere la fila degli orientisti che procede verso la zona gara: davanti a tutti, ovviamente, due ragazzi con i colori del Kalevan Rasti (ripeto: ovviamente!), poi le tute verdi gialle e nere dell’NTNUI norvegese, poi ci siamo noi, più dietro il gruppo del Lokomotiva Plzen e poi arrivano degli austriaci. Procediamo diritti attraversando tutta S.Moritz Bad finché le case finiscono e ci troviamo davanti il bosco: finora di “balise” o di fettucce non ne abbiamo trovato nemmeno una e ci fermiamo a pensare che Claudio Valer e la sua collaudata truppa di balisatori farebbe faville da queste parti. Seppur in assenza di qualunque altra segnalazione, i ragazzi del Kalevan Rasti si infilano dritti nel bosco e, visto che da almeno 12 anni c’è un pennellone alto e con il pizzetto ed i colori del Kalevan Rasti che insegna orienteering a tutto il globo, tutti andiamo dietro a loro! Il lago rimane in basso a sinistra, la direzione è quella giusta che punta verso la voce dello speaker… e presto cominciano a comparire le prime lanterne: siamo di nuovo finiti dritti dritti in mezzo al campo gara! In particolare, nella zona di bosco che vedrà impegnati i percorsi dei più giovani e dei supermaster…
 
Dopo tutto questo, la gara è questa qua…
 
… e anche questa volta è consentito a chi commenta dal divano dire che non è proprio una gara tecnicamente “demanding”, anzi! Mi tocca ammettere che Paolo Consoli, che mi fa vedere la sua gara con partenza da Celerina, si deve essere divertito molto di più; l’unica difficoltà della mia gara, per arrivare al primo punto, è avanzare nella erica spessa e lussureggiante presente in quella parte di bosco :-( … e poi ci sono sempre le solite tracce!)
Dopodiché ci mettiamo gli zaini in spalla e ricominciamo a macinare i chilometri che ci separano dal parcheggio... Dopo due tappe che definire “blande” è dire poco, possiamo concentrarci sulla terza tappa che, invece, minaccia di essere decisamente oltre la mia portata. Si sale infatti in quota oltre i 2.000 metri di Diavolezza, lungo la strada che porta al Passo Bernina, per la classica gara sul terreo aperto e brullo che si sviluppa oltre la linea degli ultimi alberi. Aperto, brullo e molto, ma molto, ma molto pietroso…
Per i parcheggi non c’è problema, in quanto abbiamo a disposizione tutta l’area a valle della funivia di Diavolezza. Per la gara invece di problemi ce ne sono eccome!
 
 
 
Innanzitutto l’altitudine, che mi toglie qualsiasi velleità di provare qualche passo di corsa già al primo punto di controllo; poi il fondo davvero insidioso del terreno, che per tutta la prima parte di gara (ma anche nella seconda) prevede una abbuffata di pietre, pietre ed ancora pietre. Io sono capace di fare una sola cosa alla volta: o mi oriento, o cerco di salvare la pelle! A Diavolezza, il mio cervello resta focalizzato sulla seconda opzione. Durante la gara colgo un paio di situazioni che coinvolgono un ragazzo dell’ASCO Lugano ed una signora dell’O92 Magadino nelle quali all’urlo di dolore fa seguito l’immagine dell’atleta che rimane a terra sulle pietre, ma in entrambi i casi vedo la scena piuttosto da lontano e la cosa buona è che in entrambi i casi i malcapitati vengono subito soccorsi dagli atleti che si trovano nelle immediate vicinanze. Giusto per dare una idea, nella over-45 dove gareggiano i vari Eidsmo, Ivarsson, Janne Salmi e compagnia cantante (tutta gente che vinceva le medaglie mondiali quando i mondiali erano ogni due anni e c’erano solo due gare…), a Diavolezza vince Stefano Maddalena! Lo dico perché così i pochi lettori che sono arrivati fin qui si possono rendere conto del fatto che quando lo speaker dice che “Maddalena è il più forte orientista che abbia mai corso dalle nostre parti” non fa solo un omaggio alla sua grandezza orientistica (e alle sue doti di ballerino dei terreni impestati che più impestati non si può) ma non va nemmeno troppo lontano dal vero.
 
Segue il giorno di riposo, e per la quarta tappa corriamo in casa, proprio a Maloggia, con arrivo nella zona della diga dell’Orden. Anzi: la nostra partenza corre proprio lungo tutto il ballatoio della diga dell’Orden: molto suggestivo! Meno suggestivo il fatto che, sorprendentemente visto che siamo in Svizzera e molto sorprendentemente visto che siamo reduci dalle infami pietraie di Diavolezza, alla partenza gli addetti ci ammoniscono in inglese “fate attenzione: ci sono molti più sassi oggi di quanti ne avete trovati nella terza tappa”. Come può essere possibile?
E’ possibile. Infatti stavolta NON è consentito a nessuno dire dal divano “bastava fare così e cosà”… Il fondo del terreno è costituito per lo più da sassi, che però sono nascosti da cespugli, erica, rododentri, erba alta. Tra i sassi si annidano buche e crepacci nei quali alcuni concorrenti letteralmente a volta scompaiono e li si deve tirare fuori prendendoli da sotto le ascelle (io lo faccio, intendo il tirare fuori una tizia da un buco tra le rocce). PLab addirittura si avventura sul ponte tibetano (!) che conduce ad uno dei primi punti… laddove io opterò per una scelta in costa su terreno infame e il ponte tibetano lo vedrò solo nel filmino di PLab.
 
La mia gara è, per una volta, decente. Mi piacciono i punti vicini tra loro e fino al sesto punto faccio del mio meglio per stare almeno nel secondo gruppetto di atleti in classifica. Poi per la tratta lunga mi si apre il dilemma: scendere lungo i prati ed attaccare il punto da sotto? Andare in curva di livello incontro ad un disastro di sassi e vegetazione fitta? O risalire mille curve di livello fino al sentiero che mi consentirebbe di arrivare facile facile al punto? Non so cosa abbiano fatto gli altri… io scelgo la terza opzione ma la risalita è penosa e pietosa, da far venire il vomito per la fatica appena arrivo in cima, e quando tocca a me finire lungo e disteso nella buca non c’è nessuno che mi dia una mano a tirarmene fuori. Molti altri probabilmente fanno meglio di me tirando dritto sulla curva di livello e sfruttando (forse) qualche traccia, con il risultato che in questa sola tratta perdo qualche decina di posizioni in classifica e mi faccio superare anche da Espen.
Dopo tutto questo, il fatto di avere la gara vicino alla nostra cuccia ci risparmia un’altra possibile apocalisse logistica (Maloggia era dichiarata come località priva di parcheggi e quindi raggiungibile solo via navetta); abbiamo quindi il tempo di preparare la vera Odissea della quinta tappa, che prevede la seconda gara in quota a Corvatsch. Durante tutta la quarta tappa lo speaker ha esortato gli atleti a non presentarsi alla partenza della funivia con un anticipo superiore alle due ore rispetto al proprio orario di partenza; la procedura prevede infatti di lasciare l’auto a Sils Maria (posto delizioso!), arrivare alla funivia per Corvatsch, salire in quota, andare all’arrivo che dista una ventina di minuti per lasciare qualche indumento, e poi salire per un’altra mezz’ora verso la partenza. Insomma… se tutto va bene, è una figata! Ma se qualcosa comincia ad andare storto, siamo in piena area “culo sulla pedata”. Il nostro gruppo ha orari di partenza attorno alle 13.30, a fondo griglia, e quindi arriviamo alla funivia verso le 11.25. La situazione della coda epocale per salire sulla funivia è ben immortalata dalla foto di Roberto Sanna
 
(e ce ne sono altrettanti davanti)
Trattandosi di funivia, la gente sale “a pacchetti”: la coda avanza, poi si ferma il tempo necessario a far scendere la cabina, far uscire chi ha già finito la gara, eccetera. La cosa positiva è che si tratta di una coda “svizzera”, nella quale tutti rispettano molto bene il loro ordine di posto. La cosa negativa è che il nostro gruppetto è sempre in fondo alla coda… C’è infatti un ragazzo dell’organizzazione, dotato di microfono e di uno spirito da martire superiore a quello di tutti gli altri, che ogni tanto richiama i ritardatari: tutti coloro che hanno un orario di partenza attorno alle 12.30 vadano alla corsia preferenziale!”… e SBADABEM! … tutti quelli che avevamo dietro di noi ci superano. Poi dieci minuti dopo (siamo attorno alle 11.45): “tutti quelli che hanno un orario di partenza attorno alle 13.00 vadano alla corsia preferenziale!”… e SBADABEM!... stessa cosa. Noi siamo sempre in fondo alla fila, siamo in coda insieme a tutti quanti i tapini che hanno partenza a fondo griglia e, a quel punto, pensiamo che tra un quarto d’ora il martire chiamerà alla corsia preferenziale tutti quelli che partono attorno alle 13.30… E CIOE’ TUTTI QUELLI RIMASTI in coda visto che le partenze alle 14 finiscono.
 
A quel punto anche gli svizzeri più sgamati cominciano a pensare che, a fondo griglia, qualcosa non andrà per il verso giusto con gli orari di partenza; ma mentre cominciamo a lambiccarci il cervello per immaginare cosa si inventeranno per farci fare la gara (magari una partenza con il tempo preso in modalità punching start?) il martire rimette mano al microfono; mentre stiamo per raccattare le nostre cose e fiondarci alla corsia preferenziale, ci viene dato invece l’annuncio che la gara è sospesa per maltempo in quota. Niente gara, niente quinta tappa.
Considerazioni sparse (e senza pretesa di essere nel giusto):
  • la possibilità di annullamento di una tappa per cause non dipendenti dagli organizzatori era citata nel libretto della gara, quindi possiamo solo recriminare per un costo pro tappa che, con l’annullamento di questa, è diventato ancora più esoso; mi chiedo che effetto farebbe questa cosa in Italia…
  • il meteo svizzero di solito ci azzecca, con orari puntuali come la cartella delle tasse: pensare ad un “piano B” e scambiare tra loro quinta e sesta tappa, visto che il sesto giorno correremo ancora a Sils Maria, con ritrovo nello stesso posto, ma nella parte bassa della carta?
  • O pensare addirittura ad un “piano C”, ovvero posizionare tutta la quinta gara in un posto vicino, fosse anche stata solo una sprint nel (ripeto: delizioso) paesino di Sils Maria? (cosa ci hanno chiesto a fare allora a tutti quanti un numero di cellulare per eventuali contatti?).
  • Bene senz’altro il discorso sicurezza: il sito SOLV.ch segnalerà la sera stessa come si fosse riunito urgentemente il “comitato di crisi” per giungere a quella decisione. Però che smacco!, e soprattutto: quando devi muovere 4.000 persone, forse non è il caso di mettere in campo logistiche così complesse ed estreme (navette, funivie, spostamenti a piedi…) per far apprezzare una 6 giorni che, per noi, resta purtroppo legata a “quella volta che non ci hanno fatto salire in funivia”. Altrimenti resta solo il commento, letto su facebook, che gli organizzatori si sono salvati da una figuraccia (far partire gli atleti con il punching start) solo grazie al maltempo…
Con lo spirito decisamente polemico e negativo si va quindi alla sesta tappa: ultima della manifestazione, si deve prima chiudere casa, riconsegnare le chiavi e ritornare sul luogo del misfatto. Il meteo è piovoso e i nostri orari di partenza sono tutti prima delle 9 del mattino (cosa che ci consentirà di essere a Milano in tempi rapidi).


Partenza in piedi e gara tutto sommato nemmeno tanto impegnativa (tutti quelli sul divano possono scatenarsi…). Molto bello correre a tutta velocità la canaletta nel prato che porta alla lanterna numero XXX, molto meno bella la discesa finale verso l’ultimo punto di controllo prima del rettilineo di arrivo, dove si rischiano per l’ultima volta le caviglie e dove, su un terreno viscidissimo, pianto un volo con salto mortale carpiato che mi fa atterrare (anzi: travolgere!) proprio i due paletti dell’ultima lanterna sotto gli occhi esterrefatti (prima) e in lacrime dalle risate (subito dopo) di due master svizzere che arrivavano dalla curva di livello.

Dopodiché resta solo il ricordo di un’altra 6 5 giorni… da capire ancora se la ricorderò più per i prezzi esorbitanti del costo della vita in Svizzera, per lo smacco della quinta tappa, per il terribile ma in fondo inusuale terreno di Diavolezza o per una scelta di categoria che mi avrebbe potuto vedere più coraggioso. La prossima edizione nel 2019, a Gstaad, posto che mi dicono essere caro quanto Davos o Nyon, sicuramente più di S.Moritz. C’è da mettersi fin d’ora le mani nei capelli!