Se non fosse per quella maledetta passionaccia... (4 di 8)
Riassunto delle puntate precedenti (non frega nulla a nessuno, tranne che a me, ma chi se ne importa?):
un non più giovane blogger, definito dai più "impiegato panzottello (I.P.)" e dai meno "orientista talentuoso", cerca di riscuotersi dalla tristezza e dalla mestizia. Anziché attaccarsi alla bottiglia, egli ripercorre le tappe salienti del suo apprendistato di (mancato) commentatore sportivo; attraverso il racconto degli eventi principali cui I.P. ha assistito in diretta, quelli che gli hanno lasciato più emozione, il fedele (e paziente) lettore arriverà a cogliere IL MOMENTO culminante della passione di I.P. per la logorroica sbracatura cronistica, quella che negli ultimi anni ha rischiato di far echeggiare nei boschi calcati dagli orientisti alcune frasi a vaghi tratti galeazziane a tratti bragagnane.
Per chi si fosse perso le citate puntate precedenti e volesse inserire nel firewall eventuali indesiderati accessi alle mie pagine di pura follia:
• Campionato del Mondo di ciclismo del 1975: http://stegal67.blogspot.it/2012/05/genesi-1.html
• Italia Germania 2-0, 2006: http://stegal67.blogspot.it/2012/05/genesi-2.html
• Finale Campionato del mondo di pallavolo, 1994: http://stegal67.blogspot.it/2012/07/deuteronomio.html
Non ci vuole un saggio di Bruno Snell o l'ennesima opera di Umberto Eco per scoprire che ogni popolo si nutre dei propri eroi, e che gli eroi sono tali perché innanzitutto rispecchiano i due principi base dell'Epica:
1) essere chiamati a lottare contro un nemico più forte
2) cadere nella polvere più spesso di quante volte assurgono sull'altare.
In linguaggio sportivo: l'eroe è impronosticabile, è l'alfiere del "ci ha provato fino in fondo, ma quell’altro\altra era più forte...", talvolta si tratta di un ex campione al tramonto della carriera che riemerge con l'ultimo guizzo prima di rituffarsi nell’oblio. Oppure solo un povero sfigato che arriva dal nulla (e che, a meno di essere un pedatore, probabilmente nel nulla ritornerà…) a vincere in uno sport visibile solo ogni 4 anni.
3) in una metafora: Calimero, al confronto, non era nessuno.
Ignoro quale sia il prototipo dell'Eroe sportivo nelle civiltà asiatiche (Cina e Giappone) o per la vecchia Unione Sovietica. Rilevo che persino i muscolarissimi United States, quelli che non esitano a schierare il Dream Team del basket alle Olimpiadi, alla fine celebrano film come "Miracle" (USA-URSS di Hockey su ghiaccio a Lake Placid: vista in diretta…). O premia con gli Oscar un film tutto sommato pessimo come "Sea Biscuit". Attendo prima o poi un qualche film persino su Harold Jensen (Villanova - Georgetown, finale NCAA 1985... si, l'ho vista in diretta!...). Ogni tanto, però, capita di assistere ad un evento sportivo e di imbattersi in qualcuno talmente superiore, talmente invincibile, talmente incommensurabile da restare lì rapiti da tanta bellezza e da tanta maestà. Questa è la mia storia sull'Onnipotente, su quello che vidi e su ciò che sentii dalla voce di Franco Bragagna.
L'Onnipotente ha un numero di pettorale: 2102. Alto più della media, persino bello (senz'altro più della media!). Superiore, in una delle discipline olimpiche più dure del panorama delle competizioni. E Onnipotente, almeno in una occasione: le Olimpiadi di Pechino del 2008. Il suo nome? Si chiama Alex, e a questo punto nessuno si dovrebbe meravigliare che il cognome sia Schwazer.
Cinquanta chilometri. Quanto possono essere lunghi, realmente, cinquanta chilometri? Quanto è lungo un incubo? Ho provato una volta nella mia vita a correrli tutto di un fiato (in realtà erano 45 km, ma collegati dal dislivello assurdo della Maratona di Tres, in Val di Non, quindi me li faccio passare come 50!). Come dire da Piazzale Loreto, a Milano, fino alla Stazione ferroviaria di Lecco, passando per Merate. Una follia, una delle ultime follie sportive (escludono da questa categorie le ultra-ultra-qualcosa... io parlo delle follie che si perpetuano dall'inizio del secolo scorso, tipo Parigi-Roubaix). L’incubo televisivo comincia che è già notte; il piano di battaglia è quello di pisolare davanti al televisore e lasciarsi cullare dalla danza di quei poveri Cristi che sono i marciatori, gli ultimi negletti di una specie in via di estinzione: quelli senza meeting milionari, senza le pubblicità della carta di credito, senza il miliardo di telespettatori pronti a trattenere il respiro per 10 secondi. Che l’incubo abbia inizio, allora.
Cinquanta chilometri. Devono essere una follia anche per il telecronista, Franco Bragagna. Immagino chili di statistiche pronte all’uso, revivals di antiche glorie, aneddotica di vario genere numero e caso pronta all'uso per colmare i primi 25 chilometri durante i quali (onestamente) potrebbe non succedere un bel nulla di nulla. Ho in mente il poco immortale ma divertente "Cammina, non correre", con un Cary Grant già molto incanutito ma veramente british ed un Jim Hutton (il futuro Ellery Queen) nelle vesti di atleta olimpico della 50 km per il team USA, privo di stanza alle Olimpiadi di Tokyo 1964. A proposito… chi la vinse la 50 km di Tokyo 1964? Proprio lui: Abdon Pamich, italo-istriano di Fiume, vinse l'oro dopo aver lasciato andare in fuga l'inglese Nihill sulla vecchia arteria di Koshu Kaido, dovendosi appartare dietro una siepe per impellenti necessità...
Partenza della gara nello Stadio Olimpico ed io mi preparo all’attesa, con il plaid sulle ginocchia ed un training autogeno per evitare di slogarmi la mascella per gli sbadigli... ehi! Ma che succede! Ma chi è quel pazzo? Quei DUE pazzi? Se avete visto la gara sapete già tutto. Se non l'avete vista, forse ignorate che la gara di Pechino vide un allungo iniziale improvviso, ancora prima del termine della passerella nello stadio: è l’attacco del francese Diniz, peraltro uno dei favoriti. Ma dove pensa di andare al chilometro 0 di una gara di cinquanta chilometri? E perché c'è qualcuno che gli fa dietro? E soprattutto... perché quel qualcuno è Schwazer??? Sono passati 90 minuti circa dalla mezzanotte, ma l'istinto primordiale sarebbe quello di urlare allo schermo televisivo "Dove caxxo vaiiiiii?!?!?!?!".
Vorrei urlare ma non posso: è notte e non posso svegliare tutto il condominio! (diversi sono i casi di "incitamento pomeridiano"... nell'ordine potrei citare: Cipollini a Zolder, Albarello nella 10 km di Lillehammer, Hofer nella sprint mondiale di Chanty-Mansijsk, Pittin a Chaux-Neuve). E poi dalla mia bocca uscirebbero solo insulti: come si può buttare al vento una possibile medaglia con una condotta così scriteriata? I chilometri passano. I due folli ritornano nella pancia del gruppo, che man mano si screma (come usano dire i cronisti navigati…). Nel caldo umido e soffocante di Pechino restano davanti in cinque: un cinese, poi Diniz, poi Denis Nizhegorodov che sarebbe il campione del mondo in carica (e poi è russo e non mollerà mai!) ed infine Jared Tallent: l'australiano “duro più duro di tutti”, abituato alle torride estati australi (e a sop-portarsi in giro per il mondo Claire Woods...). L'epica dovrebbe dire che "i chilometri passano lenti", se non fosse che è la 50 km olimpica di marcia ed il ritmo dei primi supera di gran lunga quello che io potrei tenere in una corsa su strada assai più breve.
Poi, all'improvviso, dopo un'ora e mezza di gara sonnolenta, con la mia testa che continua a pensare a quando Schwazer pagherà quello scatto iniziale, mi accorgo di una cosa; in quel gruppetto di 5 atleti ci sono due cadaveri ambulanti: il cinese ed il francese che probabilmente sanno già di essere alla frutta (Diniz non arriverà mai a quel traguardo). Poi altri due, il russo e Tallent, che non sono alla frutta ma che sono palesemente al gancio del capofila... ed infine un ragazzo in maglietta bianca con inserti azzurri, che marcia con la stessa tranquillità con la quale il sottoscritto attraversa il bosco o con la quale Larry affronterebbe (se ne avrà ancora la possibilità) il MOV di Venezia: guardando qua e là qualche vetrina e godendosi il panorama.
Il ragazzo è proprio Alex Schwazer. Ricordo benissimo una sequenza nella quale Schwazer abbandona la testa della fila e si lascia passare davanti gli altri, guardandoli in viso; vede due cadaveri e due moribondi, poi si specchia nell’asfalto liquefatto e forse vede quello che vedo io: un Onnipotente! Mi faccio forza per non gridare e svegliare tutti, di nuovo (ormai è ultra-notte fonda): lì in Cina, a qualche fuso orario, di distanza sta succedendo qualcosa di incredibile. Da quel punto in poi è solo questione di tempo: una 50 km di marcia non si inventa, non consente alcun tipo di sotterfugio; la benzina può solo calare, inesorabilmente, fino a livello zero. Alle 4.10 del mattino, quando il russo e Tallent non ne possono più e sono KO in piedi, Alex prende e se ne va. Tallent tirerà fuori gli artigli per strappare l’argento. Alex viaggerà verso lo stadio fino a farsi accogliere da un Bragagna commosso, e poi scoppierà in lacrime lui stesso durante la prima intervista a bordo pista.
Quanto mi sarebbe piaciuto essere al posto di Franco Bragagna per commentare l'arrivo di Schwazer nello stadio. Poi... vabbé... la storia verrà quattro anni dopo, e ricoprirà negli occhi di tanti le immagini di Pechino 2008. Ma negli occhi di chi ha assistito a quella gara, o almeno nei miei occhi, resta l'immagine di un atleta italiano che un giorno seppe rendersi Onnipotente. Credo di non aver mai visto prima una simile dimostrazione di superiorità, sicuramente non l'ho mai più vista dopo allora in uno sport di fatica atletica (ancora meno da un atleta italiano). Mi sarebbe piaciuto continuare a vedere e raccontare la storia di Alex Schwazer, ma ora non si può più.
Forse, se quella storia fosse continuata, avrebbe potuto prendere il posto di "quella maledetta passionaccia"...