Stegal67 Blog

Friday, March 28, 2025

Marziani in Basilicata: un racconto di orienteering

"Sono arrivati! Siamo stati invasi da esseri di dimensioni inimmaginabili, venuti da un altro mondo, eppure… erano come noi! Più veloci, più precisi, più agili. Ma chi sono questi strani esseri?" – Orson Welles, La guerra dei mondi (1938)

La ventesima edizione del Mediterranean Open Championship 2025 in Basilicata è stata un’epopea, un incontro ravvicinato del terzo tipo, un invasion movie dove i protagonisti erano gli atleti venuti da 23 nazioni e io… beh, io ero il terrestre che cercava di non cadere in battaglia. Se proprio non ho potuto lottare con loro sullo stesso piano tecnico e della velocità (no, intendiamoci: nella patinoire di Matera, io 59’27” e il doppio reigning world champion Riccardo Rancan 20 minuti e rotti…), ho almeno cercato di tenere salda la barra del microfono, catalizzando su di me attenzioni e sguardi perplessi e di compatimento. Ma loro erano davvero marziani, noi, chiamiamoci pure "terrestri", eravamo quelli che cercavano di sbarazzarsi della polvere lunare e tornare a casa con un sorriso sornione, nonostante il nostro minor livello di competenza. Eppure, la Basilicata, con le sue terre selvagge e inospitali, non era il posto giusto per fare i timidi. Qui, tra i sassi di Matera, le valli di Montalbano e le colline di Pisticci, la sfida era all'ordine del giorno.

Ma lasciatemi raccontare.

Pisticci: Quando la Bussola Ti Dice "Mi Arrendo, finiamola qui ed amici come prima!"

La prima tappa è una sorta di "come ci siamo arrivati fin qui?" Perché, lo voglio mettere bene in chiarobene in chiaro, l’orienteering a Pisticci sembrava la preparazione a un conflitto atomico, ma con una bussola e una mappa. Pisticci, per i non lucani, è un paesino che sembra direttamente uscito dal set di un film western, ma con la polvere che, per qualche motivo, non sembra mai finire. Qui, gli atleti marziani sono sembrati adattarsi alla perfezione al terreno accidentato, mentre io ho cominciato fin da subito a sentire il peso della terra sotto i piedi, come se stessi cercando di camminare sulle sabbie mobili invece che sugli interminabili gradini accidentati e mai regolari del terreno di gara

Nel cuore del tracciato, diciamo dal primo fino al tredicesimo punto di controllo, una sequenza di salite e discese che nascondono trappole in ogni angolo. Il caldo, e parlo del primo caldo del 2025, che entra nelle ossa come il fuoco di una fiamma invisibile, non ha dato tregua. Loro, i "marziani" che sfrecciano a velocità assurda, io sempre inesorabilmente fuori rotta. La bussola? Non una guida, ma un oggetto misterioso che sembrava indicarmi le stelle quando in realtà avevo bisogno di un punto di riferimento più semplice.

“Dove siamo?”, mi chiedevo mentre sbirciavo intorno, convinto di essere arrivato alla fine di una tratta senza accorgermi che ero solo a metà e che ancora qualche angolo mi separava dalla lanterna! Ma alla fine, nonostante le difficoltà, una piccola vittoria terrestre l'ho avuta: sono riuscito ad arrivare al traguardo prima che la banda desse ufficialmente inizio al Mediterranean Open Championship 2025! Non con il miglior tempo, ma con il coraggio di chi sa che, alla fine, l'importante è partecipare. Non importa se cadi, è la forza di rialzarsi che conta, come direbbe Rocky Balboa (o era Thierry Gueorgiou dopo la middle del mondiale in Scozia?)

Rotondella: Tra La "Luce" e la Nebbia

Rotondella, la seconda tappa, è dove ho davvero capito che tra me ed i marziani c’è un universo di orienteering che, alla mia veneranda età, non potrò più colmare. Percorso diviso in due parti: fino alla delayed start, tutto ok. Da lì in poi, il delirio più totale! Ogni tanto dietro ad un angolo compare Jorgen Martensson che mi guarda e scuote la testa, solo che lui ha tutto ben chiaro in mente mentre io prendo il suo scuotimento di testa come un “ma a questo… ma chi glielo fa fare???”. E poi le nebbie improvvise: sono qui, sono là, sono su, sono giù… giro a destra piego a sinistra… il MURO!!!! Ogni passo in bilico tra la certezza e l'incertezza, tra l'avere una visione chiara del percorso e la sensazione di camminare nel buio con le fette di salame sugli occhi. Gli atleti, i veri marziani, sembrano avere il dono di mangiare il salame e non avere effetti negativi nemmeno sulla linea degli addominali, lasciandomi solo con la mia bussola, che ad un certo momento ha cominciato a vivere di vita propria: “lasciami qui, per favore!”. A un certo punto, mentre l'unico suono che sentivo era il battito del mio cuore, ho avuto una visione: i marziani erano lì, davanti a me, in fondo al rettilineo e mi stavano guardando! Gli unici 50 metri che ho fatto di corsa, ugualmente col fiatone! Il bello bellissimo eccezionale della gara di Rotondella è stata l’incertezza: non sapevo mai con esattezza se quello che stava facendo mi stava avvicinando o allontanando dal traguardo. A Rotondella, ho avuto la conferma ancora una volta che l’orienteering è davvero l’unico sport dove non è detto che ogni passo ti avvicini al traguardo (auto-cit.).

Matera: Pioggia, Vento e il Calcio Saponato

E poi arriva la terza e ultima tappa. Matera, il cuore pulsante della Basilicata, con la sua bellezza mozzafiato e un vento da regata che al mattino turbinava tra i vicoli ed i portici solo per prendermi in giro e mettere ancora più in evidenza la mia insipienza atletica. Tutto avrebbe dovuto giocarsi in quest’ultima tappa: te li vedi Rancan e Michiels sfidarsi all’ultimo passo di danza sui gradini e tra i sassi, mentre magari quel guascone di Isac Von Krusenstjerna li sta superando con una scelta di percorso contro-contro-contro intuitiva in teoria ma vincente in pratica? (quando dico “guascone” intendo che è proprio uno a cui affiderei la parte del protagonista in “Una notte da leoni”. Percorso da film di Sergio Leone. Io, come un attore un po’ troppo corpulento per il ruolo, mi ritrovo a lottare contro il vento e le difficoltà del percorso mentre attorno a me i posatori hanno pure loro le belle difficoltà.

Se a Pisticci il terreno era polveroso e arido, e a Rotondella c'era la nebbia, a Matera il terreno era un vero e proprio campo di battaglia. La pioggia, come una pioggia di Mad Max, rendeva il tracciato scivoloso come una partita di calcio saponato. Ogni passo una scommessa. Scarpe che sembrano non fare mai presa sui gradini, vento che mi butta la mappa in faccia e sembra volermela strappare dalle mani. Mi sono dovuto “gasare” da solo per arrivare al traguardo: i marziani hanno la perfezione? Io avrei avuto il cuore. Ogni roccia, ogni curva, ogni lanterna è diventata, una piccola avventura: di qua no, di là no, da questa parte no… possibile che devo arrivare fino a lì per…? Si, da lì posso passare!!!! Ma forse ci sarà una scelta migliore? Chissene! Io devo andare! A Matera, quando raggiungi il traguardo, sotto la pioggia e il vento, sai di aver lottato su un terreno che non avrà mai un vincitore universale. Solo uno scontro tra chi si adatta meglio, chi resiste di più.

E così, arriviamo al gran finale. I marziani, quei fenomenali atleti che avevano solcato le colline lucane come fossero atterrati su Marte, alla fine se ne sono andati. Non ci sono stati fuochi d'artificio, non c’è stato il trionfo finale. La loro perfezione è innegabile, persino nelle pettinature che fanno tanto Jonas Leandersson prima maniera; e poi qualcuno è davvero in grado di distinguere da lontano Alva o Emma Sonesson e distinguerle da una Alma Bjork o da una Wilma Von Krusenstjerna? (Isac no, Isac lo riconosci… vedi arrivare il suo sorriso che porta sempre una parte all'altra del viso prima ancora che i piedi abbiamo messo piede sulla run-in). Hanno una forza sconosciuta e una capacità di far sembrare normali cose che per me sembrano impossibili.

Ma mentre guardavo il cielo sopra Matera, con il vento che finalmente si placava, ho pensato: Forse gli invasori non vinceranno sempre. Forse, alla fine, la forza di volontà farà la differenza. E magari, un giorno, proprio quando penseranno di aver vinto, un terrestri sarà pronto a svelare che la vera vittoria è quella che non si vede, quella che non si misura con il tempo, ma con il cuore. E magari con un cappellino girato dalla parte giusta della testa

Rimane un problema: torneranno. Lo ha detto Wilma in intervista “ho vinto nel 2023 e ho rivinto nel 2025… scrivi pure anche 2026!”. Io devo fare in modo di farmi trovare pronto!




Wednesday, February 26, 2025

Parma e dintorni - to be continued

E quindi, alla fine, eccomi qui. Di nuovo. Passano le stagioni, cambiano i Presidenti ed i Consigli Federali, ed io sono ancora qui. Di nuovo. Come in un film in cui il protagonista si risveglia da un lungo sonno e scopre che il mondo è andato avanti tranquillamente (più tranquillamente?) senza di lui, mi sono ritrovato al via della mia prima gara del 2025. Ma come? Non avevo forse passato gli ultimi mesi a occuparmi di orienteering? Non ero forse stato immerso fino al collo in cartine, percorsi, tracciati, analisi di curve di livello e discussioni interminabili sui migliori punti di controllo? Magari fosse stato quello. In realtà, si ok sto un po' forzando la mano, ma tanto chi è che legge le mie parole? mi è sembrato di passare il tempo tra una assemblea di condominio ed un'altra. Con l'intermezzo di altre (vere) assemblee di condominio a spezzare la solo apparente monotonia delle altre. Potrei condurre un approfondito studio sociologico, ma il risultato lo conosco già: le assemblee, di qualunque esse siano, non fanno altro che aumentare il grado di misantropia che mi accompagna.

Tanto orienteering, quindi, eppure fino a questo momento la mia bussola non aveva ancora danzato tra le mie dita al ritmo di Rebel Yell (magari!) in una vera gara. A meno che non contiamo la mia poco palpabile presenza alla “innominabile” competizione, della quale però non possiamo ancora parlare diffusamente fino a quando i termini della prescrizione non saranno trascorsi. E no, non parlo di farmaci.

Ma torniamo a me, torniamo alla gara, torniamo al momento in cui, finalmente, salutato da un boato della folla plaudente, il mio piede ha toccato il terreno da concorrente. E che bello è stato farlo a Parma e dintorni! "Dintorni", già... il termine mi fa sorridere, perché significa correre nei luoghi che frequento per lavoro, in una strana mescolanza di realtà parallele che, per qualche ora, si sovrappongono perfettamente come le trasparenze di una carta da orienteering.

Colorno. Un nome, una promessa. La partenza è stata subito epica: punto uno, io che mi concentro, attraverso tutta la carta, arrivo al primo controllo e... ecco che arriva il signore indignato! "Ehi, quello è su una proprietà privata! Vi faccio multare!". Mi guardo intorno e per un attimo mi chiedo se non sia finito in una surreale versione lombarda della gara innominabile: "Colorno, provincia di Milano". Ma no, tutto rientra presto, il percorso scorre fluido e liscio come l’olio.

E per il dopo gara? Un bel piatto di fettuccine al sugo di polpette. Patitemi, voi che siete ancora lì a destreggiarvi tra le due tappe nel primo baretto scrauso che capita!

Ma la vera sorpresa arriva nel pomeriggio, a Paradigna. Arrivo al ritrovo e sento una serie di voci eccitate “Testa di caxxo!!! Arbitro di m3rda!! Vaffanc…!!!” che si rincorrono da una tonalità all’altra. Ma sono solo gli illuminati genitori di alcuni bambini impegnati a giocare un torneo di palla calciata. Noi siamo a 20 metri di distanza a cambiarci sulle panche, con la Masi mescolata all’Interflumina shakerata all’OTPGea con una spruzzata di Punto K ed una ciliegina di PPN servita in salsa di “che scelta hai fatto dalla 5 alla 6?”.

La manche a caccia di Paradigna dimostra una volta per tutte una grande verità: aver tracciato mille gare serve ad assicurare un ottimo percorso, ma se ti chiami Christian Greci per creare qualcosa di degno di nota ne bastano due. Christian Greci era solo al suo secondo tracciato (ipse dixit), eppure ha tirato fuori un piccolo gioiello di orienteering, con le persone attorno che ci chiedono, ci incitano, ci fanno i complimenti. E, no, non sto sognando: è successo davvero.

E qui mi permetto un pensiero: Parma, con Montanara e Paradigna, ha tutto per ospitare una Coppa del Mondo Sprint! Avete sentito, palati fini? Qui si potrebbe fare qualcosa di grande, qualcosa di memorabile, qualcosa che renderebbe giustizia alla bellezza e alla complessità del nostro sport.

Ora mi restano le gambe pesanti, il lunedì da dolorante, la gioia di aver ritrovato le lanterne e la sensazione di aver finalmente "rotto il ghiaccio". Ah no, fermi tutti. Questa espressione non posso più usarla. Nel mio possibile potenziale nuovo ruolo, meglio evitare certe metafore: i pattinatori su ghiaccio potrebbero non gradire.

E dunque, avanti così. Il 2025 è iniziato. Ed è solo l'inizio. E io sono ancora qui. Di nuovo.

Monday, February 17, 2025

Extreme Day

Extreme Ways. Così cantava Moby, raccontando di sentieri tortuosi e di scelte che portano lontano. E ieri Milano, la mia Milano, si è rivelata attraverso strade conosciute e altre dimenticate, in una giornata che avrebbe dovuto essere solo una passeggiata e invece si è trasformata in un viaggio dentro il volto meno raccontato della città.

Marco ed io, entrambi nati nel ’67, entrambi quindi alle soglie dei 58 anni, io più vecchio di lui di qualche settimana (segue immutabile ed immancabile scambio di battute sul fatto che per una volta è lui a dovermi inseguire ed immancabile risposta “pensa a quando ti sorpasserò!”) ci concediamo ogni anno questa passeggiata che ci porta in luoghi talvolta solo immaginati, a sondare un pezzo della strada che abbiamo fatto nella nostra vita e a scavare davvero tanto a fondo nel nostro intimo e nei nostri pensieri quotidiani.

Abbiamo iniziato il cammino, perché di puro e semplice cammino questa volta si è trattato, in Via Cavriana. C'era un tempo in cui qui si trovavano gli uffici di UBI Banca, un luogo che per molti attuali colleghi significava lavoro, routine, scelte economiche e burocratiche. Oggi, il paesaggio urbano sembra immobile, cristallizzato in un'era di transizione tra un passato solido e un futuro incerto. Qui il cemento racconta storie di affari e di scrivanie ormai vuote. Via Cavriana mi è sembrato essere un posto pronto per essere tagliato fuori dal mondo, un mondo che lo smart working ha reso meno bisognoso di uffici e palazzi in vetro e acciaio, di servizi e luoghi di ritrovo (fosse solo per una pausa caffè) ma che non ha ancora ridato spazio e possibilità di crescita a chi potrebbe ambire anche solo ad una esistenza dignitosa: a soli 200 metri da noi, Viale Forlanini conduce da una parte dritto al centro della Milano Olimpica, e dall’altra all’aeroporto di Linate, collegando due estremi che non sempre si concedono il lusso di fermarsi a riflettere, ma lasciando ovattato e sullo sfondo il rumore del traffico che fa da sottofondo ininterrotto alle giornate.

Abbandonato il quadrante est della città, dove saremmo tornati a riprendere le nostre auto, siamo approdati vicino a dove Marco ed io abbiamo vissuto per qualche tempo, ancora lontani l’uno dall’altro da compagni di squadra che non si frequentano anche fuori dai boschi. Porta Lodovica rimane un'area che per me ha un significato tutto personale: ieri il negozio di mio papà, il tragitto per andare a scuola o al lavoro. Ieri siamo entrati proprio nei cortili dove ha sede il centro medico dove porto mia madre a fare le visite periodiche per i suoi acciacchi. Che differenza tra una normale giornata della settimana e la domenica: durante i giorni feriali, nei cortili si affacciano persone di ogni età che attendono una visita, aspettano un responso che potrebbe essere felice o che potrebbe portare a nuove ansie. Quante volte ho percorso quelle strade, quante volte ho atteso il termine di un esame medico, tra un bar anonimo e la sedia troppo dura di una sala d'attesa? Ho ripensato a quelle giornate scandite dall'ansia e dalla speranza, a quelle ore trascorse con lo sguardo fisso su un display che annuncia turni e numeri. Milano sa essere crudele e indifferente, ma sa anche accoglierti nel suo abbraccio asettico fatto di ospedali e di medici che, nonostante tutto, lottano ogni giorno. Di domenica, lo scenario è diverso: gli abitanti dei cortili si riappropriano della loro quotidianità, non si aspettano il comparire di facce nuove e bene abbiamo fatto Marco ed io a prendere i nostri passi ed allontanarci verso una nuova meta.

La stazione di San Cristoforo ci ha accolto con il suo paesaggio ferroviario, con binari che sembrano condurre verso il nulla e promesse di riqualificazione che, come sempre, restano sospese nell'aria. Qui dovrebbe sorgere, prima o poi, un nuovo ospedale destinato a sostituire San Paolo e San Carlo. Si dice, si progetta, si discute. Ma intanto la città continua a esistere nei suoi angoli di attesa e precarietà. Ho attraversato la passerella sopraelevata, guardando le rotaie e chiedendomi quanti altri occhi, come i miei, si siano posati su quello scenario, immaginando un futuro che tarda ad arrivare. I muri scrostati, i graffiti che raccontano storie di rabbia e di speranza, il vento che porta con sé il suono distante di un treno in arrivo. Ho respirato profondamente, cercando di assorbire ogni dettaglio, ogni frammento di quella realtà sospesa.

Proseguendo lungo via Bisceglie, ho ripercorso i luoghi che per dodici anni sono stati il mio mondo lavorativo. Certe strade si imprimono nella memoria con la forza dei giorni ripetuti, degli stessi tragitti, degli stessi semafori. Qui un tempo lasciavo l'auto prima di partire per le trasferte, un punto di partenza e di ritorno, una routine che oggi appare quasi estranea, come un capitolo di vita chiuso e archiviato. Ho osservato gli edifici, alcuni ancora familiari, altri cambiati, trasformati da nuove insegne, nuovi colori e nuovi brand. La consapevolezza che dietro alla città tutta luci e rumori e successo e soldi che sono stato abituato a vedere c’è una pletora di situazioni al limite della vivibilità, se non ben oltre la vivibilità, se non addirittura oltre la soglia della vergogna quando ci viene sbattuto in faccia lo scenario nel quale ancora oggi a Milano le persone possono essere costrette a vivere. E’ proprio vero che talvolta basta dare una occhiata al di là del muro per accorgersi che esiste una realtà parallela e molto più complicata e disagevole rispetto a ciò che crediamo di vedere ogni giorno.

Ma ogni viaggio ha una fine, e la mia giornata si è conclusa bruscamente con una telefonata dall'ospedale. L’ennesimo dottore. Mia madre. Codice giallo. Ricovero. Il resto del percorso non lo ricordo in dettaglio, lo ha scritto la preoccupazione, il bisogno di esserci, il pensiero che certi cammini sono irrilevanti rispetto alla fragilità della vita. Marco mi ha riaccompagnato attraverso quella città che non si ferma mai, che non concede pause, che sembra sempre impegnata a inseguire qualcosa di sfuggente.

Di questa giornata resteranno i passi, i luoghi, i pensieri. Resteranno i sussurri percepiti nei racconti frammentati che rimbalzavano da una bocca all'altra. "Nel buio della metropolitana correvano voci incontrollate e pazzesche. Si diceva che alcune squadre erano state fermate dalla polizia e portate in questura…". Se non avessi visto con i miei occhi un verbale di polizia, mi limiterei a riportare questa frase con la voce del mitico Fantozzi.

Restano le strade di una città che muta, che si nasconde dietro la facciata scintillante, che tra una vetrina e un grattacielo custodisce angoli di estrema bellezza e di estrema ingiustizia. Il nome del protagonista ed il suo brand di tre lettere non li troverete in questo racconto. Perché non si sa mai chi legge il blog. Ma se chi legge ha la pazienza di guardare oltre la superficie, di seguire il filo di queste parole come una mappa invisibile, allora forse riuscirà a vedere Milano non solo per ciò che vuole mostrare, ma anche per ciò che cerca di nascondere e che il protagonista cerca da dieci anni di renderci consapevoli.

Tuesday, February 11, 2025

Per una volta, il pre-MOO

E anche quest’anno, il giorno è arrivato. Il giorno del MOO.

Dicono che le tradizioni siano rassicuranti, che diano un senso di continuità, di stabilità. Ma poi capita che anche le tradizioni vengano messe in discussione, che ogni tanto sorga il dubbio: e se fosse l’ultima volta? Se quest’anno fosse quello in cui tutto si interrompe per cause di forza maggiore?

Dieci anni di MOO. Dieci anni in cui abbiamo macinato chilometri, sfidato il freddo, la pioggia, il traffico, la stanchezza, i ritardi dei mezzi pubblici, le interruzioni sulla linea delle metropolitane, i diabolici quesiti di Remo e, ultimamente, anche gli anni che passano inesorabili. Eppure, ancora oggi, non posso fare a meno di chiedermi: cosa sarebbe successo se, in quella prima edizione, Marco non avesse avuto un paio di scarpe di ricambio e non avesse potuto cambiare i mocassini e l'abbigliamento da semplice passeggio con il quale si era presentato al via? Se quel giorno non avesse piovuto, rendendo il tutto ancora più epico? Se il tram su cui erano assiepate le squadre che lottavano con oi per una posizione ai piani alti non si fosse fermato e noi non avessimo deciso, all’ultimo, di correre davanti al tram per una manciata di chilometri?

Queste sliding doors della vita mi tormentano, perché so bene che ogni piccolo dettaglio avrebbe potuto cambiare tutto. Senza quella serie di coincidenze, senza quel gran genio di Remo e la sua capacità di creare un evento che è molto più di una gara di orienteering, oggi non saremmo qui. Forse non saremmo mai diventati “Quelli del ‘67”, i SENATORI del MOO.

Già, i senatori. Un titolo che ci siamo guadagnati con le scarpe infangate, con i polpacci doloranti, con il fiatone dopo l’ennesimo sprint improvvisato per non far scendere la media sotto il livello di guardia. Ma anche un titolo che, forse, l’anno prossimo non avremo più. Per cause di forza maggiore, si dice in questi casi. Per cause che, almeno per quanto mi riguarda, potrebbero anche essere davvero belle (una richiesta per Remo: visto il caos che ci sarà e lo spiegamento di controlli, evita di mettere il MOO in corrispondenza dei Giochi Olimpici... chiedo per un amico!). È presto per dirlo, ma il pensiero rimane lì, scomodo come un sassolino nella scarpa.

E allora mi chiedo: come sarà questo MOO? Sarà l’ennesima avventura da raccontare con il sorriso, oppure avrà il sapore amaro delle cose che si fanno con il dubbio che sia l’ultima volta?

So solo che Milano, quest’anno, mi sembra diversa. Non è più la città che mi accoglieva con le sue luci e il suo fermento, con la sua energia un po’ caotica ma in fondo familiare. Milano mi sembra più cupa, più inquieta, più dannatamente pericolosa.

La gente è sempre più nervosa, pronta a esplodere alla minima scintilla. Una volta si sfogava al bar, discutendo per un rigore non dato o per l’ennesima assemblea di condominio (a proposito: nel 2024 ho partecipato a due distinte riunioni di condominio, in due condomini diversi, ed entrambe hanno visto l'intervento delle forze dell'ordine chiamate per sedare una rissa o per raccogliere le denunce post schiaffi). Oggi, invece, basta una suonata di clacson nel traffico per rischiare di essere trascinati fuori dall’auto e presi a pugni. E allora mi viene da pensare che forse ho meno paura ad andare nei boschi da solo all’alba, tra gli orsi e i sentieri nascosti, che ad attraversare la strada nel mio quartiere con il semaforo verde e sulle strisce. 

Eppure, il MOO è sempre stato un antidoto contro queste inquietudini. Perché ogni anno, lungo la strada, abbiamo trovato qualcosa che ci ha fatto ridere, che ci ha fatto sentire vivi, parte di qualcosa di grande.

Penso ai turisti giapponesi che ci guardavano increduli, che ci fotografavano mentre correvamo con le mappe in mano, convinti forse di aver assistito a qualche bizzarro rito milanese. Penso ai passanti che ci fermavano per chiedere cosa diavolo stessimo facendo, e alla nostra risposta, sempre un po’ vaga e sempre un po’ fiera: "Stiamo facendo il MOO". Penso alle turiste eleganti di Montenapoleone, che ci scrutavano perplesse mentre sfrecciavamo accanto a loro, sudati e ansimanti, immersi nella nostra folle caccia al prossima quesito. Penso a quei momenti in cui tutto sembrava surreale, eppure tutto perfettamente naturale.

E penso a Remo, a "quel gran genio di un mio amico", che ogni anno riesce a sorprenderci con percorsi sempre più folli, sempre più imprevedibili. Sarà un caso che l’anno scorso una delle mappe fosse “Corvetto odia”? Forse no. Forse, in fondo, Remo sa che il MOO è anche questo: un modo per esorcizzare le paure, per attraversare la città con occhi diversi, per riscoprirla anche nei suoi angoli più oscuri.

Chissà cosa succederà domenica. Magari troveremo ancora turisti incuriositi, magari ci ritroveremo a commentare le nuove mode milanesi, o forse ci limiteremo a correre, come sempre, seguendo le indicazioni sulle mappe e cercando di battere il tempo. Spero solo che, nel momento in cui avremo quelle dieci mappe in mano, ogni dubbio, ogni inquietudine scomparirà. Ci sarà solo il MOO, e il primo “MUOVITI!!!” urlato da Marco a spezzare ogni esitazione. E per un giorno, almeno per un giorno, il tempo smetterà di pesare sulle mie spalle. Saremo ancora noi, "Quelli del ‘67", quelli che corrono, quelli che ridono, quelli che non si arrendono. E se anche questa fosse davvero l’ultima volta, beh, che sia una dannata ultima volta da ricordare!

Ci rileggiamo dopo il MOO. Se l’ispirazione prenderà il sopravvento. Se avrò ancora fiato per raccontarlo.

Monday, February 10, 2025

Renate? No, Renon

Anno non bisesto, ma anno un poco funesto, almeno per quanto riguarda il mio orienteering… chi l’avrebbe mai detto che il primo disastro di percorso del 2025 sarebbe stata la mia classifica nella “Stakanov List” dell’Unione Lombarda Milano? Già, perché siamo a febbraio inoltrato e ancora non ho corso nemmeno una gara di orienteering. Zero, nada, il nulla cosmico. Una gara l'ha corsa pure Larrycette nel frattempo!!! E mentre i miei compagni di squadra timbrano lanterne come se fossero cartellini in fabbrica, io ho collezionato solo una serie di giochi di parole e coincidenze geografiche.

Per esempio: lo scorso weekend avrei potuto andare a Renate per la gara della Polisportiva Besanese, e invece dove sono andato? A Renon! Una sottile differenza di una sola sillaba, ma con conseguenze catastrofiche per la mia classifica (sebbene con conseguenza positive sulla mia linea e sul mio stato di forma fisico e mentale). Mentre gli altri accumulano punti preziosi sotto il cielo brianzolo, io me ne stavo tra le montagne altoatesine, impegnato a raccontarmi e raccontare storie di sport cosiddetti (ma non necessariamente) minori che valgono quanto mille punzonature.

Perché sì, le gare in questi altri sport non le corro (mica perché non voglio, ma perché come faccio a trovare un pattino della misura 50??? e poi, si, non me le lasciano correre perché se casco per terrà gli frantumo la pista di ghiaccio...) ma le storie non mi mancano. Per esempio, vogliamo parlare di Hanna Mazur? Segnatevi questo nome, perché quando questa ragazza polacca vincerà una medaglia olimpica, potrete dire che lo avete letto per la prima volta su questo blog. Nella sua vita sportiva succede pure questo: la sua federazione non riesce ad iscriverla ufficialmente a una gara internazionale? Nessun problema: il padre la carica in macchina e si sciroppa di notte un Varsavia-Collalbo con arrivo alle 7 del mattino, e lei è lì, pronta a gareggiare, iscritta per acclamazione popolare. Roba che, se la racconti in un film, ti dicono che non è credibile.

E poi c’è la storia della ragazza portoghese che ha quasi riscritto il mito di Stephen Bradbury nel mondiale “mass start”. Una fuga iniziale a 6 che in gergo ciclistico si definirebbe “bidone”, di quelle che il gruppo lascia andare convinto che prima o poi verrà ripresa. E invece… succede il pandemonio: davanti cade la prima olandese, che aspetta il gruppo inseguitore e si mette in prima posizione, che se non è lo speaker che urla al microfono che è davanti solo a frenare il ritmo perché in testa è rimasta la sua compagna di squadra, le favorite sono ancora lì che fanno surplace sull’anello di ghiaccio. Solo che all’ultimo giro cade anche la seconda olandese, poi cade la coreana, poi si arrota pure la norvegese! E in volata arrivano sparpagliate in tre con le energie al lumicino e la lingua di fuori e così il titolo mondiale dello sport del ghiaccio va al Portogallo, argento alla Spagna e bronzo ad una ragazza degli Stati Uniti che fino a quel momento aveva visto solo doppiaggi in pista.

Non posso non menzionare la mamma olandese che prima mi ha fatto le pulci sulla pronuncia dei cognomi degli atleti e delle atlete della nazionale, e poi è andata a rompere i maròni anche da quelli della televisione tedesca. Quando ha spiegato per l'ennesima volta che il nome della sua Jasmine si pronuncia "Giasmain", ma non Giasmain come lo sto leggendo io e voi bensì una roba con tutte le vocali e le consonanti arrotolate in un modo allucinante, anche i tedeschi, che di solito sono precisi su queste cose, l’hanno cordialmente mandata affanc... 

Infine, anche questa volta sono tornato a casa senza la possibilità di dire che un atleta italiano o una atleta italiana aveva vinto il campionato del mondo. Emily Tormen, da Pieve di Cadore (hanno cercato di spiegarmi dove sta Pieve di Cadore... e che è? lo speaker dell'orienteering non sa dove si trova Pieve di Cadore???) nei 3000 è rimasta ad un passo dal grande traguardo, battuta solo negli ultimi due giri da quel diavolo di austriaca che risponde al nome di Jeannine Rosner (4 ori mondiali e tutte a casa). Ma il momento che più mi ha fatto venire la pelle d’oca è stato l’ultimo giro dell’ultima gara, la mixed relay, quando la stessa Emily ha dato il cambio in testa al suono della campana con 3 decimi di vantaggio sul tempo da record del mondo del Canada. In quel momento ho sentito un brivido assurdo e ho pensato che anche io, sull'ultima curva prima del traguardo, avrei potuto dire il celeberrimo "qualcosa sta per succedere" (Tokyo 4x100). Ma quell’ultimo giro è stato fatale, e nemmeno questa volta ho potuto annunciare un titolo mondiale.

Cambia lo sport, cambia appena il nome della località, ma non cambia la regola fondamentale: ci sono più storie nei nostri sport minori di quante stelle ci siano in cielo.

E intanto io continuo a guardare la “Stakanov List” con lo stesso spirito con cui Rick Blaine guardava Ilsa Lund partire sul volo per Lisbona: “We’ll always have Renon”.

Monday, January 20, 2025

Campionati Italiani Sprint e Mixed Relay 2025 di...

No, questa volta non mi sono presentato al via della “50 Lanterne”, la gara di apertura della stagione orientistica lombarda che mi ha visto tra i (finti) protagonisti in più di qualche occasione.

Le strade della vita mi hanno portato a San Martino di Castrozza, un luogo che porto nel cuore. Le cime maestose tutto attorno, i boschi che sembrano infiniti, i tracciati tra gli alberi ed i sassi che sfidano corpo e mente: tutto questo lo rende un teatro perfetto per l’orienteering, il mio grande amore sportivo. Quando venerdì mattina sono partito per questa nuova avventura, avevo già addosso quel misto di emozione e adrenalina che pochi posti oltre a San Martino riescono a regalarmi.

Anche se stavolta, sotto la pelle, sentivo una sensazione diversa. Forse il fatto che avrei “indossato” solo il microfono anziché anche il pettorale di atleta?

La strada verso San Martino non è nella top ten delle mie preferite: curve sinuose che si snodano tra vallate e boschi, i primi scorci delle Pale che spuntano all’orizzonte, e quel cielo limpido che promette una giornata perfetta arrivano solo dopo centinaia di chilometri di autostrada e traffico e strade statali che fiaccano la mia resistenza alla guida.

Ma poi, con il sole che illumina le cime innevate, mi tornano in mente le mille esperienze vissute qui. Come quella volta che una gara a lunga distanza della Primiero Orienteering Week mi portò fino a Malga Ces, o durante la gara a staffetta dell’Arge Alp di tantissimi anni fa con la neve che copriva il terreno rendendo ogni passo un’avventura e con la sovrastampa del tracciato sulla mappa di gara che letteralmente passò “dall’altra parte del foglio” rendendo le linee magenta visibili solo in controluce. Oppure la volta in cui, come speaker, ho raccontato il campionato italiano sprint 2020, il rientro alle gare nazionali dopo il periodo del Covid.

Questa volta, però, il mio ruolo era chiaro fin da subito: sarei stato “solo” lo speaker di due grandi eventi del Campionato Italiano: la Sprint e la Mixed Relay. Quindi la frase di apertura era già bella scritta: “Benvenuti al Campionato Italiano 2025 Sprint e Mixed Relay…” e poi quella sensazione strana: come finisce la frase???

Anche se non avrei gareggiato, il pensiero di essere parte della competizione mi riempie sempre di entusiasmo. Ho preparato mentalmente le frasi per accompagnare ogni arrivo al traguardo, le storie da raccontare sugli atleti, i dettagli tecnici da spiegare a chi fosse meno esperto. Arrivato a San Martino, l’aria frizzante e il panorama mozzafiato sono sempre una scarica di energia. Eccomi quindi nell’arena di gara con gli atleti intenti a scaldarsi, i tecnici che armeggiano con l’attrezzatura, gli spettatori già pronti a fare il tifo. C’è qualcosa che non mi torna, ma faccio in fretta a sistemarmi alla postazione da speaker, controllando che tutto sia pronto: microfono, pc, elenco partecipanti… tutto è al suo posto, come sempre. Adriano Bettega è dappertutto a sistemare i problemi dell’ultima ora, Ivano mi fornisce ogni sorta di informazione, Ylenia è attorno a dare una mano, il team del GS Pavione con le felpe blu gestisce ogni sorta possibile di attrezzature. E allora cosa c’è che non mi quadra? La tensione cresce mano a mano che si avvicina il momento di dire al microfono la prima parola, ma è una tensione buona, quella che mi tiene vivo e concentrato.

La sprint è quella gara che fa salire le emozioni alle stelle. Ogni atleta taglia il traguardo dopo un intervallo di tempo davvero breve rispetto alle gare sulla media e lunga distanza. In una gara sulla lunga distanza, a meno di errori clamorosi, si può perdere qualcosa qua e là ma allo stesso modo ci sono tanti margini per recuperare. Invece una gara sprint non si vince alla partenza, ma in partenza la si può perdere. Se ogni gara è una storia, la sprint è un racconto breve di Asimov, di quelli che in poche pagine prima ti introducono nel vivo del racconto e poi ti portano ad una conclusione raggelante e inaspettata (grazie per “The Last Question”). La fatica negli occhi, il sorriso per un risultato inaspettato, la delusione per una scelta sbagliata sono il bello dell’orienteering: la capacità di trasformare ogni gara in un racconto unico. Allora cosa c’è che non torna? “Benvenuti al Campionato Italiano 2025 Sprint e Mixed Relay…” e ancora la stessa sensazione: come finisce la frase???

Emozioni, parole, microfono, poi il sole cala dietro le montagne, i boschi si tingono di arancione. L’immagine del campione del mondo Max Peter Bejmer che nel 2017 corre lungo la fila degli alberi che ora non ci sono più, travolti da Vaja, sparisce dai miei occhi lasciandomi con un pensiero non del tutto tranquillo. Qualcosa non torna, decisamente!

Infatti, la mattina seguente, l’arena è animata come il giorno prima, ma la differenza stavolta mi è evidente fin da subito. Come ho fatto a non capirlo già il giorno prima? Invece delle classiche mappe e bussole, che non avevo visto nemmeno ieri, ci sono sci, pelli di foca e caschi. Perché, stavolta, non sono qui per l’orienteering. Sono lo speaker dei Campionati Italiani di sci alpinismo! Una richiesta insolita, arrivata qualche settimana prima, che mi aveva incuriosito e spinto ad accettare la sfida. Mi sono ritrovato a raccontare storie di salite ripide, di discese mozzafiato e di atlete ed atleti che sfidavano non solo il tempo ma anche la montagna stessa.

Solo alla fine della giornata, mentre i partecipanti raccolgono gli ultimi applausi ed io saluto il pubblico con una delle mie catchphrase “il mondo è troppo piccolo perché non possiamo incontrarci un’altra volta!”, mi sono reso conto che l’essenza di tutto ciò che fanno loro e che racconto io è la stessa, sia che si tratti di orienteering sia che si tratti di pattinaggio o di sci alpinismo. È la passione per lo sport, per le storie, per l’energia che si sprigiona quando si mette il cuore in qualcosa.

Così, tornando a casa, con le Pale di San Martino che svaniscono all’orizzonte, sorrido al pensiero di questa nuova avventura vissuta. Sapendo già, da sole poche ore, quale potrebbe essere la prossima sorpresa che mi riserverà il mondo dello sport. E potrebbe essere qualcosa di davvero enorme! (finger crossed)










Sunday, December 15, 2024

Per il futuro che verrà (pensiero post Lavarone)

La sera cadeva lenta sul Monte Tablat. Un manto d’argento avvolgeva l’arrivo delle piste da sci e nascondeva i boschi, con le loro pendenze, le mille insidie, i dolci movimenti del terreno che diventano talvolta bruschi e terribili. Il campo gara è ormai deserto. L’osservatore, ormai troppo in là con gli anni per poter competere ancora a buoni livelli, guardava tutto questo con lo sguardo perso verso l’orizzonte. Era stato coinvolto nel suo sport per oltre trent’anni, prima come atleta, poi come speaker e come osservatore attento e appassionato. La sua vita nei boschi era stata un susseguirsi di fallimenti e sorprese, di delusioni frequenti e di inaspettati piccoli successi, in un’altalena di situazioni che lo avevano reso più forte ma non insensibile, lasciandogli il gusto salato e saporito delle lacrime in gola quando le emozioni prendevano il sopravvento.

Le voci continuavano a discutere poco lontano e lo riportarono alla realtà. Stavano litigando. Stavano litigando ancora, su qualche questione politica di poco conto. Ciascuno fermo sulle proprie posizioni, incapace di cedere, incapace di comprendere, incapace di lasciarsi il passato alle spalle, incapace di capire come quelle energie usate per mantenere posizioni ormai stantìe potessero invece essere usate per aiutare una nuova generazione. Erano sempre gli stessi, compagni di tante avventure che avevano tra loro condiviso traguardi e sudore, ma che fuori dall’arena di gara spesso si trasformavano in ombre testarde e rancorose.

Si sentì sopraffatto da una profonda malinconia. Com’era possibile che le persone, col passare del tempo, si abbandonassero a tali meschinità? Si ricordò delle gare passate, delle battaglie sportive dove non c’era spazio per inganni o risentimenti. Sul campo, ogni sforzo era autentico, ogni caduta un insegnamento. La vita, pensò, avrebbe dovuto essere vissuta così: con la stessa schiettezza di un confronto leale.

Si alzò lentamente e camminò verso un edificio, ora immerso nella penombra. In lontananza, sembrava che le stelle fossero più brillanti, come se fossero vicine, sempre più vicine. Fu così che vide arrivare dal fondo della strada un gruppo di giovani atlete ed atleti che alla luce delle loro frontali ridevano e si allenavano con una energia che non poteva essere altro che contagiosa. I loro volti erano illuminati non solo dai led delle loro lampade, ma da una luce più pura, ancora lontani dalle complicazioni della vita adulta. In quegli occhi brillava la speranza, quella che lui credeva di aver perso solo pochi minuti prima.

Le parole di una vecchia canzone affiorarono nella sua mente: “I did it my way”. Il suo percorso, come i percorsi che tante volte aveva affrontato nel suo sport, era stato tortuoso, pieno di errori e assurdità. Ma era stato il suo, vissuto con autenticità e passione. Si rese conto che ogni salita, ogni caduta, ogni volta che aveva perso la strada e si era ritrovato con non poca fatica, lo avevano portato quasi a comprendere, sebbene non avesse ancora imparato ad evitarlo, il modo in cui l’ovvia giusta direzione era stata sopraffatta da una scelta assurda, da una svista marchiana, da una cantonata banale. Ma tutto questo aveva contribuito a renderlo la persona che era, nel bene e nel male. Le montagne russe emotive della vita non potevano essere evitate, ma solo affrontate con coraggio. E che le sconfitte fanno parte della vita, in misura ancora maggiore delle vittorie.

Si fermò sulla strada e osservò ancora quei giovani che entravano nell’edificio a riprendere fiato, dopo un nuovo allenamento. In loro c’era un futuro che lui non avrebbe mai visto compiersi del tutto, che esisteva sicuramente grazie agli insegnamenti del passato ma che il passato non doveva andare a gravare. La vita andava avanti, con tutti i suoi alti e bassi, i suoi giorni di gloria e di rimpianto.

Con un ultimo sguardo a quel gruppo, si voltò per andarsene, portando con sé una nuova serenità. Il futuro poteva essere migliore. E se anche le piccole meschinità della vita adulta avrebbero continuato a esistere, bastava un solo sogno, un solo giovane che credeva ancora, per dare un senso a tutto.

E mentre si allontanava, un sussurro interiore gli ripeté dolcemente: “I faced it all and I stood tall, and I did it my way”.