Stegal67 Blog

Friday, August 22, 2025

GEIUOCC 2025 – Giorno 5: Media distanza dalla tenda media

Prima che parta questo nuovo episodio, una cosa ci tengo a dirla.

Non voglio offendere nessuno con le mie parole, né tantomeno sembrare superficiale. Quello che è successo a Mattia, quello che sta succedendo attorno a lui e alla sua famiglia, è qualcosa che non ha paragoni con le piccole facezie che leggete qui. Le notizie serie, quelle vere, solo altrove.

Il mio blog è un diario personale, letto da poche di persone, e scriverlo di nuovo non è altro che un modo per fare un po’ i conti con il dolore che ho provato in questi giorni. Mattia resterà il mio campione italiano anche se non vedrò più il suo nome nelle griglie di partenza.

E adesso… torniamo al racconto.

Penultimo giorno di gare.

Che detta così fa già venire un po’ di magone. Quando eventi come questi partono, sembra che possano andare avanti per sempre. Poi però ti accorgi che la gente che si alza prima dell’alba per montare transenne, stampare mappe, gonfiare archi e cucinare wurstel forse non condivide esattamente lo stesso entusiasmo. E lì capisci che la magia sta anche in questo: in una macchina che si muove tutta insieme, e che ogni sera si smonta e si rimonta da capo. Non posso giurare sulla stanchezza di tutti coloro che da giorni si alzano prima dell’alba per posare i punti, per allestire le arene, per preparare gli schermi, gli accessi, le facilities. Ogni tanto penso al momento in cui la gara quotidiana è davvero finita, l’arena si svuota e tutti ma proprio tutti se ne sono andati dicendo “dai… anche oggi ce l’abbiamo fatta… ora una bella birra, uno spritz, cenetta e poi a nanna presto che domani…”. Ma devono succedere ancora tante cose  quando gli ultimi rumori della festa si sono azzerati ed entrano in scena loro: quelli che si guardano attorno e vedono quei quintali di transenne, striscioni, cartelli, panche e tavoli… e dicono “ok, dentro i furgoni, su i guanti da lavoro, rimbocchiamoci le maniche!”.

Per loro, la cena è sempre fredda, la doccia un miraggio, il sonno un fastidio e la sveglia all’alba un incubo. Io, in confronto a loro, devo solo parlare. Se non faccio cavolate, magari prendo pure i complimenti. Per parlare. Il che è un po’ uno specchio della nostra società: il talk show è tutto, per le soluzioni ci sarà sempre tempo…

Il mio penultimo giorno comincia per terra. Letteralmente. Pavimento del cucinino. Esperimento disperato di insonnia trasformata in "power nap" alla MacGyver. Funziona. Mi alzo con la grazia di uno zombie e vesto i panni del running-speaker, walking-speaker, lost-speaker… insomma, la solita collezione di etichette.

Ma stavolta mi concedo un fuori programma: entro nel bosco. Voglio vederlo. Voglio perdermi anch’io tra verdi verticali e pendenze da arrampicata libera. Risultato? Palude finale, rovi fino alle ginocchia, e io che mi trasformo nell’eroe tragico di un film che nessuno ha chiesto. Dal sentiero soprastante, un gruppo di ragazzi in funzione di pre-runner mi guarda e commenta: “Stegal vuole passare attraverso il verdone. È un eroe!”
Traduzione simultanea: “Ma guarda sto pirla!”

Arrivo alla postazione speaker con fango fino alle orecchie e lo stesso appeal estetico di un gladiatore sconfitto. Ma in fondo è bello così: mi sporco io, loro corrono puliti, almeno fino al punto 16 del percorso

Lo schieramento alla cabina di regia è collaudato: Alessandro al timone, io che parlo finché non mi crolla la mascella, Marco che legge intertempi come fossero carte da poker, Alexander che intervista anche i sassi, Nicole che pesca sorrisi per IOF TV. La routine è rodata, ma la tensione rimane.

E poi arriva l’addetto stampa che, mentre la battaglia ancora infuria, chiede ancora: “E’ finita, possiamo mandare in stampa?”. E io, che ho fatto i compiti, tiro fuori che mancano ancora 17 atlete in grado di vincere. “Ma te la senti di dire che il risultato è definitivo…?” No! Non si chiude! Non ancora! E comincio la lista dei nomi: “Sannwald… Maramarosi… Punto… Hotz… Delahaye… Bjork… volete che continui? Diciassette!”. Le medaglie si decidono lì, sotto il sole.

Intanto dietro di noi, la tenda medica sembra un pronto soccorso o una sorta di confessionale per atleti: crampi in stile yoga fatto in modo sbagliato, scavigliature, scottature, drammi da manuale. Noi proviamo a strappare qualche parola agli atleti, ma l’attenzione è tutta sulle gambe che tremano e sulle borracce svuotate in un sorso. Poi la tenda medica esonda anche nella zona speaker che diventa una specie di crocevia da ospedale da campo. Genitori, fratelli, allenatori: densità umana degna di un sushi-bar di Tokyo. Se mi azzardo a intervistare qualcuno, vengo ignorato peggio di un volantino pubblicitario. Alexander e Nicole, invece, riescono sempre a strappare parole, sorrisi, gesti, emozioni. Loro hanno il tocco.

Poi c’è quell’attesa sospesa tra la fine della gara (ore 16) e le premiazioni (ore 18). Due ore che evaporano tra chi cerca ombra sotto le tende, chi si inventa partite a frisbee con un piatto di carta, chi si addormenta seduto sul prato e si sveglia con la cartina stampata in faccia. Io cammino avanti e indietro, mezzo rimbambito dal caldo, e penso: “Se questo è il penultimo giorno, cosa mi aspetta domani?”.

Ore 18: Medal Plaza. La Graticola Arena. I fotografi sembrano spiedini umani, le autorità sgocciolano come granite al sole, e la mascotte… povera mascotte! Non sapevo si potesse sudare attraverso il cartone pressato. Io mi rifugio in un francobollo d’ombra, contornato da atleti internazionali che ridono a ogni mia frase in italiano. Così passo al piano B: il finto inglese milanese. Funziona sempre: “Only in Italy!”, e giù a ridere.

Intanto, mentre le medaglie passano di mano e gli inni nazionali si alzano nell’aria caldissima, io penso che il countdown è davvero partito. Domani staffette, VIP race, cerimonia finale, caos garantito. L’aria è già quella dell’ultimo giorno di scuola: compiti consegnati, zaini buttati, voglia di fare casino.

C’è ancora tempo per una giornata, ma per una soltanto, e io so già che sarà un frullatore. Una giostra, un circo, un caos felice. E una frase, solo mia, che tengo lì pronta.
Ve la dico la prossima volta.

Monday, August 18, 2025

GEIUOCC 2025 – Una pausa, un ricordo, una promessa

Domani arriverà la giornata che non avrei mai voluto vivere, che nessuno di noi orientisti avrebbe voluto. Domani saluteremo per l’ultima volta Mattia, insieme alla sua famiglia, agli amici, a tutta la comunità orientistica. Un addio troppo precoce, che lascia un vuoto enorme.

In questi giorni sono stati scritti da tante persone ricordi meravigliosi: ognuno ha messo sul tavolo un pezzetto del cuore, raccontando il Mattia atleta, compagno, amico, fratello. 

E in questo mosaico ognuno ha ritrovato un’immagine di lui, diversa eppure sempre uguale: quella di un ragazzo pulito, sincero, mai sopra le righe, che si è sempre guadagnato ogni vittoria con il sudore, la fatica e la sportività.

Di Mattia non ho mai sentito nessuno dire una parola storta, e non credo sia un caso. Non era il “predestinato” che qualcuno indica col dito prima ancora che parta il cronometro. Era un atleta vero, uno che si è preso i suoi successi senza sconti e senza scorciatoie, affrontando le vittorie con la serietà che meritavano e le sconfitte con la leggerezza che solo i grandi sanno avere.

Per me resta e resterà il campione italiano, anche se il suo nome non comparirà più nelle griglie di partenza. Ogni volta che al microfono ci sarà da ricordare un albo d’oro, un risultato, una gara che lo ha visto protagonista, il suo nome ci sarà comunque. E ci sarà per molto, molto tempo.

Il blog in questi giorni si ferma un attimo. Non per sempre: i racconti personali del JWOC continueranno, così come quelli delle gare che verranno. Tra qualche giorno uscirà la penultima giornata e poi l'ultima, che erano già pronte. Ma non lo farò con l’idea di essere un po' dissacrante a tutti i costi, di far riemergere dalle nebbie di un passato ancora recentissimo (inizio luglio) qualche fotogramma di una avventura organizzativa enorme per sforzi profusi e per risultati ottenuti. Lo scriverò, come ho spesso fatto, nella forma di un diario di bordo personale. Non voglio invadere con battute e toni scherzosi un momento che per tanti di noi è solo tristezza.

Grazie, Mattia, per i ricordi che ci hai lasciato. Io ne tengo stretti alcuni, molto personali, che mi fanno sorridere anche adesso. Se dico "Alpe Adria a Kastav" non posso che vedere la tua immagine nei miei occhi. 

Ma soprattutto grazie per averci insegnato, col tuo modo di essere atleta e persona, che la vittoria più bella è quella che nessuno ti regala, ma che nessuno può portarti via.

Monday, August 11, 2025

Mattia 1996 - 2025

Stasera è arrivata la notizia che nessuno di noi avrebbe mai voluto leggere.

Mattia ci ha lasciati.

Non trovo parole che possano davvero contenere il dolore, l’incredulità e il senso di vuoto che sento in questo momento. So solo che è difficile accettare che quel sorriso, quella determinazione, quella capacità di rendere tutto più leggero non ci accompagneranno più nelle gare e nei momenti insieme.

In questi giorni avevo sperato, come tutti, che ci fosse un altro finale, che questa fosse solo una brutta parentesi da raccontare poi ridendo, davanti a una birra o durante un viaggio verso qualche bosco lontano.
Non sarà così.

Il mio pensiero va alla sua famiglia, alle amiche ed agli amici più vicini, a chi con lui ha condiviso non solo una passione sportiva ma un pezzo di vita.

Ciao Mattia, grazie per quello che sei stato per tutti noi.

Monday, August 04, 2025

GEIUOCC 2025 – Giorno 4: la giornata di riposo (che non lo è mai)

Riposo? Ma per chi?

Nel giorno ufficiale di riposo dei JWOC, quello in cui gli atleti tirano il fiato dopo la long e si preparano per la middle e le staffette, c’è un piccolo dettaglio trascurabile: lo speaker non riposa.

Si torna a Pian del Gacc, e l’effetto è quello di rientrare in casa dopo essere stati ospiti in villa. Guardi attorno e ti accorgi che ogni angolo ha memoria: “Quello non è il punto dove Rita ha annunciato al mondo il suo orgoglio?” E lì… "Lì non è dove Daniel ha urlato la sua gioia al cielo, con le braccia larghe come le Alpi?” Sì, è proprio qui. Stesse transenne, meno scenografia, ma gli stessi colori e la stessa gente. Gente vera. Non più pubblico da Mondiale, ma protagonisti “di contorno” che, almeno oggi, sono al centro della scena.

Anche il mio ruolo cambia pelle: oggi sono lo speaker del popolo, che parla direttamente a te, sì proprio a TE, che hai corso la categoria open, la W50. la M20 ma non sei tra i convocati del Mondiale, la M65, la MW10. Quello che ti aspetti quando arrivi non è un’analisi tecnica, ma un commento da un amico che ti accoglie ad una festa tra pochi intimi.

Sono più sciallo oggi, dopo la cerimonia di premiazione di ieri sera la voce va e viene come un modem 56k, ma bisogna tenere la postazione. Perché Alexander parte fortissimo, con una cronaca all’arrivo di Alberto Zambiasi che è pura archeologia dell'orienteering: la 5 Giorni della Val di Non 1998, “quella gara che ha cambiato tutto”. Un monologo da brividi. Io ascolto, zitto e mosca, perché vedo che Alexander non ha preparato nulla di scritto ma, come cerco di fare anche io (però peggio) va a braccio, un puro flusso di coscienza, infila una principale ed una subordinata dietro l'altra in un discorso ordinato, empatico, enfatico e preciso. Poi lui deve andare al lavoro, io resto. 

Resto ma vado. Vado io verso le persone. Le chiamo, le cerco. Mi alzo, muovo panche, transenne, cambio l’assetto. È la mia versione del “servizio al tavolo”. Non sono IOF oggi, non ci sono protocolli, oggi siamo noi.

E poi succedono le cose belle. Quelle che non ti aspetti.

Marie Luce Romanens si avvicina. La riconosco. È praticamente Simone Luder prima di Simone Luder. Che, con tutto il rispetto, oggi è come dire Tove Alexandersson + Simona Aebersold, sommate e portate in dote da un’altra epoca. Una leggenda. Sorride. Sempre. Le chiedo due parole al microfono, e quando le ricordo che i suoi JWOC del 1993 erano a meno di 80 km da qui, il suo sorriso si fa ancora più largo. Un regalo.

E se c’è Marie Luce, non può mancare Thomas Buehrer. Quattro titoli mondiali, un gigante silenzioso. Gli chiedo “Come va con gli scacchi?” — e lui capisce tutto. Sorridiamo. Perché prima ancora che speaker e atleta, siamo stati due chiacchieroni in un’intervista per una rivista di scacchi. E parliamo come due vecchi amici al bar: delle gare, dell’Italia, delle vacanze. Il microfono? Quello c'è ma è come se non ci fosse. Solo parole cordiali.

Ma Thomas non è solo. Qualche minuto dopo, ricompare con un ragazzo al fianco: Matthieu, suo figlio. L’uomo dei JWOC 2024. Tre ori e un argento. Sarebbe stato il re anche qui, se non fosse per quell’infortunio. Ma oggi è sereno, pedala, si allena. E accetta l’intervista. Si racconta. È un adulto in mezzo a ragazzi. È già grande.

Sul traguardo passa una tuta. I colori del Tesla Brno. Mi scatta un riflesso condizionato: “Dov’è lo SKOB Zlín? Dov’è Michal Smola?” C’è una cosa che devo dirgli. Chiedo ai ragazzi di Brno: “Me lo portate, se lo vedete?”. Loro, con le birre in mano, mi dicono “Certo”.

Lo vedo arrivare. È lui. È l’uomo nella fotohttps://commons.wikimedia.org/wiki/File:Team_Fairplay.jpg (grazie a Jan Kochbach per non dimenticare mai). Se non sapete cos’è, siete ancora in tempo. Il mio podcast vi aspetta:
https://open.spotify.com/episode/2kU86vGqRw8bjGYAssPHN7  

Team Fairplay. Forse il gesto più puro e straordinario che l’orienteering abbia mai vissuto. E mai celebrato abbastanza dall'IOF. Michal si avvicina. È schivo, umile, corre la M40 perché in fondo è in vacanza, ma potrebbe fare del male a tutti gli altri partecipanti dell’élite. Lui sa. Sa già che voglio ricordargli quella cosa. Non so se vorrebbe sentirne ancora parlare, se fa ancora male. Ma gliela dico, con tutto il garbo del mondo: “So che forse non ne vorresti sentir più parlare. Ma per me… tu sei un eroe. Eri nel posto giusto, al momento giusto. E hai fatto la cosa giusta.”

Poi i francesi si avvicinano. Hanno la bandiera. Mi chiedono se ieri, mentre il loro beniamino Antoine Derlot rimontava posizioni su posizioni, quell' “Alors peut-être” l’ho detto per caso. Io dico di sì. Tirano un sospiro. Ma poi rilancio: “Neanche voi avreste creduto a Florence Guay, staccata e in quarta posizione a 120 metri dall’arrivo. Ma Patrick Montel sì, lui ci ha creduto”. Occhi sgranati. Montel? Ma dove siamo? In che realtà parallela? Siamo ai JWOC in Italia, e lo speaker cita l’uomo che ha fatto piangere mezza Francia con un “elle va le faire”??? Link d’obbligo: https://www.youtube.com/watch?v=G-VYwC28KXI (0:44)

Forse pensano “Seulement en Italie”, e stavolta avrebbero proprio ragione.

Cominciano a succedere cose che non dovrei fare, ma ho in mente solo lo sport, il nostro sport. Passa una tuta di Israele, intervista d'obbligo. Lasciate che poi vengano a dirmi, alternativamente, che non dovevo farlo, o che sono stato coraggioso. Qui è solo sport.

Serve una dose di realtà. Qualcosa che mi riporti coi piedi per terra. Una lamentela, una critica, una polemica…

Invece mi arriva Christian-O. L’uomo più alto di Daniele Pagliari, più grosso di Marco Bezzi, più gentile di tutti. Un ginocchio a pezzi ma gioca a tutto ciò che comprende l'uso di una racchetta e di una pallina. Sorride sempre. È un amico. Come quella volta all’O-Ringen. Per un attimo, persi. Poi ci guardiamo: “Uniamo le forze?” “Ok!” Dritti al punto, dritti a tutti gli altri.

E ora siamo qui, ogni tot anni. Ci si vede, ci si abbraccia, e quell’abbraccio basta per tutti gli anni che verranno.

La giornata scivola via. Finisce anche la long. Mi offrono un gelato. Poi torno a Baselga e arriva il turno del seminario IOF sull’antidoping. Il relatore mostra il primo prodotto vietato. Io tiro fuori il portafoglio: “Ce l’ho”. Poi ne nomina un altro. Sussurro a Nicole, seduta di fianco a me: “Ce l’ho sul comodino”. Il relatore mi sente, mi guarda perplesso: “Li usi tutti e due?”

“Eh sì…”

Scuote la testa. Forse si chiede se è stato sicuro affidarmi il microfono per una settimana.

Si chiude l’ultimo Team Officials Meeting e torno a cuccia. Faccio i conti. Mancano meno di 48 ore alla fine. Mancano 5 gare. Mancano 3 premiazioni ufficiali. Manca una cerimonia di chiusura tutta da inventare.

Robetta da niente.

Eppure non ho paura. Sono in sintonia con me stesso. Con il pubblico. Con l’orienteering.

E poi c’è una frase.
Quella che mi hanno detto mille volte che non posso dire.
Che non devo nominare.
Ma loro non lo sanno… che io la dirò. E sarà il mio ultimo atto ai JWOC.

Friday, August 01, 2025

GEIUOCC 2025 – Giorno 3: Pian del Gacc, il giorno lungo (anzi lunghissimo)

Si sono appena spente le luci e i riflettori sulla sprint di Cembra… ed è già il momento di tornare in scena. Pian del Gacc. Si resta vicini a casa base. E questo, onestamente, è un bene. La prima che vuole partire è Nea. Ore 9.02. Che le vuoi dire di no? È Nea. Forse la sorella del protagonista di Matrix... troppe armi!

L’ultima partenza? Ore 14.47. Long distance. Prevedo l’ultimo arrivo per le 16.30. In una giornata così, è chiaro che il ritmo della cronaca non può essere lineare. Sarà un’onda. Alta, bassa. Poi torna alta. E io devo ricordarmi una cosa fondamentale: NON partire forte. Perché se mi brucio tutti gli aggettivi alle 10.15, cosa racconto alle 16.20?

La postazione speaker sembra una strana versione di “Amici miei” – solo con meno talento e più occhiaie. A sinistra Alexander, che a forza di interviste sta diventando l’enfant prodige dei microfoni; poi Alessandro, il leader designato, quello che sa sempre tutto e lo sa anche meglio di te. Nicole è la ragazza da copertina: sempre precisa, sempre sorridente, sempre IOF TV. Poi ci sono io, lo speaker di riserva, il ciccione in fondo alla fila. E infine Marco, reclutato da me per la missione impossibile: sette ore di cronaca, serviva qualcuno che capisse il senso della gara, che non scappasse dopo venti minuti e soprattutto che mi sapesse tenere a bada quando parte il “monologo da vena chiusa”.

Il copione è talmente collaudato che Alexander ed io sembreremmo Tommasi e Clerici, se non fosse che uno dei due è in evidente stato di allucinazione e l’altro parlasse da dietro un cespuglio. Con Alexander ci vediamo a 30 metri di distanza, attraverso una breccia aperta tra le fronde. Il nostro “ok Alexander, go!” sembra un contatto audio, ma in realtà è solo che ci becchiamo di striscio con la vista. Nicole intanto va avanti a intervistare qualunque cosa respiri e abbia una pettorina. Siamo talmente abituati al gioco delle IOF TV che ormai trattiamo anche i personaggi più ansiogeni con una certa nonchalance. Tipo Per Frost, detto internamente “Ma” – così abbiamo coniato il soprannome perfetto: PermaFrost. È uno di quelli che arrivano sempre con richieste dell’ultimo minuto: “Ci serve questo, ci manca quello”. La nostra risposta è diventata un classico: se ce lo dicevate prima, eravamo la vostra soluzione. Non vi lasciamo in un mare di m… ma almeno siatene consapevoli

Intanto la gara corre. E noi dietro. Un Ceco – non chiedetemi il nome, tanto finisce in “-sky” – mette subito il tempo-monstre e lo difende con unghie, denti e cartina. Marco, che gestisce i tempi intermedi, mi passa abbastanza dati per tenere la cronaca viva e frizzante. Una specie di cocktail energetico per le orecchie, con zero zuccheri e tanto sarcasmo.

Le ragazze, invece, sono una variabile impazzita. Arriva una svedese, sembra fatta, sembrano pronti microfoni, dichiarazioni, lacrime, baci al traguardo. Ma no. BOMBA SONICA. Sta arrivando una svizzera che potrebbe ribaltare tutto. La svedese mi guarda – 30 metri di distanza – è il momento più bello della sua vita orientistica, ma io, implacabile come la sveglia delle 6, urlo: “Attenzione! Arriva un’altra!”. Una roba da far crollare l’autostima anche a Pippi Calzelunghe. Alla fine non succede nulla, per sei secondi, ma le imprecazioni che ricevo – in svedese, svizzero e chissà cos’altro – rimbalzano sul gazebo come boomerang.

E poi c’è Rita. Quello che davvero vorrei poter comprare, registrare, mettere in loop su Spotify, sono gli ultimi 15 minuti della sua gara. Doveva essere la queen di questo mondiale junior, ma era finita nella zona retrobottega della classifica, tra “quelle che forse hanno preso la cartina sbagliata”. Poi, all’improvviso, decide di andare “all-in”, con niente in mano, un bluff da sette di quadri e due di picche, come se avesse ricevuto un segnale da un satellite: parte una rimonta che definire mistica è poco. Arriva terza. E la sua dichiarazione post gara, con voce rotta ma sguardo d’acciaio, è da archivio storico dell’orienteering mondiale: “Non voglio essere ricordata solo come una che corre veloce. Io faccio orienteering.” Vent’anni. Long appena finita. Brividi.

Nel frattempo, la mia cronaca ha preso una piega strana. A un certo punto non so più che dire, ma non voglio lasciare silenzio. Allora inizio a parlare “one to one”, come in una telecronaca privata: vedo due con la bandiera slovena e parto con Pogacar, Roglic, salto con gli sci. Poi arrivano due inglesi, e mi metto a parlare del British pride, della tradizione, di quando loro vincono e noi applaudiamo. Poi vedo i francesi, e passo al francese, citando La Feclaz, il team glorioso degli anni Dieci, la grandeur, le baguette e tutta quella roba lì.

Tanto sono convinto che là fuori sia rimasto il deserto. E invece, quando esco un attimo per sgranchirmi le gambe, trovo… LA FOLLA. Davanti al maxischermo, accalcati come al concerto del Primo Maggio: decine, centinaia, con bandiere, birre, sorrisi, urla, tamburi.

E mi guardano. Tutti.

Mi sento come l’attore che ha appena recitato un monologo convinto che in sala ci fossero solo le sedie, e invece si accendono le luci e scopre che è sold out. E loro vedono me, e pensano: “Ma è questo il matto che urla da stamattina?”. E in quel momento, la cronaca cambia: diventa personale, diretta, una specie di stand-up comedy emotiva in cui parlo con ognuno di loro. “Ehi, sì, parlo proprio con te.” Non so chi altro farebbe una cosa del genere. Poi qualcuno mi ha detto che forse lo facevano i baristi di una volta, quelli che conoscevano tutti. O i portinai milanesi, che avevano sempre una battuta per chi entrava e per chi usciva. Eccomi qua: barista o portinaio. In che veste mi vedete meglio? Cappuccino caldo con schiuma tiepida in tazza fredda, goccino di latte scremato a parte, magari il cucchiaino col manico lungo? Oppure volete glissare sul pacchetto appena ricevuto – anonimo, marrone, compatto – con quella forma sospetta da sextoy da Amazon Warehouse? Perché in fondo è così che funziona anche la mia cronaca: un po’ ti coccola, un po’ ti mette in imbarazzo. E spesso non richiesto.

Ma è così che mi viene meglio. Decido – lo decido io, non un algoritmo, non un regista, IO – che qualcuno merita tutta la mia attenzione, e racconto la sua gara come se fossimo solo in due, lui o lei ed io, chiusi in uno scompartimento del treno, diretti verso una destinazione incerta. E anche se tu magari stai cercando di dormire, niente: io ti parlo.

Si arriva così alla fine. Il Ceco vince. Uno dei fratelli Selin – il "little brother", anche se sono gemelli e quindi questa cosa che dico è l’ennesima del tutto priva di senso – è secondo. 

E al terzo posto uno spagnolo pazzo di gioia che urla, canta, balla, come se avesse appena vinto un Eurovision, non il bronzo alla long junior. Mi resta solo da annunciare il settimo posto di Elli Punto e vederla sbiancare al pensiero che io possa, di nuovo, lanciarmi in una digressione sulla sintassi degli indirizzi e-mail, come a Cembra.

Si smonta in fretta. Baselga chiama. Le premiazioni si fanno lì. Ma dove? All’aperto? Al chiuso? Le nuvole non votano, ma si fanno sentire. Decisione presa: al chiuso. Cinema. Sì, proprio un cinema. Non vicino alla medal plaza, ovviamente – perché il destino potrebbe complicarti poco la vita quando può complicartela tanto? Tutto il circo viene traslocato: palchi che pesano una tonnellata, drappi, bandiere, persino quei pennoni da quindici metri che normalmente servono per issare le bandiere sulla luna. Dentro, tra le poltroncine rosse.

Il cinema si riempie. C’è gente a due metri dalle casse. L’umidità è da foresta pluviale. Io, davanti al microfono, guardo la folla e prendo una decisione storica: niente microfono. Non voglio creare una generazione di orientisti con i timpani spappolati. Così urlo. Con grazia. In modalità "proclamazione papale nel Trecento".

“Only in Italy”, direbbero. E avrebbero ragione.

Ovviamente, niente discorsi. Si va all’osso. Julie, Flavia, Alessia radunano premiati e premiate come fossero mandrie da spostare con dolcezza e autorità. Sono perfette. La macchina parte, tutto fila. Tranne il video. Sul muro dove dovevano scorrere le immagini salienti della gara, partono schermate da incubo: file not found, password digitate a caso, messaggi di errore che sembrano composti da uno scimpanzé bendato. Qualcuno tenta di risolvere, ma tanto ormai lo spettacolo è altrove. Ci sono due mondi distinti sul palco: in prima fila l’IOF, lo speaker, i premiati. Dietro succede di tutto ma noi non ce ne accorgiamo nemmeno.

E poi ci sono quelle piccole scene che non vedi se sei solo spettatore, ma che raccontano meglio di mille discorsi cos’è il JWOC: Julie, in fondo alla fila delle ragazze pronte a salire sul palco per le premiazioni, osserva l’arrivo del vincitore della long maschile. Il cognome finisce in -sky, uno di quelli che senti nominare spesso quando si parla di podi. Lui passa lungo la fila, stringe mani, si complimenta con tutte, diplomatico e sorridente come si conviene a un campione che vuole presentarsi ad una fila di ragazze. Arriva davanti a Julie. Le stringe la mano, non la riconosce subito, ha un attimo di esitazione e poi — riflesso condizionato — se ne esce con un “Well done for your race”. Educato, generico. Ma mentre glielo dice, realizza. Realizza! Sembra di sentire dal palco l'effetto sonoro di quel momento in cui la memoria fa click. E lì, tra i flash e l’agitazione da cerimonia, un altro piccolo JWOC va in scena: quello delle sorprese, delle scoperte, delle facce nuove che lasciano il segno.

In sala intanto il caldo aumenta, un drappo cade, la voce mi si spezza. Ma gli inni partono con una puntualità da centro di controllo NASA, e Julie ed Alessia manovrano entrate e uscite con la grazia di un cambio scena a Tokyo 2020. Quando una premiazione finisce, da tutta la sala del cinema si alzano i team per portare le corone di fiori a chi è stato premiato. Ad un certo punto sembra che ci sia più gente sul palco che in platea. Il momento più emozionante? Se solo qualcuno lo avesse registrato “And now, ladies and gentlemen, please rise for the national anthem of…” e tutto il teatro insieme si alza in un silenzio granitico, rotto solo dalle prime note dell’inno. No boooooooo, no sussurri o brusii, solo il rispetto. Poi la voce se ne va, le premiazioni si chiudono. Gloria, applausi, applausometro.

E a un certo punto qualcuno si avvicina e mi sussurra, quasi per consolarmi: “Coraggio, domani è il giorno di riposo”.

Per molti. Ma non per tutti. E sicuramente non per lo speaker.


Wednesday, July 30, 2025

GEIUOCC 2025 – Giorno 2: Cembra e quella transenna sottile tra realtà e delirio

Sono le ore 7:30 a Cembra, ridente paese che regala il nome alla omonima valle. In realtà, credo che non stia ridendo nessuno, e già da un pezzo. In effetti, a giudicare dalle facce, Cembra ride come un impiegato del catasto il lunedì mattina.

Mi piacerebbe poter dire “Il paese si sveglia al suono delle transenne che vengono posate, dei gazebi e delle strutture che vengono innalzate sul viale principale…” ma temo che riceverei una serie di sonore pernacchie. Gli speaker arrivano alle 7.30, ma a giudicare dalle chat dell’organizzazione alcune squadre sono a Cembra già dalle 5 del mattino, se non prima, a posare transenne, alzare gazebi ed installare palchi e strutture varie che, come ho già avuto modo di dire più volte, continuano a non volerne sapere di spostarsi in autonomia da un punto all’altro delle valli.

Quindi no, penso che non rida nessuno.

Alle 7.30 apre anche la quarantena dei partecipanti, che saranno chiusi dentro in una struttura nella frazione di Faver: mi chiedo a che ora abbiano potuto fare colazione i ragazzi e le ragazze, se l’hanno fatta, se hanno dormito, se hanno sognato, se sono in grado di chiedere un ulteriore sforzo ai loro muscoli. Alle 7.30 l’aria è comunque ancora frizzante, ma sappiamo che la giornata diventerà bollente e soprattutto lunghissima: abbiamo una gara sprint valida per i Campionati Mondiali junior, una gara di contorno, il ritorno a Baselga per organizzare le due cerimonie di premiazione della sprint relay e della sprint, e poi il Team Official Meeting. Manca solo… una voce dal cielo che ci dica “siete su Scherzi a Parte” e poi ci porti a casa in elicottero

I microfoni per me, per Alexander e Nicole sono pronti. L’orologio corre inesorabile. E noi? Noi stiamo per entrare nell’antro della bestia, nel cuore del delirio. Ai JWOC non c’è tempo per il riscaldamento. Ti butti nella mischia come in quei sogni in cui ti chiamano a fare l’orale di greco e non hai studiato perché pensavi che ci fosse educazione fisica.

Ore 9.00. La sprint è cominciata, e lo schieramento della batteria speaker è consolidato: Nicole gestisce le interviste per la IOF TV acchiappando per la collottola tutti quelli che passano in posizione da podio, in un caleidoscopio di nazioni e colori e lingue straniere; Alexander si divide tra la panca di commento vera e propria e i 10 metri dopo la linea del traguardo per intervistare atlete ed atleti che tagliano il traguardo in un mix tra il trafelato e il “più di là che di qua”, ma che alla vista del microfono rinvengono e rispondono a domande tecniche ed esistenziali in un inglese da BBC.

Io resto alla postazione speaker, perché il mio inglese non lo capisce nessuno… …però la gente ha ormai capito il codice Morse del mio microfono.

“Urlo forte” = qualcuno sta arrivando (potrebbe anche essere un gatto).

“Urlo fortissimo” = forse succede qualcosa di buono (ma non garantiamo).

“Bomba sonica” = ehi, forse sì.

Il fatto è che di tutti i partecipanti ai JWOC ne conosciamo per nome e per fama più o meno il 10%. E per il restante 90% si va col metodo Wikipedia-alla-cieca: vedi una maglia norvegese, urli “potrebbe vincere!”, e se lo fa davvero… sembri preparato. È un po’ come giocare al Fantacalcio senza conoscere i giocatori, ma con molto più sudore.

Solo per fare un esempio, qualche giorno prima dell’inizio delle gare, gli addetti stampa (gente che durante la sprint relay, in pieno delirio della seconda frazione, è arrivata in postazione speaker a domandare come funzionava la gara) mi avevano chiesto per ogni gara (= 5 gare) i nomi di almeno 10 favoriti e 10 favorite (= almeno 20 nomi diversi, per 5 gare), e magari qualche notizia su di loro.

E io che potevo dirgli? Prendete tutta la Norvegia, che non ho idea di chi siano salvo una che tornerà buona più avanti, ma se sono norvegesi… Prendete tutta quanta la Svezia, che è chiaro che se vesti la maglia gialloblu non sei proprio il più scarso della batteria. Prendi tutta la Svizzera, e per i motivi vedi sopra alla voce “Svezia”. Prendi tutta la Finlandia, non dimenticare tutta la Cechia!!!, Vuoi non mettere dentro qualche francese e tre o quattro ungheresi a caso (dice niente il nome di Rita Maramarosi?)? Mai sottovalutare l’orgoglio dei britannici, e poi vuoi che tra polacchi e australiani non salti fuori nessuno? … e la lista è presto fatta. Praticamente le pagine gialle. Di fatto, la lista finisce nel cestino.

Ma non puoi sbagliare: magari il fenomeno di giornata è proprio quello che parte alle 9:02, e ti ritrovi che ti sei perso la perla delle perle mentre stavi ancora cercando il tasto per accendere il microfono. Alle 10:30 ritorna l’addetto stampa. Sguardo sicuro, laptop già caldo, aria da "io ho capito tutto". Mi guarda e dice: “Ormai possiamo scrivere il pezzo, la Elli Punto ormai è in testa da più di un’ora!”. Io lo guardo. Lo guardo davvero. Quel tipo di sguardo. Proprio QUELLO LÌ. Quello che avete imparato a conoscere

E poi inizio a spiegare: “Vedi, una gara di orienteering si svolge con una partenza al minuto… e ce ne sono ancora quasi centocinquanta in gara”. Ma la gara? Il pezzo? Le tempistiche? Io glisso sull’arrivo imminente di un turco a caso, il che mi dà la possibilità di mostrare ai coach del team a cavallo del Bosforo che avevo imparato bene come pronunciare il nome della loro nazione: da qualche tempo (e magari hanno anche qualche ragione, visti certi Presidenti che girano…) non vogliono sentirsi associare a nessun tacchino.

Questo fatto Alexander lo sapeva già, glielo aveva spiegato il presidente della conferenza mondiale del sa-il-Signore (Alexander ha un solo grado di separazione con chiunque, fosse anche il Papa) e non esistono cose che lui non sa, ma io sono cascato dal pero e questo fatto apparentemente innocuo e di pura (mia) ignoranza aveva scatenato un ennesimo incidente internazionale durante il primo Team Official Meeting.

Ma la Elli Punto…???”. “La Elli Punto lasciala lì che devono ancora arrivare cinque svedesi, quattro norvegesi, quattro svizzere, ungheresi a caso…”. Tutto questo avviene a microfono aperto, purtroppo. Il popolo degli orientisti assiepato accanto alle transenne sente nominare “Punto” una staffilata di volte di fila, e allora io cerco di depistare cominciando a raccontare una storia senza capo né coda che in italiano “punto” è il segno di punteggiatura... tipo nelle email: chiocciola, punto com... Tutti mi guardano. Scuotono la testa. Da quel momento divento “quello del punto”, che non è male, considerando che l’alternativa era “quello del turco”. Oppure “Only in Italy”.

Altra cosa meravigliosa dei JWOC è che non esiste un copione certo. Ai Campionati del Mondo dei professionisti (WOC) le strambate ci sono ma fino ad un certo punto (Punto!): chi parte in testa, o resta in testa fino alla fine o al limite arriva lì vicino. Ai JWOC chi è in testa al punto 10 può sbagliare al punto 11 e finire in classifica tra le fila di “chi ha fatto la spectator race ma si è perso pure lì”. In un attimo, il leader rotola giù come un tappo di prosecco sotto pressione. E nello stesso altrettanto attimo il bassofondo della classifica azzecca la scelta di percorso della vita e si ritrova nel giro delle medaglie. Qui tutto può succedere. E infatti, succede.

Le prime tre ragazze arrivano al traguardo in cinque secondi (ah! Mia povera voce!), il che è sempre il sogno dello speaker che può sciorinare il vecchio “Non c’è countdown!”. Tra i ragazzi Berger domina e poi rotola lontano, Hammond domina più di Berger e poi inciampa nel cordino della medaglia che gli abbiamo già messo virtualmente al collo e finisce quarto.

Quando arriva il vincitore maschile, lo capisci da lontano. Cammina come uno che non sta camminando: atterra. Più che un atleta, un missile travestito da umano. Ed è il Terminator norvegese della staffetta sprint del giorno prima. Davanti alla transenna ci sono suo papà e suo fratellino. Si abbracciano. Il papà ha le lacrime agli occhi. Io pure. Ma faccio finta di avere un’allergia.

Poi lui prende fiato e la prima cosa che dice è: «Devo ringraziare Markus, il mio amico. Lui ha fatto una mappa del paese e abbiamo studiato insieme le scelte di percorso.». Boom. Altro che “dedico questa vittoria al mio pubblico, al mio coach e a chi non ha mai creduto in me”. Questo è Orienteering. Questo è JWOC.

Intorno, la bolgia aumenta. Cembra sembra l’Oktoberfest, ma con più gente ubriaca.
Al di qua della transenna: speaker box, cavi, telecamere, microfoni e palco a distanza ravvicinata. Di là: musica, vino, pasta, birra, bratwurst, gente che canta, ride, mangia, urla. E ogni tanto si mettono pure a commentare la gara.

Alexander e Nicole, appena dietro la tenda speaker, sono due trottole: intervistano tutto quello che si muove. Atleti, tecnici, passanti, forse pure una pianta di oleandro. Abbiamo sviluppato un codice “Prendo la linea per…” “Copy that, go!”. Si fermano solo davanti ad una ungherese (Rita ovviamente) che puntava a vincere l’oro e si è ritrovata con niente in mano, e all’avvicinarsi del microfono lancia frecce più affilate di un affondo olimpico.

Poi arriva il “momento Bertolino”: c’è un ristoratore che evidentemente non ha ancora esaurito i piatti di pasta e vorrebbe chiamare altri avventori; alla postazione speaker ha sentito parlare solo inglese, così arriva con un tovagliolo scribacchiato male e chiede di poter dire al microfono qualcosa sul fatto che lui ha ancora cibo, e inizia a parlarci a gesti. Gli manca solo di mimare “i maccheroni stanno scuocendo” e siamo dentro Zelig. Alexander cerca di tradurre in inglese il concetto di “scuoce”. Se ci riesce, lo candido al Nobel per la linguistica.

Pausa pranzo. Mentre mastico un panino che urla glutine da ogni mollica e chiede asilo politico dal dietologo, sento qualcuno che mi dice: «Questa cosa che hai detto la compro e me la rigioco a casa!». È fatta: sono ufficialmente una bottega di citazioni.

Parte la spectator race, ma noi iniziamo scialli, ancora in fase post traumatica, e poi io devo mollare il microfono. Alexander si riprende il trono, tanto ormai ha preso possesso della speaker box come se non avesse fatto altro per tutta la vita, e io torno a Baselga.

Missione: organizzare le premiazioni.

In Medal Plaza, zona podio, Flavia gestisce le medaglie e le “vallette” come se fossero opere d’arte, Alessandro sistema le bandiere (che di incidenti diplomatici per oggi anche basta grazie, ma non è ancora finita) e mi dà la possibilità di sciorinare ancora una volta il mio trucco per sapere dove va il secondo gradino del podio rispetto al terzo (mi ci chiamano nelle università per insegnarlo).

Julie è ovunque, io sono da nessuna parte. Non so che incarico ufficiale abbia Julie, di fatto non lo scoprirò mai, ma so che quando serve a me, lei c'è. Basta che ci guardiamo in mezzo al bailamme: 1.90 per uno. Una torre gemella umana che prova a mettere ordine tra urla, musiche e premiati. Siamo il duo “Caos e Calma”. Lei organizza. Io urlo. Funziona!

Il palco è grande quanto un francobollo, la densità umana è tipo centro di Manhattan all’ora di punta. Schierati da sinistra a destra ecco a voi: bandiere, autorità a profusione, casse da concerto dei Pink Floyd, gradino del secondo posto lungo tre metri e pesante cento chili, gradino del primo posto lungo tre metri e pesante uguale, gradino del terzo posto lungo tre metri e pesante pure, cavi, drappi, altre casse da concerto rock, il punto da dove si precipita nel vuoto. Dovrebbero starci pure la mascotte e lo speaker… forse loro li mettiamo in bilico con il vuoto


Tra i drappi ed il vuoto io dovrei riuscire a far stare 12 persone, perché forse a nessuno è venuto in mente che in orienteering si premia il “podio lungo” (top six) e la staffetta è di quattro atleti cada-squadra. Quindi devo far stare 12 persone in tre metri quadri… tipo tram all’ora di punta ma con meno zainetti da consulente figo e meno puzza sotto le ascelle. Il tutto mentre i fotografi vogliono che le foto vengano alla perfezione, la televisione vuole che le immagini risultino di una bellezza cristallina, le autorità aumentano e aumentano e aumentano…

Intanto mettiamo tre pezzi di scotch per terra, poi chiamiamo un coach per ogni nazione, mostriamo lo scotch e spieghiamo come e dove si dovranno mettere i premiati, che dovranno stare uno addosso all’altra in uno spazio limitatissimo. Fino alla Finlandia va ancora bene, anche se lo sguardo è perplesso oltre misura. Poi devo acchiappare la coach norvegese, che sarebbe questa qui…

Lei mi guarda. Non mi capisce. Io la guardo. Provo a mimare. Lei mi riguarda con lo stesso sguardo con cui guarderebbe una roba caduta sul pavimento. Io la acchiappo per le spalle, la metto in posizione e mi schiaccio subito dietro a lei, poi faccio un piccolo passo di lato, la riacchiappo e la rimetto davanti a me. “Ok… one two three four…”. Lei mi riguarda. Scuote la testa. Sta pensando “Only in Italy” o forse ad una denuncia per molestie. Il Safeguarding compera altri fogli protocollo per stendere la relazione finale.

Julie ed io siamo ancora in caccia! “Where are the Aussies?!? Here… you stay here!!!”. I Cechi ridono, le Svizzere fanno occhi grandi come piattini da caffè, Rita organizza da sola tutta l’Ungheria. Io urlo “avanti marsh!” facendo passare la truppa tra un panettone anti-parcheggio, una transenna ed un furgoncino parcheggiato a muzzo suo.

Premiazioni, mille foto. Dovrebbero essere fatte dopo gli inni nazionali ma i rappresentanti media esondano. Corrado, zen come solo lui sa essere, ha in mano gli inni nazionali. Io tengo incrociate dita, gambe, cuffie, speranze. E miracolosamente… tutto fila.

Sul podio si canta, si ride, si piange. Le ragazze posano le corone di fiori sulla testa dei ragazzi, ragazzi, poi viceversa. Baci, abbracci, lacrime sincere. L’addetto stampa mi chiede “dove le hanno comprate?”. Io guardo lo stato dei giardini circostanti e faccio il vago.

Mi allontano, sudato, con un paio di sinapsi rimaste indietro a Cembra.
Pian del Gacc ci aspetta. E io, lo speaker per caso, sarò lì. Microfono in mano, vocabolario mezzo rotto e la speranza che domani… magari ci sia educazione fisica.

Perché sarà ancora una volta una giornata lunga lunga lunga che più lunga non si può.
Non solo per gli atleti. Anche per gli speaker.

Specie per quelli che ancora si ostinano a spiegare la sintassi degli indirizzi email

Monday, July 28, 2025

GEIUOCC 2025 – Giorno 1: il sole picchia, i cuori battono, gli speaker sbattono

Il primo giorno dei JWOC è sempre un po’ come il primo giorno di scuola: emozione alle stelle, aspettative alle stelle, sbattimento pure quello alle stelle. Solo che qui, invece del grembiulino e del diario nuovo con sopra Paperinik (sono vintage, ok?), ci sono magliette sudate, microfoni carichi e atleti che corrono come gazzelle.

E comunque... è andato tutto troppo bene. Troppo liscio. Talmente liscio che ho passato metà giornata a guardarmi intorno aspettando il meteorite.

Feedback sulla cerimonia d’apertura? Un kolossal. Roba che Via col Vento al confronto sembra un cortometraggio per TikTok. Ma pare che sia stata anche apprezzata, quindi noi zitti e buoni. Samuele Acler, chiamato a tradimento e all'ultimo momento per leggere il giuramento degli atleti (se prendi 100 alla maturità, poi la paghi), è sopravvissuto alla prova senza svenimenti o crisi respiratorie. Bravissimo. Kataliina, tredicenne con l’anima da Navy Seal, ha tenuto il palco con più sicurezza di un politico navigato. Le autorità hanno avuto le loro foto, i discorsi sono scivolati via come prosecco caldo in una giornata torrida, e tutti vissero felici e contenti… la notte prima della battaglia.

E il giorno uno comincia subito con il botto.

Mattina: spectator race in Val di Sella.
Pomeriggio: Sprint Relay a Levico, conosciuta anche come “la tonnara” per il mix esplosivo di calore sahariano, orientisti scatenati e logistica che dovrà essere a prova di SWAT.

La pianificazione di questi JWOC? Da manuale: si parte dai due eventi più lontani, con la gara ufficiale più incasinata, e poi pian piano ci si riavvicina verso il centro operativo. Una specie di strategia alla Risiko, ma con meno carri armati e più bus navetta.

È mattina (non primissima: niente eroismi all’alba per ora), e il team speaker si muove. E si divide, tipo cellule terroristiche ma con le pettorine multicolore.

Alexander ed io prendiamo la strada per la Val di Sella per aprire ufficialmente la 5 Giorni. Io poi mi sgancio in modalità “missione segreta” per tornare a Levico, dove verificherò che la speaker box sia effettivamente più di un gazebo con due sedie e un microfono rotto. Lì troverò Nicole, la cui missione mattutina è: presidiare. Presidiare come se fossimo a Fort Apache. Dopo aver finito prima tappa e premiazioni, Alexander ci raggiungerà per la cronaca della Sprint Relay. Tutto previsto, tutto calcolato, tutto pronto per esplodere alla prima folata di vento.

Primo problema: Alexander non ha mai commentato una gara di orienteering dal vivo.

Prima soluzione: Alexander inizia a parlare e dopo 30 secondi sembra nato con un microfono in mano. E io? Io, il veterano, lo speaker esperto, in confronto a lui sembro Bombolo nei film con Tomas Milian. Provo a sabotarlo. Lo mando ad intervistare atleti sfiniti, distrutti, ustionati dal sole trentino e dal dislivello verticale della Val di Sella. Ma niente. Lui becca bambini scandinavi che parlano lingue indecifrabili e parla con loro. Acchiappa master da RSA che sputano dentiere ed analisi tecniche più dettagliate di una allenatrice norvegese.

Insomma: sono quello che arriva a una festa, capisce che non serve a nulla e si eclissa in silenzio, bevendo la CocaCola sgassata vicino al frigorifero.

Ma attenzione: questo è solo l’inizio. Il pomeriggio ci aspetta la Sprint Relay, la madre di tutte le gare, il caos organizzato, la guerra a colori.

Quando arrivo a Levico, il sole ha deciso di giocare a SimCity - Arid Edition: l’asfalto si piega come plastilina, l’aria frigge, i miraggi cominciano a dare del tu alla gente. L’arena è una padella e noi siamo le fettine panate. Non esiste una singola particella del parco sotto i 3000 gradi Fahrenheit. Ho la polvere della Val di Sella nelle orecchie, nel colletto, dentro l’anima. Sogno una birra ghiacciata. Sogno un ice bucket. Sogno il Polo Nord.

Ma sono anche in modalità speaker. E so che se bevo qualcosa adesso, tra mezz’ora dovrò andare al Toi-Toi. E se c’è una sola cosa peggiore di parlare al microfono mentre ti scappa, è dover dire “scusate torno subito” mentre arriva il momento decisivo della frazione finale di un Campionato del Mondo (è successo… ma non a me! Non c’è di che, Per)

Nicole è già lì. Ha presidiato tutto. L’arena, le mappe, il gazebo, i droni, i possibili cavalli pazzi nascosti dietro i cespugli. Ha già affrontato uno dei rappresentanti IOF, categoria “li metti lì e ti puntano il regolamento addosso come se fosse un lanciafiamme”. Evidentemente il distintivo dà accesso a un superpotere: cercare colpe a caso e distribuirle equamente sullo staff più vicino. Ma Nicole è tosta. E se l’è cavata con grinta e un certo stile da marine che resiste all’assalto della trincea.

Io, intanto, scendo in campo con la determinazione di Keanu Reeves in Matrix, quando Nemo dice con gli occhi infuocati: “Ci servono... armi. TANTE armi.”. E io mi armo. Di calma, sorrisi diplomatici e di tutte le comunicazioni ufficiali salvate sul telefono. Cerco Henrik, il responsabile dell’arena, l’uomo che ha in mano le chiavi dell’ordine cosmico e della diretta TV. Mi aspetto tensione. Mi preparo al duello verbale. Sono pronto al “C’è un problema e c’è una soluzione. Noi siamo dalla parte della seconda. Tu da che parte stai?”. Lo trovo. Lo guardo. Gli parlo. E invece… sorpresa! Henrik è ragionevole. Persino gentile. Cioè, gentile gentile, non “passivo-aggressivo IOF style”.

Io espongo il mio mantra: “Non cambiamo nulla in corsa. Tutto è già definito. Ogni variazione rischia di innescare il caos. Meno tocchiamo, meglio va”. Lui ascolta. Annuisce. Pollice su. Sguardo d’intesa. Tensione evaporata. Basta rimanere in contatto visivo, una specie di muto codice Morse: se lui alza un sopracciglio, io lo rassicuro. Se io faccio il gesto “tranquillo”, lui si fida. È un po’ come ballare il tango senza calpestarsi. Quando, a un minuto dalla partenza, mi si avvicina con fare risoluto e dice: “Dobbiamo dare il via dalla postazione speaker” gli sorrido, ma anche no: dalla postazione speaker non vediamo nemmeno se ci sono ancora le atlete schierate. Non vediamo il cronometro ufficiale. Non vediamo nemmeno il cielo. Potremmo dare il via a caso, magari mentre parte il trenino turistico di Levico. Declino. Gentilmente, ma con fermezza. Il via lo dà lui. Noi ci limitiamo a sopravvivere.

In effetti dalla postazione speaker all’inizio vediamo poco o nulla. Gli spettatori praticamente ci circondano, e non vediamo nulla della gara perché il maxischermo è alle nostre spalle, girato verso la zona pubblico. Ma Alexander e Nicole hanno la soluzione: gli spettatori vengono da noi? Allora noi andiamo da loro! Gli speaker invadono la zona del pubblico!!! Mai visto prima (e mai più si vedrà…). Commentiamo la gara direttamente in mezzo agli orientisti, ascoltando e rilanciando la LORO cronaca, affrontando faccia a faccia quelli che ci dicono eccitati che Tizio sta recuperando e che Sempronia ha sbagliato scelta. In pratica, commentiamo il derby dalla curva.

E il derby, la sprint relay, è semplicemente da urlo.

C’è di tutto. Scenari che nemmeno nei sogni di un regista scandinavo. Collassi, rimontone, scelte azzardate, errori clamorosi e qualche miracolo sportivo. A livello junior, l’uguaglianza competitiva è ancora un concetto vago: alcuni volano, altri barcollano. E se moltiplichi tutto questo per quattro quanti sono i componenti delle squadre, questo significa solo una cosa: DRAMMA.

Norvegia: dispersa nei vicoli di Levico alla prima frazione, riemerge come un Terminator nella terza. Israele: terzi a metà gara. Terzi! In un mondiale! Australia: un bambino biondo con lo sguardo da "oggi mi supero" che si lancia all’inseguimento di Cechia e Svezia e… ci riesce! Li va a prendere e li stacca su una scelta di percorso che nemmeno Carlsen contro Nakamura. E noi lì, a bordo campo, in mezzo alla folla, a fare quello che fanno i cronisti delle radio pirata nelle partite della terza categoria: a commentare, ad alzare il livello di pathos, a sudare, a chiederci ogni venti secondi dove diamine sia finito il team finlandese.

Non vediamo tutto, ma quello che vediamo basta per farci perdere la voce e la dignità. Perché poi, dopo la gara… il collasso. Gli atleti arrivano, tagliano il traguardo e si sciolgono letteralmente per il caldo e le salite. Crolli multipli in zona finish, sembrano i finali delle maratone olimpiche degli anni ’80, ma con più asciugamani bagnati da buttare addosso a chi ha tagliato il traguardo. Alessandro & Crew, in una manovra da M*A*S*H, trasformano il tendone interviste in una tenda soccorsi in 4 secondi netti.

Noi ci guardiamo come quelli che hanno appena visto passare il tornado che ora si allontana. Torno alla postazione ma sono talmente stanco che commento la flower ceremony quasi in trance, sostenuto solo dall’adrenalina. E arriva, inevitabile, il momento dei discorsi. E l’adrenalina serve ancora:

“Il vice aiuto assessore della logistica integrata della frazione di Sfungardo della Cencia vorrebbe premiare…” NOOOOOOOOOOOOOO.

“Ci sarebbe un riconoscimento speciale per il sottosegretario della sezione dei giovani animatori del borgo storico…” NOOOOOOOOOOOOOOOOO. DOPOOOOOOOOO.

“Il Presidente è qui e approfitterebbe dell'occasione per dire alcune cose al microfono prima o durante…”  NOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOO!!! SIAMO IN DIRETTA TELEVISIVA!!!

Henrik ci guarda e si fida, sorride appena, fa “Thumbs up” come Fonzie e autorizza la difesa a oltranza della scaletta. La cerimonia fila liscia. La sprint relay è andata. È durata 50 minuti, è sembrata una battaglia epica. Ma ce l’abbiamo fatta. E intorno a noi, spettatori contenti. Alcuni ci ringraziano. Altri dicono che è la prima volta che vedono gli speaker in mezzo alla gente "Only in Italy...".

E allora sì, una è andata.

Il ritorno a cuccia è più lungo del previsto. Sbaglio strada, naturalmente, perché sono bollito. Ho il cervello in modalità frullatore e il corpo in modalità disattivata. E mentre finalmente sto per entrare nella doccia più desiderata dai tempi della maratona di Milano, arriva il messaggio sulla chat degli speaker: “Domani, ore 7:30 a Cembra per la Sprint.” D’altronde, se non c’è pace per tutti quei meravigliosi teams che spostano le transenne, gli arrivi, le partenze e le mille strutture da una parte all’altra della valle, allora non ci può essere pace nemmeno per gli speaker. Almeno, non in un mondo nel quale gli speaker non si limitano a dare tempi, posizioni e risultati finali. Because “We are there not only for that!” (semi-cit.)

D’altronde… Io sono un uomo di mondo: “ho fatto il militare a Cuneo”… ma una sprint relay così, mai vista. E buonasera, signore e signori. Una è andata.