Lome – 10 anni fa (prima parte...)
Ci pensavo questa mattina. Nel 2008 ricorre il decennale della gara di Lome (porc... non ho fatto in tempo a finire di scriverlo che già mi è sceso un brivido dal collo lungo la schiena!).
In genere le persone non credono che ogni volta che pronuncio la parola “Lome” (o la scrivo , porc...) mi arriva un brivido lungo la schiena ed una sensazione di autentico disagio. Magari, pensano, faccio apposta. Magari! penso io...
Forse, quando nella vita capitano delle avventure così al limite, così assurde, così grottesche e così incredibili, la mente ed il corpo registrano una sorta di riflesso condizionato, tipo “galline di Pavlov”. Ed il riflesso condizionato che mi ha lasciato Lome (porc... son qui a dimenarmi sulla sedia!) è quel brivido.
Forse non è stata la gara più faticosa di 15 anni di orienteering (quel premio lo vince di sicuro il Trofeo Lantscher – Steinegg 1999), sicuramente non è stata la più lunga (O-Marathon – 2008), non è stata la più pericolosa (Capriasca – 2007) o la più bollente (Raskovec – 2001). Non è stata nemmeno la più bella gara che ho fatto (potrei scegliere tra Torlanda, all’O-Ringen, o Val di Nos agli Highlands Open, o altre gare ancora che ho concluso diventando più alto di 30 centimetri). No, è solo Lome (porc...!).
1998, allora. Dopo la 5 giorni della Val di Non in luglio, in agosto che si fa? Non ero mai stato in Slovenia, la Cerkno Cup non era poi così lontana, il periodo di ferragosto, la lacation facile con l’albergo di Cerkno colonizzato dagli orientisti... Massì! Proviamo questa nuova esperienza oltre confine. Ricordo la partenza, in una buia notte milanese, Brambi, Bibi, PLab ed io sulla macchina che partì direttamente da Via Sile (Milano) dove io e Sbrambi lavoravamo (ricordo lo spogliarello di Sbrambi che si cavò i vestiti dell’ufficio in strada per mettersi i vestiti da viaggio). Viaggio tranquillo, unico intoppo alla frontiera con la Slovenia dove lo Sbrambi mise in scena una sua personale versione della nota pièce “Come affrontare le guardie di confine: cose da fare e cose da NON fare”. Poi le strade slovene, il passo per Crni Vrh, la salita a Cerkno ed il meritato riposo.
1998. Cerkno Cup. Prima tappa a Crni Vrh. Tanto per spiegare lo schieramento: quel buffone di Stegal iscritto in HA, Sbrambi futuro campione italiano iscritto in HB. La categoria sbagliata era la mia. Ma nel venerdì di Crni Vrh, sotto il caldone sloveno, quella HA non si dimostrò poi così terribile. Partenza ed arrivo molto vicini, una carta con la zona di bosco fatta a goccia rovesciata: partiamo proprio dalla “punta” della goccia e nel tragitto partenza-1-2 incrocio le ultime due lanterne 16 e 17. Gara faticosa ma tranquilla, fa caldo ma non sembra un fattore determinante. La montagna slovena non sembra così diversa da quelle a cui sono abituato. I tempi di gara indicati dall’organizzazione sono rispettati in pieno, tutto sembra filare liscio. Tutto molto bello...
Troppo. Troppo bello. Per durare.
Sabato. Seconda tappa. Lome (porc...!). Innanzitutto una precisazione: per me Lome non esiste! Non è un posto. Non è nulla. Lo cerco ancora, ogni tanto, su ViaMichelin. Non c’è. Ricordo il ritrovo: un caldo asfissiante. Ricordo un cartello giallo, arrugginito, male in arnese, che indicava a destra, lontano “Lome, 4 km”.Quel cartello sembrava uscito da uno di quegli spaghetti western con le città fantasma, le ghost town: anche quel cartello sembrava un “ghost sign”! Ho provato ad allungare lo sguardo in quella direzione, senza vedere nulla; sullo sfondo delle colline indistinte sotto il sole cocente: il caldo di quel giorno sembrava voler liquefare l’asfalto, la strada sterrata indicata dal cartello non portava proprio da nessuna parte, in nessun posto!
Vado in partenza tranquillo. Non so ancora che sta per cominciare la mia avventura più incredibile!
Partenza. E primo piccolo choc. E’ la prima volta che mi trovo a che fare con la tipica carta slovena fatta tutta di depressioni. E sembra anche abbastanza verde. Ma sono fiducioso e mi butto a sinistra aggirando il primo ciotolone che si frappone sul mio cammino.
Primo punto: tutto ok! Per il secondo punto affronto una zona tutta rocce che è molto più ardua di quanto sembra sulla carta; sbarco su un sentiero che degrada rapidamente verso una ampia depressione: dovrei avere attorno a me un bosco bianco, invece è una vegetazione impenetrabile stile delta del Mekong vietnamita. Attacco il secondo punto lungo il sentiero, non tanto per pavidità quanto perchè non riesco nemmeno a trovare un pertugio per uscire dal sentiero e buttarmi nel bosco. Il verde che avviluppa il secondo punto, quella minuscola zona verde ... non riesco nemmeno a descriverla! Vengo respinto una prima volta, poi una seconda. Cambio strategia e ritorno sul sentiero facendo un largo giro per prendere il punto dall’altra parte; incrocio il concorrente partito prima di me che sta andando al terzo punto e che mi dice qualcosa in ... ungherese, credo. Non capisco una cippa ma la faccia è molto esplicativa!
Terzo punto: tutto su sentiero. Ormai l’antifona è chiara: abbandonare la linea nera equivale ad andare incontro all’ignoto. Il punto 4 è ancora abbordabile: le file di rocce spezzano già i muscoli, lo sbarco sui sentieri equivale ad un soffio di aria fresca in una giornata rovente. Il quinto punto è ancora un tragitto su sentiero e poi un duro scontro con un verde intenso. Sul sentiero mi corre incontro Sbrambi: “Gallus! Dove ca$$o siamo? Non ci capisco un ca$$o qui dentro...!!!”. Benedetto Sbrambi, mi chiede una mano in quello che forse è stato l’ultimo momento di lucidità di quel lungo pomeriggio.
Sesto punto: la paura. Nonostante quello che ho visto finora, opto per una scelta nel bosco, a prendere una traccia che dovrebbe farmi aggirare l’ennesima zona di verde pesante. E’ la mia scelta perdente, è la scelta che cambia (in peggio) tutta la giornata. Vago tra le depressioni in un verde pesantissimo nel quale riesco raramente a fare 3 passi in una unica direzione. E’ uno sforzo terribile in una zona di bosco nel quale il caldo si mescola all’umidità soffocante. Non riesco a trovare un solo punto di riferimento congruente con la mappa e ... prendo paura! Non capisco veramente dove mi trovo e non riesco nemmeno a ritornare sui miei passi; passano i minuti ed io non riesco nemmeno a sbarcare su un qualunque sentiero (solo dopo, a mente molto fredda, mi accorgerò di averne mancati un paio veramente di poco, e probabilmente di aver attraversato una traccia senza nemmeno accorgermene).
Finalmente un barlume di lucidità: torno indietro e sbarco su un sentiero. Non sono sicuro del punto in cui mi trovo e provo a chiedere ad una ragazza slovena che passa sul sentiero: la risposta è abbastanza agghiacciante (come ho fatto a finire là in fondo?) ma almeno ho un punto di riferimento per andare al punto. Comincia a far capolino un pensiero sullo sfondo: forse dovrei ritirarmi!
Settimo punto. Cerco i sentieri e l’esperienza del punto 6 mi è bastata per non mollarli fino all’ultimo metro possibile. L’ottavo punto dovrebbe essere in una depressione ai margini del verde: errore. Peccato che il verde si è mangiato tutta quella parte di bosco: la depressione sembra una enorme ciotola piena di insalata, il fondo è invisibile; trovo il punto perchè una concorrente delle DE ci va a sbattere letteralmente addosso senza volerlo ed inciampa a gambe all’aria (il percorso delle DE è lo stesso degli HA).
Nono punto, decimo punto, undicesimo punto. Avanzo come uno zombi nella vegetazione più opprimente che abbia mai visto. Il terreno è roccioso. Le gambe esplodono, i muscoli non ne vogliono più sapere di andare avanti. La testa è asciutta per il caldo.
Fin qui, è stata una passeggiata di salute. Fin qui non c’è nulla di diverso da altre gare “svarionate” che ho fatto prima e che farò in seguito. Fin qui non c’è ancora stato nulla di speciale. Fin qui “Lome” è una parola di quattro lettere. Sta per arrivare la seconda parte di gara.
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Lome – 10 anni fa (l’epopea...)
Per il punto 12 non ho dubbi. Il bicchierino color magenta è troppo invitante, come pure il sentiero che mi accompagna al ristoro. Trovo alcune bottiglie buttate tra i cespugli (pure il recupero del ristoro è un’impresa) e bevo abbastanza da abbassare un po’ la temperatura. La scalata al punto 12 è devastante anche se sono solo pochi passi tra le mille roccette. Così per il punto 13 preferisco.... ripassare dal ristoro!
La strada per il punto 13 è, appunto, una strada. A metà tratta sento arrivare da dietro i tacchetti di qualche atleta che mi sta raggiungendo... vedo passare una ragazza che mi sfila come se fossi un paracarro: è visibilmente stravolta ma, lei almeno, riesce a mantenere una buona andatura. Da buon genio italiota, cerco di starle dietro fino al punto ma pago lo sforzo in uscita: la vedo allontanarsi di qualche metro...
... e la ritrovo poco più in là. Sul sentiero che si frappone tra noi e la 14. E’ una decina di metri alla mia sinistra, mani appoggiate alle ginocchia, e singhiozza. In vita mia mi capiterà altre due volte: alla terza tappa della 5 giorni della Val di Non quando Anne Karin Bondesson - la fidanzata di Cristian Nielsen - praticamente mi sverrà tra le braccia a 200 metri dall’arrivo dopo una bruttissima gara, ed all’arrivo della seconda tappa della 5 giorni dei Forti al Cherle, quando Greet Oeyen piangendo mi disse “Oggi sono arrivata, oggi non dovrò più correre”). Mi avvicino cautamente e cerco, con il poco fiato che ho, di chiedere se c’è qualche problema...
Il problema c’è; in un inglese raffazzonato (devo dire più il suo che il mio, tra pochi secondi scoprirò che è russa) capisco che quella ragazza, che peraltro è partita almeno 40 minuti dopo di me “non ce la fa più”. Non riesce più ad andare avanti, ha dato tutto: le due curve di livello prima del punto 14 non sono nulla, ma la visione delle colline rocciose sulle quali bisogna letteralmente passare da un sasso all’altro le ha dato il colpo di grazia. E’ lì, e non vuole più andare avanti.
Mi cade l’occhio sulle lacrime che le rigano il viso, e poi mi cade l’occhio sul pettorale. Non tanto per una questione estetica, quanto perchè il pettorale che indossa non è comune. Dice “D E 1”. E’ la leader della classifica Elite femminile, e si sta ritirando davanti ai miei occhi perchè quella gara è diventata troppo dura per lei.
Ed io, cosa dovrei dire io? Non lo so, ma la prima cosa che mi viene in mente è: “I’m doing the same course. I wanna go to the finish, so you will come with me. I don’t leave you here alone!”. Passa qualche secondo, i piedi ricominciano a muoversi. Quei 100 metri sui sassi li ricordo come un incubo ad occhi aperti anche se attaccare il punto con la russa che guida l’Elite è ben diverso che dovermelo cercare da solo. E poi ancora avanti, lentamente, lentissimamente, un altro punto simile al 14, un’altra pietraia infinita, ad incitarci a vicenda col poco fiato che ho (io) e con la poca convinzione che ha (lei). E ancora un altro punto ancora, addirittura riesco a recuperare un paio di concorrenti dell’MA che mi avevano superato prima: uno di questi, un italiano moooolto famoso, si stupisce di vedermi passare fianco a fianco con “D E 1” ma forse si stupisce ancora di più per il fatto che la russa ed io stiamo praticamente dialogando e mandando accidenti in tutte le lingue che conosciamo a questo percorso.
Sul punto 17 che dire? Qualcuno può credere che la scelta sia stata mia? Il modo in cui ‘sta ragazza attacca i punti è addirittura irritante... alle sue spalle si è formato un gruppetto; la cosa incredibile è che io, che sono in coda al gruppetto (come mio solito) ogni tanto mi devo staccare di qualche metro per stanchezza. A quel punto lei si gira, non mi vede, mi aspetta e tutto il gruppetto si ferma! L’italiano sopra citato mi fa presente che se solo riuscissi ad avere una andatura più decente non dovrebbero fermarsi ad aspettarmi... (lì mi è partito un vaffa!).
Il dramma si consuma al 18esimo punto. Dopo un tragitto che non potrei descrivere nemmeno sotto tortura (mi basta il ricordo di quell’attraversamento del verde) il gruppetto sbarca sulla strada e accelera. Non ho nessuna possibilità di seguire la mia “virgilia” e le faccio segno di andare. Quando lascio la strada per ributtarmi in un ennesimo inferno di verde so che non avrò nessuna possibilità di trovare il punto... errore!!! Errore nel senso che ci casco sopra senza volerlo!!! E’ una visione troppo bella. Arrivo alla lanterna, sto per punzonare e... mi accorgo di aver perso il cartellino! Non ci posso credere. Mi giro su me stesso, ma mi accorgo subito che in quell’autentica giungla potrei averlo perso ad ogni metro della tratta 17-18, tratta che non sarei in grado di ripetere a ritroso nemmeno volendo.
Le forze mi abbandonano. Sono io, adesso, che mi lascio andare allo sconforto. Mi scappa una lacrima e, capendo di aver perso tempo ed energie inutilmente, mi trascino a bordo foresta per raggiungere mestamente il ritrovo. Sbarco sul prato e lemme lemme affronto il sentiero che mi porta al traguardo. Penso al fatto che avrei dovuto assicurare meglio il testimone, penso a quando sono stato sbadato a non avere cura di quel particolare, penso che forse avrei potuto cercarlo... ma no, dove e come avrei potuto ritrovarlo? Vado camminando a capo chino, triste. Mi fermo ogni tanto ad osservare i paraggi per far si che la mente pensi ad altro... comincio a vedere la zona arrivo, mi sembra quasi di vedere da lontano i miei compagni di squadra nella zona in cui avevamo messo il telo. E’ passata mezz’ora almeno dal mio ritiro. Taglio l’ultimo pezzo di bosco per non arrivare proprio dalla strada. Ecco, sono nel prato, tra poco i miei amici mi vedranno ritirato e...
... ehi! Ma chi è che si sbraccia nel prato? E’ lei! E’ la ragazza russa! Faccio qualche passo di corsa per accostarmi alla sua corsa e lei devia di qualche metro per venirmi incontro. “Ho perso il testimone..:” le faccio segno. “Yes! You lost it, and I found it for you!!!”.
Insomma, il gruppetto che mi aveva staccato si era perso nel verdone! La mia scelta “a fortuna” mi ha portato sul punto prima di loro, il testimone era nelle vicinanze e lei ci era passata sopra e l’aveva raccolto. Si era accorta che ero io (forse si era anche chiesta come diavolo fossi finito davanti a loro) ed aveva appoggiato il testimone sul punto 18!!!
Il mio primo pensiero è quello di dire “Ok, grazie, ma non ho la forza di tornare là dentro”. Ma lei insiste: posso farcela, posso finire la gara, non mi devo ritirare perchè nemmeno lei si è ritirata!
Guardo verso il ritrovo, lei continua a correre verso il traguardo anche se si gira un paio di volte per vedere cosa faccio... forse i miei amici non mi hanno visto, forse ho ancora tempo. Forse ce la faccio. Mi giro e ritorno nel bosco! Affronto tutto il sentiero verso il punto 18: ad ogni metro una parte del mio cervello mi dice quanto sono scemo e che avrei dovuto ritirarmi alcune mezze ore prima. L’altra parte combatte quel pensiero, continua a ripetermi quanto sono eroico, stoico ed impavido in quella mia scelta suicida.
Con la fortuna a favore, rientro nella giungla e ritrovo il punto. E ai piedi del paletto... il mio testimone! Punzono e mi metto a studiare la tratta per il punto successivo, metto la bussola in posizione... e SBAGLIO!!!
Ho dovuto farmi un bell’esame interno per capire perchè ho sbagliato. E sono giunto a questa conclusione: poiché io avevo GIA’ trovato il punto 18, quando ci sono ritornato sopra era come se avessi trovato “un diciannovesimo punto”. Infatti l’azimut che ho cercato di fare era quello della tratta 19-20.
Dopo aver girovagato nel verdone come un cretino, ho finito per ritrovarmi (e lì la mia faccia ha assunto la forma di un autentico punto interrogativo) ancora ai bordi del pratone (percorso blu sulla carta). Nessun problema. Oggi sono Stefano l’inarrestabile. Mi ributto dentro (uso dei verbi molto forti ma, giuro, ormai mi sto trascinando), poi il punto 20: sto viaggiando a ritmo di una lumaca lessa ed i movimenti del terreno vengono incontro ai miei pensieri, consentendomi di fare delle buone scelte. Punto 21: trovato! Sono arrivato, sono arrivato, sono arrivat....
Buio totale. Buio pesto. Esco dal punto in una direzione sbagliata che più sbagliata non si può. Arrivo ad un enorme masso e lo scambio per quello che doveva trovarsi una cinquantina di metri a sud-ovest del punto 21. Arrivo al prato e lo scambio con quello che dovrebbe portarmi all’arrivo. Dovrebbe esserci un sentiero a bordo prato... e tra l’altro è lo stesso sentiero che ho fatto la prima volta per tornare nel bosco! Niente. Vedo un sentiero davanti a me e lo prendo anche se non ci azzecca nulla, non ci sono case attorno, non c’è il tipico trambusto delle lanterne 100... sono finito in un buco spazio temporale???
Niente di tutto questo. Come nella mia prima gara a Ronzone, sono ritornato alla partenza!!! Trovo ancora le cassette ed i paletti dei vari cancelli. Ma non ho la forza per tornare indietro, ancora una volta. La strada mi sembra un miraggio ma anche una salvezza. Arrivo alla striscia di asfalto e con un passo da cui hanno ricavato il film “Dead man walking” affronto il traguardo dalla parte opposta. Vedo i miei amici rivolti, tutti, verso la 100 e poi le loro facce quando compaio dalla parte opposta. Bibi fa in tempo a prendere la macchina fotografica, andare (camminando alla 100) ed aspettarmi, che io sono ancora a metà strada tra l’arrivo e la 100. Punzono e questa volta è veramente finita!
Penso che la frase che ho appena scritto “punzono e questa volta è veramente finita” sia l’unica falsità del racconto di quella giornata. La gara di Lome, nella mia testa, non è mai finita. Non è finita perchè se lo fosse non sentirei quel brivido lungo la schiena ogni volta che pronuncio la parola “Lome”.
Non ho più corso su quella carta, ma forse un giorno ci tornerò. E magari pareggerò i conti. In ogni caso quella gara non appare neanche tra le 100 peggiori della mia vita. Non è stata una gara: è stata una avventura, un incubo, una Odissea ed una prova di orgoglio.E’ stata Lome. Da quel giorno per me è una nuova parola del dizionario. Significa “impresa impossibile”.
Post scriptum:
tempo di gara stimato dagli organizzatori - 50 minuti. Tempo di gara del vincitore (ungherese, Elite): 85 minuti. Tempo di Stegal: 198 minuti.