La O-Marathon. Una “avventura lunga un giorno”, come l’aveva descritta Luigi Girardi in occasione di una intervista rilasciata ante-prima edizione. E’ una definizione bellissima e, secondo me, perfettamente centrata.
La O-Marathon è una gara per quelli forti, per quelli tosti, per quelli che dopo 3 ore serrate di battaglia hanno ancora fiato e testa e concentrazione per spingere a fondo. Ed è una avventura per quelli come me (e per tutta la gamma intermedia, si intende), impiegati, panzottelli, drogati o malati di orienteering. Quelli che non hanno paura di dire che sono arrivati con due ore e 45 minuti di ritardo da Tavernaro (come è successo a me alla prima edizione), o al termine delle premiazioni (come è successo a me alla seconda edizione). Quelli che sanno di non avere nelle gambe più di 5 ore di sforzi (seppur blandi ma continuati), quelli che sanno che su 40\45 lanterne del percorso ne canneranno di brutto almeno il 10% (e se è l’ultimo 10% vuol dire cominciare a sbarellare di brutto dopo 4 ore di gara...).
Che sono anche quelli che non hanno paura di uno sport nel quale (frase che ho coniato sabato pomeriggio) “ogni secondo che passa ed ogni metro che si percorre non ti avvicinano necessariamente alla fine delle sofferenze” (copyright by Stegal 3:16... e non azzardatevi a copiare!). La O-Marathon è tutta qui: non bisogna mollare e non bisogna mai pensare che si può mollare. Non sono mai riuscito a convincere alcuni amici, anche forti e anche molto forti, che la O-Marathon si può (o si deve) fare a ritmo meno sostenuto: c’è chi non riesce davvero a “volare” ogni gara come se stesse facendo una sprint; a questo punto, o sei Anders Nordberg in uno dei suoi ineffabili travestimenti da campione del mondo, o rischi di finire la benzina a metà gara e di non divertirti. La O-Marathon è oltre la soglia della fatica per chi si allena una volta ogni 15 giorni se va bene... è oltre il limite del conosciuto, del gestibile, della sete che ti fa impazzire e della crisi di fame che ti fa avere le allucinazioni. Ma per una volta anche gli impiegati panzottelli hanno la possibilità di tornare a casa orgogliosi per aver fatto qualcosa di super... (e di andare in ufficio il giorno dopo claudicanti come reduci dalla ritirata di Russia)
Tutto questo grazie ad una troupe di amici che organizzano tutti gli anni la “Blodslitet italiana”, la ultra-long dell’anno, senza sconti orientistici per nessuno: non è una gara su sentieri! Si gareggia su alcune delle carte più tecniche della penisola e bisogna cavarsi d’impaccio ogni volta, non per mezz’ora, non per 45 minuti o un’ora o un’ora e mezzo. Quelli come me mettono in conto le 5 ore, e sono 5 ore da sudarsi fino in fondo.
Ovviamente era l’appuntamento che avevo segnato in calendario fin da inizio anno. E avevo provveduto ad iscrivermi subito, il primo giorno nel quale era stato dato l’annuncio della gara. Guadagnandomi il pettorale #1 della gara, quello altrimenti riservato al vincitore della gara dell’anno prima (assente nel 2010) o al leader dopo la prova sprint del sabato (assente nel 2010). L’infortunio di venerdì sera, ovviamente, aveva interrotto tutto questo flusso di pensieri... il ricordo della terribile farfalla di Passo Coe 2008, con il centro della farfalla impossibile da trovare anche per i più sgamati Elite, anche dopo due o tre passaggi; ... il ricordo dell’ultimo ristoro a Passo Coe 2008, con un ritiro annunciato a papà Baccega e poi rientrato alla visione di Rusky che saliva lungo la strada ad un paio di minuti di distacco. E poi l’ultima farfalla del 2009, con una lanterna trovata per panico, per disperazione, per fede e speranza... Tutto questo era svanito come polvere nella pioggia a causa di una maledetta brutta distorsione rimediata solo qualche ora prima. Se avessi potuto riavvolgere il nastro della vita, avrei piazzato tra me e Mezzovico una coda micidiale in dogana a Brogeda ed una inversione ad U che mi avrebbe riportato a casa, forse infelice ma ancora sano. E invece mi sono trovato a Folgaria zoppicante, con una caviglia grossa come un pompelmo, il morale sotto i tacchi e la previsione di una mattinata ad attendere i compagni di squadra del GOK... sapendo che stavano affrontando quelle fatiche che anche io volevo condividere con loro, quei momenti di scoramento nei quali SAI che il traguardo è ancora lontano 3 ore, che devi ancora trovare un numero di lanterne che basterebbero per una intera normale gara long anche se ormai sei sfiinto e di lanterne ne hai già trovate 30.
Svanito tutto.
Domenica mattina la sveglia ha suonato (il gong di Atty) alle 6.45. Una formalità mettersi la divisa con la quale avevo fatto la O-Marathon del 2009, toglierla, punzonare il pettorale sulla divisa Aget e rivestirsi in nero e turchese. A colazione, colgo gli sguardi preoccupati dei miei compagni di squadra: sono preoccupati perchè vedono che non sto bene, che sono triste, ma anche perchè sanno che sono un po’ pazzo e possono aspettarsi di tutto; io faccio finta di niente anche se cammino a fatica (l’ascensore del Muretto ha fatto gli straordinari anche per un piano solo), ma mi rimpinzo come se stessi andando veramente a fare la O-Marathon. Mi chiedono cosa ho intenzione di fare... la caviglia è grossagrossa e si vede ad occhio nudo! Io rispondo che so benissimo di non avere una sola possibilità di finire la gara, e che quindi ho solo intenzione di presentarmi in partenza al Rifugio Valbrona...
Alle 8.30 il GOK al completo è in zona partenza. Dove stazionano già alcuni membri dell’organizzazione che il giorno prima mi avevano visto zoppicare lungo tutto il percorso del trail-O... “Dicci un po’... che cosa avresti intenzione di fare tu?”. La domanda è lecita: non stiamo parlando di una gara in pista. Nella quale si può crollare come Gabi Andersen-Schuess alla maratona di Los Angeles 1984 e rimanere comunque sotto controllo... Qui si parla di una prova nella quale 100 metri dopo la partenza i concorrenti possono essere ovunque. Non è il caso di avere in giro per i monti uno zoppo (che parte già zoppo!) e che potrebbe trovarsi in grossi guai da un momento all’altro. La mia risposta è semplice: “Voglio schierarmi in partenza, poi arrivare alla lanterna svedese... magari fare almeno un punto”.
Un punto. A Passo Coe! Potrebbe essere già una bella sfida... Arrivano anche Carlo Cristellon e Luigi Girardi. Colgo il loro dispiacere (sanno quanto io tenga a questa avventura) e colgo anche la loro preoccupazione; Luigi Girardi si raccomanda di fare attenzione ai passi che muoverò nel bosco, perchè il fondo è quanto mai insidioso con sassi e buchette... ma me ne ero già accorto in un impacciato tentativo di qualche minuto prima, quando mi ero appartato per motivi fisiologici ed avevo già fatto fatica a stare in piedi. Non ho una possibilità di finire la O-Marathon, perchè diamine dovrei solo pensare di cominciarla?
Non lo so. Ma arriva l’orario della partenza ed io, come tutti quanto gli altri folli che si fanno coraggio e si salutano e si abbracciano come in partenza per l’ignoto, sono schierato al via. Per fortuna il pettorale 1 mi garantisce un posto all’estrema sinistra, così sono sicuro di non essere tra i piedi di nessuno... Via! Muovo i primi passi incerti sul terreno e la caviglia continua a lanciarmi lo stesso segnale di “non pervenuto”: non è in grado di reggermi, di mostrare una qualunque parvenza di stabilità, e mi fa un gran male. Raggiungo la lanterna svedese (a 10 metri) e sono stato già superato da quasi tutti, raggiungo il sentiero (altri 10 metri) e sono in fondo alla fila. Gli ultimi a superarmi sono Adele e Stefano, gli altri si stanno già scapicollando lungo la discesa... colgo un attimo la tuta di Bibi e la maglia nera di Maria Grazia già avanti sul loro percorso Elite. Anche loro stanno andando verso l’ignoto ed avranno da faticare parecchio; non serviva che io appioppassi loro anche il fardello di preoccupazioni su cosa avevo intenzione di fare (ma so che penseranno a me durante la gara).
Perchè la mia decisione l’ho presa in 30 secondi. Tra le 8:59:30 e le 9:00:00 (se il via! è stato dato puntuale). Perchè per la prima volta forse in vita mia, in 30 secondi ho letto tutta quanta la carta di gara. E la carta di Passo Coe non mi è mai sembrata così parlante come in quei pochi secondi: punto 1... via per i sentieri e poi su fino alle buche... punto 2... sentiero e poi scollinamento e attacco al punto... punto 3... via lungo i recinti fino al laghetto... punto 4.. .punto 5... Non so fin dove potrò trascinarmi ma so che non dovrò affrontare traversate epiche. Forse qualche punto riuscirò persino a farlo. Intanto però devo smettere di guardare la carta: devo assolutamente tenere d’occhio il punto esatto nel quale appoggio i piedi! La mia avanzata sembra quella di Ridolini... appoggio il piede sinistro per un microsecondo e subito recupero con un nuovo passo di destro. In pratica vado avanti su una gamba sola :-) Ho memorizzato il sentiero: al tornante devo prendere una nuova direzione e buttarmi nelle vallette. E’ il primo momento nel quale lascio un fondo irregolare ma quantomeno visibile, e vedo che prestando la massima attenzione riesco a stare in piedi seppur a prezzo di notevoli dolori. L’attraversamento delle prime curve di livello mi porta a guardare verso l’alto, dove tra poco anche io dovrei arrampicarmi: scorgo la tuta di Rusky ed istintivamente penso al fatto che anche io dovrei essere lì con lui per una nuova avventura... ma lui ed io abbiamo compiti diversi in questa O-Marathon.
Salgo verso la 1. Cerco di leggere la carta ma in zona punto vado un po’ in crisi. Passo Coe è Passo Coe! Non si scherza e non si va avanti alla carlona. Purtroppo il mio infortunio mi impedisce di muovermi agevolmente in zona punto, e se cominciano i problemi devo scegliere tra “ricollocarmi” attaccando il punto da una zona certa (ma sarei costretto a spostarmi) e provare a muovermi in zona sperando di essere “abbastanza vicino al punto”. Dieci minuti. Quindici minuti. Venti minuti. Quanti ne servono per trovare un maledettissimo punto? Provo a spostarmi di poco, poi affronto la fatica di un ricollocamento (perdendo quota e riguadagnandola a fatica)... ancora il punto non si vede. Vuoi vedere che, nonostante tutto, non riuscirò a trovare nemmeno un maledettissimo punto? Un rumore dal bosco... saranno Carlo e Luigi che seguono la truppa per recuperare i punti? No, è un master (sconosciutissimo) che scende verso di me? “Sai dove siamo?”. “Dovremmo essere in zona 31...” dico. “Ok, l’ho vista, è lassopra. Ti ci porto e mi dici dove siamo...”.
Urca! Troppo bello troppa grazia. Il fatto è che questo tizio si muove troppo velocemente per me. Non arriviamo alla 31 ma nel frattempo arriva un altro master... i due si mettono d’accordo tra loro e giustamente mi abbandonano. Resto lì con la mia 31, sono in zona ma non trovo il punto. Finché al 23° minuto, girando lo guardo attorno, la lanterna compare come se niente fosse!!! Il mio primo pensiero è come sia possibile averci girato attorno così tanti senza vederla... comunque un punto è andato. In un tempo impossibile ma è andato. Proviamo ad andare al punto 2, ora. Scendo al sentiero e lo percorro fino ad un punto di attacco... adesso devo scollinare in salita e dovrei trovare dietro la collina un avvallamento; la scalata la affronto “in ginocchio”, nel senso che anzichè appoggiare in salita il sinistro appoggio il ginocchio! Grugnisco di dolore ad ogni passo fatto così, le tenniste che si scambiano bordate al Roland Garros fanno meno casino di me... tanto sono da solo nel bosco; scollino e vedo la lanterna. E... errore: non sono da solo nel bosco! Trovo infatti Alice e Laura dell’Er-Team, che probabilmente si stavano aspettando un attacco dell’Orso Dino!!! Punzono e cerco di sparire nel più breve tempo possibile (compatibilmente...).
Punto 3. Via lungo il sentiero, strascicando i piedi, poi lungo il recinto a scavalcare colline... improvvisamente una figura lontana: “Ehi! Stephen... che succede” “Lascia stare, sto già sbagliando...”. Che cosa succede? Ha dimenticato la 2? Perchè torna indietro? “Stephen... ma che punto stai cercando?” “La 4!”.
“Stevie! Gira la carta!!!” La 4 è dietro le tue spalle, da quell’altra parte...”. Stephen si ferma, borbotta e riparte a gambe levate in direzione opposta. Terzo punto, poi il quarto. Ad ogni punto si fa un check della situazione. Il cervello dice “Ok... dolore tanto, caviglia fuori posto... facciamo un altro punto e vediamo che succede”. Sbaglio il quinto punto portandomi troppo alto nella zona dei sassi (qualche minuto perso) e poi mi inoltro nel “giardino botanico” di Passo Coe dove i punti sono più facili ed il terreno è più piatto. Alla farfalla, vedo ancora Stephen (che la sta finendo) ed Adele e Stefano che sono avanti di una ala rispetto a me... e si chiedono come ho fatto, intanto, ad arrivare fin lì... Finisco la farfalla (14° punto) ed è il momento di rifiatare e di prendere un po’ di gel e di “bomba”. E di avvisare qualcuno della mia posizione.
Eh già. Perchè in uno dei due marsupi di cui sono dotato c’è il mio cellulare, per ogni evenienza. Il primo sms che parte verso PLab che ci fa da assistant coach è lapidario: “Mi muovo verso la 15”. Spero che capisca che è la 15 del percorso Elite. Da lì in poi, ad ogni punto, avrò due appuntamenti: il primo con il check cervello-caviglia: la caviglia bestemmia e non vuole più saperne di andare avanti, il cervello dice “un altro punto ancora”; e poi con il cellulare con il quale segnalerò che vado alla 16... alla 17... alla 18... che sto affrontando la lunghissima discesa verso la 20.
Tutto questo, ovviamente, non si fa in tempo zero se si cammina e ci si tira anche dietro il piede. Infatti quando sbarco al cambio bricchetto sono passate ormai 3 ore di gara: “Truffa” ed i primi hanno già finito la loro prova, l’ambulanza non vede l’ora di andarsene da Passo Coe ed anche gli organizzatori si stanno un po’ stufando di aspettarmi (l’ultimo passaggio, quello di Stephen, risale a venti minuti prima). Trovo infatti al cambio bricchetto nell’ordine: PLab che è stato cooptato dall’organizzazione e gestisce l’arrivo dell’ultimo (io), una bottiglietta di acqua, un bicchere di the, Carbogel a volontà ma non ne ho bisogno. Soprattutto, però, è il primo momento nel quale devo veramente attaccare il cervello e capire cosa voglio fare e cosa posso fare nelle ore successive. E per farlo posso appoggiarmi al cervello di PLab, il quale ha più raziocinio di me che ho passato le ultime tre ore a grugnire e cercar lanterne...
Le opzioni sono due. Posso provare ad andare avanti, rischiando di finire veramente cotto lungo la cresta che sulla carta provinciale porta verso Serrada... un trasferimento che potenzialmente ha connotazioni orientistiche molto inferiori e che mi porterebbe anzi ad allontanarmi di brutto da qualunque aiuto esterno di cui potrei aver bisogno. E’ il momento della P.M., anzi del ritiro, ma non lo sto vivendo come tale (anche se un po’ di tristezza c’è, dai...). D’accordo con PLab, decido allora di affrontare una seconda parte di gara più agevole.
Il mio primo pensiero, voglio dirlo subito, è andato e va ancora adesso a coloro che (in qualunque categoria) hanno fatto tutto il percorso soffrendo sotto il solleone della salita ed affrontando poi la discesa sulle piste da sci: non voglio e non posso associarmi alla loro fatica perchè io ho fatto un pezzo di gara in meno. Spero che sarò perdonato. La O.Marathon è una gara nella quale non si deve mollare e non si deve mai pensare che si può mollare... ma ogni tanto è d’uopo riflettere ed attaccare il cervello anche nel rispetto degli organizzatori. Io mi sono fatto raccattare da PLab dopo 3 ore di gara e mi sono fatto lasciare in corrispondenza della piccola galleria lungo la strada verso Serrada. Ho saltato 6 lanterne ma volevo arrivare a Serrada leggendo la mappa...
E qui è successa una cosa strana. Quando sono sceso dall’auto e mi sono incamminato lungo il nastro d’asfalto (con quel pettorale #1 ed una andatura che avrà fatto venire mille domande a chi mi ha incrociato), improvvisamente ho colto il fatto che dal basso... dalla caviglia non arrivavano più segnali. Di nessun tipo. Un pezzo di carne insensibile. Come se dal ginocchio in giù fosse stato dichiarato sciopero selvaggio... Il piede bloccato in un gran taping continuava a procedere per inerzia, l’altro (il destro) a spingere nella mia O-Marathon-su-un-piede-solo. Mi sono detto “Se la caviglia è andata, magari potrei accennare ad un passo di corsa...”. Non l’avessi mai fatto!!! Sono partite persino le trombette sudafricane a fare un gran casino... meglio continuare al passo strascicato e non svegliare il can che dorme.
Affronto il primo punto (28) da un lato della strada, poi il 29 dall’altro addirittura in bussola (finendo giustamente lungo di una ventina di metri per cotanta superbia). Il punto 30 è semplicemente in fondo ad un lungo sentiero ed improvvisamente mi trovo immerso in un bosco bellissimo e pulitissimo... che purtroppo non affronterò nella farfalla più infame e più murettosa e più verde e più labirintica dai tempi di Paluzza!!! Di quella farfalla ricorderò i 15 minuti circa passati a cercare il punto 33 trovato per caso a 150 cm dalla mia sicard quando, per disperazione, mi sono detto “Vado al centro del cerchietto, e basta!” (questo me la dice lunga, a me medesimo, sul fatto che non contavo il “salto di lanterne” come una P.M.... avrei in effetti potuto mollare la 33 e puntare sulla 34 ma sarebbe stato come fare veramente una P.M.!). Ricorderò alcuni muretti scavalcati in puro stile Fosbury, ovvero: 1) guardo al di là dell’ostacolo per vedere se ci sono pericoli, 2) mi appoggio di schiena al muretto, 3) mi lascio cadere dall’altra parte a corpo morto... Per fortuna Michele Franco non mi ha visto!
Alla fine di ancora tanta sofferenza (non della caviglia che ormai aveva finito di sgolarsi, ma del mio fisico che anelava acqua e nutrimento... essendo passate ormai le 5 ore di fatica) sono arrivato al termine della farfalla; sentivo già la voce di Andrea Rinaldi al microfono per l’inizio delle premiazioni. Ho iniziato il trasferimento verso l’abitato di Paluzza sperando di arrivare alla chetichella... e non mi è riuscito proprio per niente! Ci hanno pensato le persone dello staff all’arrivo a segnalare a “the voice” il mio piombare sul traguardo.
Considerazioni finali.
Ad un giorno di distanza, posso dire che “mi fa male ogni cosa”. Ieri sera ho troncato quasi sul nascere il racconto per il blog perchè mi facevano male pure le dita che picchiettavano sulla tastiera. Oggi, se possibile, va un po’ peggio: il fronte “caviglie unite” ha trovato validi alleati dal nocciolino alla base del collo fino a tutti i muscoli della schiena e delle gambe.
Ma va bene così. Ho tempo un paio di settimane per rimettermi in sesto...
Personalmente considero la mia O-Marathon non conclusa, ma obiettivamente non pitevo fare di più senza mettermi nel pericolo e senza far preoccupare oltremodo gli amici e gli organizzatori-amici... Ho fatto tutto quello che potevo, anzi credo di essere andato molto oltre il limite che pensavo di avere. O, come ha detto Davide, “la mia soglia di sopportazione del dolore è quella di un caterpillar”.
Allora... stai a vedere che aveva ragione Corradini quando durante la sua partecipazione a SuperQuark parlava di lattato e di soglia del dolore !!!
:-)))
Ho un annuncio, per me e per l’O-universe. L’anno prossimo tornerò.
Più vecchio. Con ancora meno forze. Ma spero più sano di quest’anno. Sarà ancora O-Marathon, finché ne avrò le possibilità.