Stegal67 Blog

Friday, May 30, 2025

Ceci, mostri di fango e altre atrocità

L’orienteering è uno sport nel quale gli alti e i bassi si susseguono senza soste. Bisogna metterli in conto, punto. Alti e bassi nello stato di forma – d’altra parte mica mi chiamo Kasper Fosser, che se inciampa su una radice probabilmente vince lo stesso con cinque minuti di vantaggio e si scusa pure. Alti e bassi nella fase tecnica – perché non sono nemmeno Simone Luder, che probabilmente trova i punti anche bendata, ubriaca e con la cartina stampata al contrario. E sì, ho appena fatto name-dropping di due campioni, tanto per dimostrare ad alcune persone che ho conosciuto recentemente che anche se non conosco la storia dell’orienteering meglio della mia password del Wi-Fi, due nomi li so. Tre, contando me stesso: l’uomo che sbaglia anche con l’azimut tracciato col righello e lo spirito guida di Gueorgiou che gli urla nelle orecchie.

Tutto è relativo: quello che per me è un "alto", per qualcuno è un “meh”. E quello che è un mio "basso" potrebbe facilmente diventare, per altri, un “ma chi te lo fa fare alla tua età?”. Che detta così sembra una domanda retorica, ma nel mio caso è una diagnosi.

Il periodo, in termini assoluti, si aggira nei dintorni del basso/bassissimo dal punto di vista tecnico,  del bassissimo/inaccettabile da quello fisico, e del Dexter Morgan con crisi mistica da quello morale.
Sì, insomma, se la mia preparazione fosse una serie TV, sarebbe una via di mezzo tra Black Mirror e Un medico in famiglia: disturbante, confusionaria e con un protagonista fuori ruolo.

Salvo eccezioni. Rare, ma piacevoli. Piacevoli forse perché rare, tipo vedere Jeremy Clarkson su una bicicletta. Ma diciamocelo: si sarà mai divertito Gueorgiou che non si perde mai? Avrà mai provato il brivido, la scarica di adrenalina, quel “oh cavolo sono morto – ah no eccolo il punto!”? Io sì. Tante, tante volte. E a volte, incredibilmente, mi ritrovo pure. A volte per un punto, a volte per una gara intera.
Una di queste è stata la seconda gara della Due Giorni del Trebbia a Bobbio e Ceci.

Ok, chiariamo.
Non è che io sia andato più veloce del solito (ma nemmeno più lento, e già questa è una notizia). Non è che i miei attacchi al punto fossero degni del già citato francese con pizzetto mefistofelico, ma nemmeno ho fatto l’anatra decapitata che gira su se stessa. La fregatura, manco a dirlo, è arrivata al punto 7. Un punto banalissimo se solo fossi salito fino al sentiero, se solo avessi attaccato dalla curva. Ma no. Il mio cervello ha pensato “sono salito abbastanza” e invece no. Aveva mentito. Risultato: ho girato attorno a ogni roccia come un cane da tartufi col GPS in corto circuito, finché sono arrivato a guardare la forestale (la strada, non il corpo armato – anche se una volante sarebbe stata utile per ritrovare il punto). Io guardavo la strada. La strada guardava me. È scattata una tensione romantica e imbarazzante. Alla fine, sono risalito da sud lungo il sentierino fino alla famigerata curva, dove risuonano ancora le mie urla e probabilmente un paio di parolacce sono rimbalzate fino in Val d’Aosta.

E la statua di fango immortalata?

È accaduto al punto 12. Fatto benissimo, tra l’altro. Sì, ogni tanto capita anche a me. Scollino, giù lungo il nasone fino alla sella, aggira la collina tenendoti a destra. Perfetto. Poi guardo giù nel baratro e penso: “Il punto è lì. Vai giù, uomo!”. Mi siedo e mi lascio scivolare sul mio posteriore con la dignità di un pinguino zoppo. Solo che sotto, come peraltro chiarissimo a chiunque sappia leggere una mappa, c’era un altro sentierino, a ricciolo. E il ricciolo, come noto, porta sempre al disastro.

Rotolo giù. Fango, acqua, una buca, altra acqua, altro fango, molto fango, male parole interiori, male parole esteriori, e infine: io, coperto di fango come il mostro della laguna nera, che stringe una cartina lurida ma intatta come un reduce di guerra che torna a casa solo col cappello.


Conclusione:
Nel 2017 a Ceci me la cavavo. Nel 2025, con 8 anni di “esperienza” in più (leggasi: affaticamento, scuse, crisi esistenziali e scarpe sempre sbagliate), ho comunque portato a casa la pellaccia. Archivierei la trasferta con un incoraggiante e generoso “dai, benino”. Il che, per i miei standard, è quasi un trionfo. Clarkson direbbe: “It didn’t explode. I call that a win.”





Friday, May 23, 2025

Non c’è countdown!”… e altre storie da portare sull’arca dei ricordi

Lo confesso: quando mi esce dalle corde vocali la frase “Non c’è countdown!”, lo faccio con tutto il fiato che ho in corpo, come se dovessi svegliare una foresta addormentata. E ormai lo sanno tutti. Persino i sassi ed i massi attorno a me, qualunque sia la differenza tra le due cose in ISSOM o ISPROM (sigle e cose che non ho mai capito e che non voglio capire, perché, come diceva Feynman, bisogna pure conservarsi delle oasi di ignoranza). Lo sanno pure i piccioni della piazzetta di Rotonda. Quel grido, per chi sa ascoltarlo, è il segnale che qualcosa di importante sta per succedere. È il momento in cui le emozioni si condensano e diventano storia.

In ogni occasione, ho cercato di fare del mio meglio. Come a fine aprile, a parecchie centinaia di chilometri di distanza da casa. Tre giorni, tre gare, quasi dieci ore di commento live. Ho cercato di dare voce a ogni arrivo, ho cercato di raccontare ogni emozione, ogni risultato, ogni lacrima e ogni sorriso. Ho urlato troppo, sì – lo so, lo so!!!!! – ma l’ho fatto con il cuore pieno, la voce rotta e la voglia matta di rendere l’idea grande di un evento che grande avrebbe voluto esserlo davvero anche senza la mia presenza.

Un microfono serve per rendere mille emozioni

Ho una buona notizia e una meno buona…” – anche questa frase è diventata un piccolo rito. Un momento che tanti genitori, quando arriva sul traguardo o compaiono là in fondo alla run-in, attendono con un misto di ansia e speranza. Elena Margiore che corre per Gabriele Giudici, Alexander Schuster che porta in trionfo Elisabeth, Kathrin e Kilian, e il sorriso impagabile di mamma Manuela quando scopre che anche papà Alexander ha portato a casa il titolo. E come dimenticare la reazione di Pierdomenico, a cui frega di meno sapere di essere argento ai campionati italiani master, perché vuole solo sapere qualcosa di suo figlio Mattia, la cui medaglia di bronzo tra i giovani diventa in un battibaleno l’ariete che sfonda la porta delle sue emozioni irrefrenabili. Helmuth Soelva che si ferma a metà respiro quando sente che Jonas è podio in Elite. Nicola Bonato che mentre sta là in cima, sopra il costone che sovrasta l‘arrivo  dove arriva nitida la voce dello speaker, sente il nome di Giada e poi le parole “campionessa italiana” e si dimentica di correre la sua gara perché in quell’istante non conta più nulla tranne venire giù nel più breve tempo possibile per il primo abbraccio.

E come dimenticare Damiano Bettega, secondo al traguardo in Elite, che trasforma l’espressione da uno sconsolato “vabbè” a “WHAT?!” quando realizza che anche suo fratello è nei top five. O lo zio Adriano, impietrito alla stessa notizia come se avesse appena letto il finale di un giallo con un doppio colpo di scena carpiato. O la faccia di Sebastian quando realizza che in testa alla Elite ci sono lui e Noemi: fratello e sorella, insieme.

Abbracci, sguardi, promesse

Gli arrivi raccontano molto più delle classifiche. Abbracci tra chi ha vinto e chi è appena stato battuto. Lacrime, di delusione o di incredulità. La voce spezzata dell’atleta Elite che arriva al traguardo e ancora non ci crede di aver finito una gara impossibile. Le voci dei ragazzi che ieri erano bambini e oggi ti guardano da pari. Le ragazze che ieri giocavano a fare le “sottilette” e oggi sono spine nel fianco in ogni categoria.

E poi c’è quella cosa bellissima: chi taglia il traguardo, e prima ancora di prendere fiato, prende il microfono e ti dice “come avevi detto tu… è stato bellissimo”. E tu ti dici: ok, almeno questo me lo avete concesso…

L’amarezza. Dopo 513, 514, 515 gare come speaker. Dopo aver prestato voce a WOC, EOC, JWOC, WMOC e Coppe del Mondo. Dopo aver fatto apripista più di 500 volte. Dopo la gara long (3 ore e 43), la middle (1 ora e 23), il labirinto di Rotonda, e ore e ore al microfono… mi sono sentito dire che le mie parole hanno “mortificato la Calabria”, che l’evento meritava di meglio. Eppure avevo detto solo: “Non è la Calabria che scopre l’orienteering, ma è l’orienteering che scopre la Calabria”. L’ho detto come complimento. L’ho detto con l’orgoglio di chi sa che Piani di Masistro, Piano Pedarreto e Rotonda non sono solo località, ma diventano memoria collettiva, diventano parte della geografia emotiva di questo sport.

Perché sì, io voterò il middle di Cristian nel sondaggio di WorldofO. Sì, vedremo le foto di questi arrivi sulle bacheche per mesi. Sì, gli atleti condivideranno le loro tracce per dire “Io c’ero. Io ci sono riuscito.” Ma forse – ed è qui l’amara ironia – tutto questo non basta. Resta quel rimprovero, e allora… anche basta così. Grazie, la prossima volta rimango nei paraggi di casa


 

Post scriptum:

Promemoria per me stesso:

Imparare a non urlare “Non c’è countdown!” ogni cinque minuti.

Imparare a non urlare, punto

Imparare a lasciarsi scivolare via le cose che non vanno

Limitare le gare all’alba (forse).

Ma soprattutto: trovare le forze per continuare ad esserci, perché questa voce, finché servirà, continuerà a raccontare nello stesso identico modo in cui l’ho fatto fino a poche ore fa

NELLO
STESSO
IDENTICO
MODO

Non sperate che io cambi registro. Non posso farlo. Sarebbe come chiedere ad un falco di volare all’indietro, come insegnare a Thierry a perdersi nel bosco, come imporre ai ragazzi ed alle ragazze di spegnere il loro sorriso.







Visto che sei arrivato fino a qui, tanto vale che io vada avanti con alcune considerazioni personali, che non contano niente (come me). Come è questo orienteering in salsa calabro\lucana? E questa Coppa dei Paesi (non più tanto) Latini?

Località suggestive, panorami mozzafiato, accoglienza calda (a tratti proprio calabrese, dove dopo 5 minuti di chiacchiere sei uno di famiglia), ma… quanta fatica per farli quei 330 iscritti! Già, perché tra Coppa Italia, Campionato Italiano Middle e l'intramontabile Latinum Certamen, di cui ormai si favoleggia come del Festivalbar, il parterre era, come dire… selezionatissimo. In fondo, partecipare alla Coppa dei Paesi Latini nel 2025 sembra un po’ come presentarsi a una cena di gala con lo smoking pensando di essere sul red carpet quando gli altri sono già passati da un pezzo al trancio di pizza sul divano di un loft meno dress code e più smart casual. Dove sono finiti i tempi in cui i francesi si presentavano al via con coloro che stavano appena alle spalle di Sua Maestà le Roi Gueorgiou? Gli spagnoli che “eh ma quando mai gli spagnoli ci faranno un baffo (da conquistadores) nell’orienteering…?” e oggi basta leggere le classifiche alla voce “Ana Isabel Toledo” o “Maria Prieto del Campo” ed altri ancora. E poi i belgi con la loro compostezza e quel fatto di essere latini un po’ tanto del nord, ma per capire a che livello siamo, basta leggere sempre alla voce Yannick Michiels degli ultimi anni, ma non solo. E gli svizzeri dell’Engadina che “Eh si… poi invitiamo gli svizzeri e ti arrivano quelli crucchi dai cantoni zurighesi a portarsi via il trofeo!” (come se non bastassero ticinesi o engadinesi per farci a fettine?)

Eh, forse hanno confuso il Latinum con un nuovo spin-off di Suburra. Oppure, più semplicemente, ormai c’è un calendario così zeppo ma così zeppo che per trovare un buco per una gara internazionale ci vuole più fortuna che per entrare alla facoltà di medicina. E noi? Noi ce la cantiamo e ce la suoniamo. Ma lo facciamo bene, eh?

Spostando l’attenzione sulla partecipazione, però, qui un piccolo mistero degno di Montalbano. Io non è che sono molto bravo a fare i calcoli, ho solo la mia laurea in Fisica, ma ho contato che su circa 330 atleti, appena otto provenivano dalle regioni del Sud. Chiaro che molti atleti e molte atlete avranno dato una mano ad organizzare… ma otto? Di cui solo tre in categorie che assegnavano titoli italiani. C’è più gente in fila davanti a una pasticceria la domenica mattina.

Eppure, spesso si sente dire: "Eh, al Sud non ci sono mai gare!" Bene, eccole. Fatto. Venite! Venite a vedere se Sebastian Inderst e Anna Pradel di cui si favoleggia negli articoli di P.I. hanno una testa due gambe e due braccia come tutti gli altri o se “Eh… cosa vuoi… hanno quattro gambe e corrono con il motore incorporato!”. Scherzi a parte, la questione secondo me è seria. Dico ma non dico, eh?  Ma se si vuole davvero uno sviluppo omogeneo della disciplina su tutto il territorio nazionale, forse bisognerebbe riflettere un po’ di più su dove si mettono le gare chiave, oppure su come evitare che i 330 del centro nord in coda in autostrada sulla via del ritorno pensino “ne è valsa la pena?”. Soprattutto quando ci si trova in un momento di "nuova legislatura" (messaggio anche per il precedente Consiglio Federale, che ha passato la “peppa” al nuovo), dal quale tutti si aspettano scelte illuminanti, o almeno accese. In fondo, non è che portando una Coppa Italia in Calabria si risolva il problema della partecipazione delle centinaia di tesserati delle regioni del sud come per magia. Se, come dicono certi benpensanti delle mie parti che il sud l’hanno visto solo nelle serie Netflix “Lì non ci sono neanche i treni che arrivano in orario…”, figuriamoci le classifiche.

Intendiamoci, le gare sono state bellissime. Complimenti a chi ha scelto i terreni di gara. Complimenti a Cristian Bellotto e Simone Grassi. Tracciati intelligenti, terreno stimolante, mappe benissimo fatte, location da cartolina dentro e fuori dal bosco che a tratti a me sembrava il Cansiglio, a tratti il carso, a tratti Millegrobbe, e da qualche settimana è solo ed esclusivamente il Pollino. Ma se organizzi un bel concerto in cima al Monte Pollino, poi ti stupisci che non arrivi tutto questo pubblico dal nord, e allo stesso tempo non sei in grado di comprendere il motivo per il quale non è venuto quasi nessuno dal sud, forse il problema non è nel volume dell’amplificatore.

In definitiva, applausi a chi ha corso, ha organizzato (Sandro Passante e Maura Carluccio in primis) e ha resistito. E un pensiero gentile a chi ancora crede che il Latinum Certamen sia un evento di respiro internazionale. Lo è stato. Come Ritorno al Futuro. Ma ora, magari, è tempo di aggiornare il DeLorean.