Come camminare all’indietro e confondere gli angeli custodi
Chi ha avuto la geniale idea di fissare la partenza della mia gara sprint di Mezzano alle 13:30, sotto il sole trentino a piombo, con un’umidità che nemmeno nella giungla vietnamita durante la guerra? Ah già, gli stessi che pensano che il pettorale debba essere spillato come una bandiera pirata alla pancia, ignorando la fisica dei corpi… in evoluzione. Ma io, come un pensionato che si ostina a voler montare l’antenna da solo sul tetto, ci sono andato. Con la mia mappa, la mia dignità (residua) e l’illusione di non fare figure troppo imbarazzanti. Niente da fare: a Mezzano, lungo uno dei percorsi più belli degli ultimi anni, (grazie Aaron Gaio e GS Pavione) ho camminato all’indietro per tre volte.
Tre. Non una, non due. TRE. Perché ho “preso lungo” una
casetta, poi un incrocio, poi un’altra delle mille casette. Girare la mappa? E
poi rigirarla? No grazie: il mio sistema vestibolare è stato aggiornato
l’ultima volta nel 1987, e il mio equilibrio si basa più sul ricordo che sulla
realtà. Avevo due opzioni: o camminare all’indietro come un gambero senile,
oppure cominciare a girare e rigirare su me stesso e con la mappa rischiando di
vomitare come se stessi leggendo Ulisse di Joyce in giapponese,
sottosopra, sulle curve che percorrono la Val d’Aveto. Ho scelto la dignità.
Cioè… la meno umiliante delle due, diciamo.
Il bello è che a Mezzano in gara tutti correvano come se li fossero inseguiti da una mandria di cinghiali radioattivi. Io ricordo che arrancavo con la leggerezza di un frigorifero che ha fatto un sogno in cui era un ghepardo.
Ma poi, domenica, il miracolo. Passo Cereda. Gram posto. Posto
magico, silenzioso, boscoso, poetico. Alle sei e mezza del mattino c’era solo
il rumore degli uccellini e il mio stomaco che brontolava come una lavatrice
con dentro i sassi. Parto con calma. Molta calma. Calma biblica. Guardo
la malga davanti alla partenza con lo sguardo di Mosè che contempla il Mar
Rosso prima di decidere se davvero valga la pena attraversarlo.
La gara lunga. Una delle long più belle, dice
Dopolavori. Io aggiungerei anche “una delle più letali per le articolazioni
dopo i 50”. Verso il penultimo attraversamento stradale entro in modalità
“blackout totale”: glicemia sotto le scarpe, neuroni in fuga, cuore che mi
guarda e dice: “Fratello, sei sicuro di voler salire fin là?”. Si, sono stato
sicuro, a costo di finire sotto un pulmino degli sloveni in parcheggio, in
manovra di parcheggio proprio nel punto in cui io stavo decidendo di atterrare
dal bosco (dal sentiero delle mucche) per arrivare all’ultimo attraversamento.
Ma prima l’apparizione. Punto 62. Nessuno attorno da secoli,
se si esclude il fossile di un concorrente visto parecchi punti di controllo
prima (ciao Rachele, spero tu sia sopravvissuta). Nel nulla, sento un rumore.
No, non era la Natura. Era un uomo. O forse una creatura mitologica. Balzava
tra rocce e tronchi come Iron Man strafatto di Enervit. Io, che ormai mi
muovevo come un Roomba scarico, l’ho guardato e gli ho chiesto con voce da
predicatore in crisi di fede: “Sai dov’è la 62?”. “Certo, è qui a 20 metri. Ci
sto andando.”
E puff, sparito in una nuvola di muschio. L’ho seguito.
Lento, brutto, incerto, probabilmente piangendo dentro. Ma ci sono arrivato. Al
punto 62. Miracolo. Al traguardo, confuso ma vivo, racconto dell’incontro. E Roberto
Pradel, con la calma con cui si commenta l’arrivo della primavera, mi dice: “Ah
sì, era Cristiano Simoni.”
Scusate. COSA?
Cristiano Simoni. Uno degli dei dell’orienteering anni ’90.
Gente che, mentre noi io sbattevo contro i pini cercando un bivio di sentieri, lui
aveva già vinto titoli italiani a manetta. Un uomo che al confronto, io, sono
una creatura uscita da un incrocio tra una foca in letargo e un navigatore
rotto. E’ lui che mi ha trovato nel bosco. E poi all’arrivo ha detto ai suoi
amici dell’US Primiero: “C’era uno brizzolato che cercava un punto”. Brizzolato.
Non “coraggioso”, non “tenace”. Brizzolato. Come dire: “Lo zio stanco”.