Stegal67 Blog

Wednesday, February 26, 2025

Parma e dintorni - to be continued

E quindi, alla fine, eccomi qui. Di nuovo. Passano le stagioni, cambiano i Presidenti ed i Consigli Federali, ed io sono ancora qui. Di nuovo. Come in un film in cui il protagonista si risveglia da un lungo sonno e scopre che il mondo è andato avanti tranquillamente (più tranquillamente?) senza di lui, mi sono ritrovato al via della mia prima gara del 2025. Ma come? Non avevo forse passato gli ultimi mesi a occuparmi di orienteering? Non ero forse stato immerso fino al collo in cartine, percorsi, tracciati, analisi di curve di livello e discussioni interminabili sui migliori punti di controllo? Magari fosse stato quello. In realtà, si ok sto un po' forzando la mano, ma tanto chi è che legge le mie parole? mi è sembrato di passare il tempo tra una assemblea di condominio ed un'altra. Con l'intermezzo di altre (vere) assemblee di condominio a spezzare la solo apparente monotonia delle altre. Potrei condurre un approfondito studio sociologico, ma il risultato lo conosco già: le assemblee, di qualunque esse siano, non fanno altro che aumentare il grado di misantropia che mi accompagna.

Tanto orienteering, quindi, eppure fino a questo momento la mia bussola non aveva ancora danzato tra le mie dita al ritmo di Rebel Yell (magari!) in una vera gara. A meno che non contiamo la mia poco palpabile presenza alla “innominabile” competizione, della quale però non possiamo ancora parlare diffusamente fino a quando i termini della prescrizione non saranno trascorsi. E no, non parlo di farmaci.

Ma torniamo a me, torniamo alla gara, torniamo al momento in cui, finalmente, salutato da un boato della folla plaudente, il mio piede ha toccato il terreno da concorrente. E che bello è stato farlo a Parma e dintorni! "Dintorni", già... il termine mi fa sorridere, perché significa correre nei luoghi che frequento per lavoro, in una strana mescolanza di realtà parallele che, per qualche ora, si sovrappongono perfettamente come le trasparenze di una carta da orienteering.

Colorno. Un nome, una promessa. La partenza è stata subito epica: punto uno, io che mi concentro, attraverso tutta la carta, arrivo al primo controllo e... ecco che arriva il signore indignato! "Ehi, quello è su una proprietà privata! Vi faccio multare!". Mi guardo intorno e per un attimo mi chiedo se non sia finito in una surreale versione lombarda della gara innominabile: "Colorno, provincia di Milano". Ma no, tutto rientra presto, il percorso scorre fluido e liscio come l’olio.

E per il dopo gara? Un bel piatto di fettuccine al sugo di polpette. Patitemi, voi che siete ancora lì a destreggiarvi tra le due tappe nel primo baretto scrauso che capita!

Ma la vera sorpresa arriva nel pomeriggio, a Paradigna. Arrivo al ritrovo e sento una serie di voci eccitate “Testa di caxxo!!! Arbitro di m3rda!! Vaffanc…!!!” che si rincorrono da una tonalità all’altra. Ma sono solo gli illuminati genitori di alcuni bambini impegnati a giocare un torneo di palla calciata. Noi siamo a 20 metri di distanza a cambiarci sulle panche, con la Masi mescolata all’Interflumina shakerata all’OTPGea con una spruzzata di Punto K ed una ciliegina di PPN servita in salsa di “che scelta hai fatto dalla 5 alla 6?”.

La manche a caccia di Paradigna dimostra una volta per tutte una grande verità: aver tracciato mille gare serve ad assicurare un ottimo percorso, ma se ti chiami Christian Greci per creare qualcosa di degno di nota ne bastano due. Christian Greci era solo al suo secondo tracciato (ipse dixit), eppure ha tirato fuori un piccolo gioiello di orienteering, con le persone attorno che ci chiedono, ci incitano, ci fanno i complimenti. E, no, non sto sognando: è successo davvero.

E qui mi permetto un pensiero: Parma, con Montanara e Paradigna, ha tutto per ospitare una Coppa del Mondo Sprint! Avete sentito, palati fini? Qui si potrebbe fare qualcosa di grande, qualcosa di memorabile, qualcosa che renderebbe giustizia alla bellezza e alla complessità del nostro sport.

Ora mi restano le gambe pesanti, il lunedì da dolorante, la gioia di aver ritrovato le lanterne e la sensazione di aver finalmente "rotto il ghiaccio". Ah no, fermi tutti. Questa espressione non posso più usarla. Nel mio possibile potenziale nuovo ruolo, meglio evitare certe metafore: i pattinatori su ghiaccio potrebbero non gradire.

E dunque, avanti così. Il 2025 è iniziato. Ed è solo l'inizio. E io sono ancora qui. Di nuovo.

Monday, February 17, 2025

Extreme Day

Extreme Ways. Così cantava Moby, raccontando di sentieri tortuosi e di scelte che portano lontano. E ieri Milano, la mia Milano, si è rivelata attraverso strade conosciute e altre dimenticate, in una giornata che avrebbe dovuto essere solo una passeggiata e invece si è trasformata in un viaggio dentro il volto meno raccontato della città.

Marco ed io, entrambi nati nel ’67, entrambi quindi alle soglie dei 58 anni, io più vecchio di lui di qualche settimana (segue immutabile ed immancabile scambio di battute sul fatto che per una volta è lui a dovermi inseguire ed immancabile risposta “pensa a quando ti sorpasserò!”) ci concediamo ogni anno questa passeggiata che ci porta in luoghi talvolta solo immaginati, a sondare un pezzo della strada che abbiamo fatto nella nostra vita e a scavare davvero tanto a fondo nel nostro intimo e nei nostri pensieri quotidiani.

Abbiamo iniziato il cammino, perché di puro e semplice cammino questa volta si è trattato, in Via Cavriana. C'era un tempo in cui qui si trovavano gli uffici di UBI Banca, un luogo che per molti attuali colleghi significava lavoro, routine, scelte economiche e burocratiche. Oggi, il paesaggio urbano sembra immobile, cristallizzato in un'era di transizione tra un passato solido e un futuro incerto. Qui il cemento racconta storie di affari e di scrivanie ormai vuote. Via Cavriana mi è sembrato essere un posto pronto per essere tagliato fuori dal mondo, un mondo che lo smart working ha reso meno bisognoso di uffici e palazzi in vetro e acciaio, di servizi e luoghi di ritrovo (fosse solo per una pausa caffè) ma che non ha ancora ridato spazio e possibilità di crescita a chi potrebbe ambire anche solo ad una esistenza dignitosa: a soli 200 metri da noi, Viale Forlanini conduce da una parte dritto al centro della Milano Olimpica, e dall’altra all’aeroporto di Linate, collegando due estremi che non sempre si concedono il lusso di fermarsi a riflettere, ma lasciando ovattato e sullo sfondo il rumore del traffico che fa da sottofondo ininterrotto alle giornate.

Abbandonato il quadrante est della città, dove saremmo tornati a riprendere le nostre auto, siamo approdati vicino a dove Marco ed io abbiamo vissuto per qualche tempo, ancora lontani l’uno dall’altro da compagni di squadra che non si frequentano anche fuori dai boschi. Porta Lodovica rimane un'area che per me ha un significato tutto personale: ieri il negozio di mio papà, il tragitto per andare a scuola o al lavoro. Ieri siamo entrati proprio nei cortili dove ha sede il centro medico dove porto mia madre a fare le visite periodiche per i suoi acciacchi. Che differenza tra una normale giornata della settimana e la domenica: durante i giorni feriali, nei cortili si affacciano persone di ogni età che attendono una visita, aspettano un responso che potrebbe essere felice o che potrebbe portare a nuove ansie. Quante volte ho percorso quelle strade, quante volte ho atteso il termine di un esame medico, tra un bar anonimo e la sedia troppo dura di una sala d'attesa? Ho ripensato a quelle giornate scandite dall'ansia e dalla speranza, a quelle ore trascorse con lo sguardo fisso su un display che annuncia turni e numeri. Milano sa essere crudele e indifferente, ma sa anche accoglierti nel suo abbraccio asettico fatto di ospedali e di medici che, nonostante tutto, lottano ogni giorno. Di domenica, lo scenario è diverso: gli abitanti dei cortili si riappropriano della loro quotidianità, non si aspettano il comparire di facce nuove e bene abbiamo fatto Marco ed io a prendere i nostri passi ed allontanarci verso una nuova meta.

La stazione di San Cristoforo ci ha accolto con il suo paesaggio ferroviario, con binari che sembrano condurre verso il nulla e promesse di riqualificazione che, come sempre, restano sospese nell'aria. Qui dovrebbe sorgere, prima o poi, un nuovo ospedale destinato a sostituire San Paolo e San Carlo. Si dice, si progetta, si discute. Ma intanto la città continua a esistere nei suoi angoli di attesa e precarietà. Ho attraversato la passerella sopraelevata, guardando le rotaie e chiedendomi quanti altri occhi, come i miei, si siano posati su quello scenario, immaginando un futuro che tarda ad arrivare. I muri scrostati, i graffiti che raccontano storie di rabbia e di speranza, il vento che porta con sé il suono distante di un treno in arrivo. Ho respirato profondamente, cercando di assorbire ogni dettaglio, ogni frammento di quella realtà sospesa.

Proseguendo lungo via Bisceglie, ho ripercorso i luoghi che per dodici anni sono stati il mio mondo lavorativo. Certe strade si imprimono nella memoria con la forza dei giorni ripetuti, degli stessi tragitti, degli stessi semafori. Qui un tempo lasciavo l'auto prima di partire per le trasferte, un punto di partenza e di ritorno, una routine che oggi appare quasi estranea, come un capitolo di vita chiuso e archiviato. Ho osservato gli edifici, alcuni ancora familiari, altri cambiati, trasformati da nuove insegne, nuovi colori e nuovi brand. La consapevolezza che dietro alla città tutta luci e rumori e successo e soldi che sono stato abituato a vedere c’è una pletora di situazioni al limite della vivibilità, se non ben oltre la vivibilità, se non addirittura oltre la soglia della vergogna quando ci viene sbattuto in faccia lo scenario nel quale ancora oggi a Milano le persone possono essere costrette a vivere. E’ proprio vero che talvolta basta dare una occhiata al di là del muro per accorgersi che esiste una realtà parallela e molto più complicata e disagevole rispetto a ciò che crediamo di vedere ogni giorno.

Ma ogni viaggio ha una fine, e la mia giornata si è conclusa bruscamente con una telefonata dall'ospedale. L’ennesimo dottore. Mia madre. Codice giallo. Ricovero. Il resto del percorso non lo ricordo in dettaglio, lo ha scritto la preoccupazione, il bisogno di esserci, il pensiero che certi cammini sono irrilevanti rispetto alla fragilità della vita. Marco mi ha riaccompagnato attraverso quella città che non si ferma mai, che non concede pause, che sembra sempre impegnata a inseguire qualcosa di sfuggente.

Di questa giornata resteranno i passi, i luoghi, i pensieri. Resteranno i sussurri percepiti nei racconti frammentati che rimbalzavano da una bocca all'altra. "Nel buio della metropolitana correvano voci incontrollate e pazzesche. Si diceva che alcune squadre erano state fermate dalla polizia e portate in questura…". Se non avessi visto con i miei occhi un verbale di polizia, mi limiterei a riportare questa frase con la voce del mitico Fantozzi.

Restano le strade di una città che muta, che si nasconde dietro la facciata scintillante, che tra una vetrina e un grattacielo custodisce angoli di estrema bellezza e di estrema ingiustizia. Il nome del protagonista ed il suo brand di tre lettere non li troverete in questo racconto. Perché non si sa mai chi legge il blog. Ma se chi legge ha la pazienza di guardare oltre la superficie, di seguire il filo di queste parole come una mappa invisibile, allora forse riuscirà a vedere Milano non solo per ciò che vuole mostrare, ma anche per ciò che cerca di nascondere e che il protagonista cerca da dieci anni di renderci consapevoli.

Tuesday, February 11, 2025

Per una volta, il pre-MOO

E anche quest’anno, il giorno è arrivato. Il giorno del MOO.

Dicono che le tradizioni siano rassicuranti, che diano un senso di continuità, di stabilità. Ma poi capita che anche le tradizioni vengano messe in discussione, che ogni tanto sorga il dubbio: e se fosse l’ultima volta? Se quest’anno fosse quello in cui tutto si interrompe per cause di forza maggiore?

Dieci anni di MOO. Dieci anni in cui abbiamo macinato chilometri, sfidato il freddo, la pioggia, il traffico, la stanchezza, i ritardi dei mezzi pubblici, le interruzioni sulla linea delle metropolitane, i diabolici quesiti di Remo e, ultimamente, anche gli anni che passano inesorabili. Eppure, ancora oggi, non posso fare a meno di chiedermi: cosa sarebbe successo se, in quella prima edizione, Marco non avesse avuto un paio di scarpe di ricambio e non avesse potuto cambiare i mocassini e l'abbigliamento da semplice passeggio con il quale si era presentato al via? Se quel giorno non avesse piovuto, rendendo il tutto ancora più epico? Se il tram su cui erano assiepate le squadre che lottavano con oi per una posizione ai piani alti non si fosse fermato e noi non avessimo deciso, all’ultimo, di correre davanti al tram per una manciata di chilometri?

Queste sliding doors della vita mi tormentano, perché so bene che ogni piccolo dettaglio avrebbe potuto cambiare tutto. Senza quella serie di coincidenze, senza quel gran genio di Remo e la sua capacità di creare un evento che è molto più di una gara di orienteering, oggi non saremmo qui. Forse non saremmo mai diventati “Quelli del ‘67”, i SENATORI del MOO.

Già, i senatori. Un titolo che ci siamo guadagnati con le scarpe infangate, con i polpacci doloranti, con il fiatone dopo l’ennesimo sprint improvvisato per non far scendere la media sotto il livello di guardia. Ma anche un titolo che, forse, l’anno prossimo non avremo più. Per cause di forza maggiore, si dice in questi casi. Per cause che, almeno per quanto mi riguarda, potrebbero anche essere davvero belle (una richiesta per Remo: visto il caos che ci sarà e lo spiegamento di controlli, evita di mettere il MOO in corrispondenza dei Giochi Olimpici... chiedo per un amico!). È presto per dirlo, ma il pensiero rimane lì, scomodo come un sassolino nella scarpa.

E allora mi chiedo: come sarà questo MOO? Sarà l’ennesima avventura da raccontare con il sorriso, oppure avrà il sapore amaro delle cose che si fanno con il dubbio che sia l’ultima volta?

So solo che Milano, quest’anno, mi sembra diversa. Non è più la città che mi accoglieva con le sue luci e il suo fermento, con la sua energia un po’ caotica ma in fondo familiare. Milano mi sembra più cupa, più inquieta, più dannatamente pericolosa.

La gente è sempre più nervosa, pronta a esplodere alla minima scintilla. Una volta si sfogava al bar, discutendo per un rigore non dato o per l’ennesima assemblea di condominio (a proposito: nel 2024 ho partecipato a due distinte riunioni di condominio, in due condomini diversi, ed entrambe hanno visto l'intervento delle forze dell'ordine chiamate per sedare una rissa o per raccogliere le denunce post schiaffi). Oggi, invece, basta una suonata di clacson nel traffico per rischiare di essere trascinati fuori dall’auto e presi a pugni. E allora mi viene da pensare che forse ho meno paura ad andare nei boschi da solo all’alba, tra gli orsi e i sentieri nascosti, che ad attraversare la strada nel mio quartiere con il semaforo verde e sulle strisce. 

Eppure, il MOO è sempre stato un antidoto contro queste inquietudini. Perché ogni anno, lungo la strada, abbiamo trovato qualcosa che ci ha fatto ridere, che ci ha fatto sentire vivi, parte di qualcosa di grande.

Penso ai turisti giapponesi che ci guardavano increduli, che ci fotografavano mentre correvamo con le mappe in mano, convinti forse di aver assistito a qualche bizzarro rito milanese. Penso ai passanti che ci fermavano per chiedere cosa diavolo stessimo facendo, e alla nostra risposta, sempre un po’ vaga e sempre un po’ fiera: "Stiamo facendo il MOO". Penso alle turiste eleganti di Montenapoleone, che ci scrutavano perplesse mentre sfrecciavamo accanto a loro, sudati e ansimanti, immersi nella nostra folle caccia al prossima quesito. Penso a quei momenti in cui tutto sembrava surreale, eppure tutto perfettamente naturale.

E penso a Remo, a "quel gran genio di un mio amico", che ogni anno riesce a sorprenderci con percorsi sempre più folli, sempre più imprevedibili. Sarà un caso che l’anno scorso una delle mappe fosse “Corvetto odia”? Forse no. Forse, in fondo, Remo sa che il MOO è anche questo: un modo per esorcizzare le paure, per attraversare la città con occhi diversi, per riscoprirla anche nei suoi angoli più oscuri.

Chissà cosa succederà domenica. Magari troveremo ancora turisti incuriositi, magari ci ritroveremo a commentare le nuove mode milanesi, o forse ci limiteremo a correre, come sempre, seguendo le indicazioni sulle mappe e cercando di battere il tempo. Spero solo che, nel momento in cui avremo quelle dieci mappe in mano, ogni dubbio, ogni inquietudine scomparirà. Ci sarà solo il MOO, e il primo “MUOVITI!!!” urlato da Marco a spezzare ogni esitazione. E per un giorno, almeno per un giorno, il tempo smetterà di pesare sulle mie spalle. Saremo ancora noi, "Quelli del ‘67", quelli che corrono, quelli che ridono, quelli che non si arrendono. E se anche questa fosse davvero l’ultima volta, beh, che sia una dannata ultima volta da ricordare!

Ci rileggiamo dopo il MOO. Se l’ispirazione prenderà il sopravvento. Se avrò ancora fiato per raccontarlo.

Monday, February 10, 2025

Renate? No, Renon

Anno non bisesto, ma anno un poco funesto, almeno per quanto riguarda il mio orienteering… chi l’avrebbe mai detto che il primo disastro di percorso del 2025 sarebbe stata la mia classifica nella “Stakanov List” dell’Unione Lombarda Milano? Già, perché siamo a febbraio inoltrato e ancora non ho corso nemmeno una gara di orienteering. Zero, nada, il nulla cosmico. Una gara l'ha corsa pure Larrycette nel frattempo!!! E mentre i miei compagni di squadra timbrano lanterne come se fossero cartellini in fabbrica, io ho collezionato solo una serie di giochi di parole e coincidenze geografiche.

Per esempio: lo scorso weekend avrei potuto andare a Renate per la gara della Polisportiva Besanese, e invece dove sono andato? A Renon! Una sottile differenza di una sola sillaba, ma con conseguenze catastrofiche per la mia classifica (sebbene con conseguenza positive sulla mia linea e sul mio stato di forma fisico e mentale). Mentre gli altri accumulano punti preziosi sotto il cielo brianzolo, io me ne stavo tra le montagne altoatesine, impegnato a raccontarmi e raccontare storie di sport cosiddetti (ma non necessariamente) minori che valgono quanto mille punzonature.

Perché sì, le gare in questi altri sport non le corro (mica perché non voglio, ma perché come faccio a trovare un pattino della misura 50??? e poi, si, non me le lasciano correre perché se casco per terrà gli frantumo la pista di ghiaccio...) ma le storie non mi mancano. Per esempio, vogliamo parlare di Hanna Mazur? Segnatevi questo nome, perché quando questa ragazza polacca vincerà una medaglia olimpica, potrete dire che lo avete letto per la prima volta su questo blog. Nella sua vita sportiva succede pure questo: la sua federazione non riesce ad iscriverla ufficialmente a una gara internazionale? Nessun problema: il padre la carica in macchina e si sciroppa di notte un Varsavia-Collalbo con arrivo alle 7 del mattino, e lei è lì, pronta a gareggiare, iscritta per acclamazione popolare. Roba che, se la racconti in un film, ti dicono che non è credibile.

E poi c’è la storia della ragazza portoghese che ha quasi riscritto il mito di Stephen Bradbury nel mondiale “mass start”. Una fuga iniziale a 6 che in gergo ciclistico si definirebbe “bidone”, di quelle che il gruppo lascia andare convinto che prima o poi verrà ripresa. E invece… succede il pandemonio: davanti cade la prima olandese, che aspetta il gruppo inseguitore e si mette in prima posizione, che se non è lo speaker che urla al microfono che è davanti solo a frenare il ritmo perché in testa è rimasta la sua compagna di squadra, le favorite sono ancora lì che fanno surplace sull’anello di ghiaccio. Solo che all’ultimo giro cade anche la seconda olandese, poi cade la coreana, poi si arrota pure la norvegese! E in volata arrivano sparpagliate in tre con le energie al lumicino e la lingua di fuori e così il titolo mondiale dello sport del ghiaccio va al Portogallo, argento alla Spagna e bronzo ad una ragazza degli Stati Uniti che fino a quel momento aveva visto solo doppiaggi in pista.

Non posso non menzionare la mamma olandese che prima mi ha fatto le pulci sulla pronuncia dei cognomi degli atleti e delle atlete della nazionale, e poi è andata a rompere i maròni anche da quelli della televisione tedesca. Quando ha spiegato per l'ennesima volta che il nome della sua Jasmine si pronuncia "Giasmain", ma non Giasmain come lo sto leggendo io e voi bensì una roba con tutte le vocali e le consonanti arrotolate in un modo allucinante, anche i tedeschi, che di solito sono precisi su queste cose, l’hanno cordialmente mandata affanc... 

Infine, anche questa volta sono tornato a casa senza la possibilità di dire che un atleta italiano o una atleta italiana aveva vinto il campionato del mondo. Emily Tormen, da Pieve di Cadore (hanno cercato di spiegarmi dove sta Pieve di Cadore... e che è? lo speaker dell'orienteering non sa dove si trova Pieve di Cadore???) nei 3000 è rimasta ad un passo dal grande traguardo, battuta solo negli ultimi due giri da quel diavolo di austriaca che risponde al nome di Jeannine Rosner (4 ori mondiali e tutte a casa). Ma il momento che più mi ha fatto venire la pelle d’oca è stato l’ultimo giro dell’ultima gara, la mixed relay, quando la stessa Emily ha dato il cambio in testa al suono della campana con 3 decimi di vantaggio sul tempo da record del mondo del Canada. In quel momento ho sentito un brivido assurdo e ho pensato che anche io, sull'ultima curva prima del traguardo, avrei potuto dire il celeberrimo "qualcosa sta per succedere" (Tokyo 4x100). Ma quell’ultimo giro è stato fatale, e nemmeno questa volta ho potuto annunciare un titolo mondiale.

Cambia lo sport, cambia appena il nome della località, ma non cambia la regola fondamentale: ci sono più storie nei nostri sport minori di quante stelle ci siano in cielo.

E intanto io continuo a guardare la “Stakanov List” con lo stesso spirito con cui Rick Blaine guardava Ilsa Lund partire sul volo per Lisbona: “We’ll always have Renon”.