Stegal67 Blog

Wednesday, July 30, 2025

GEIUOCC 2025 – Giorno 2: Cembra e quella transenna sottile tra realtà e delirio

Sono le ore 7:30 a Cembra, ridente paese che regala il nome alla omonima valle. In realtà, credo che non stia ridendo nessuno, e già da un pezzo. In effetti, a giudicare dalle facce, Cembra ride come un impiegato del catasto il lunedì mattina.

Mi piacerebbe poter dire “Il paese si sveglia al suono delle transenne che vengono posate, dei gazebi e delle strutture che vengono innalzate sul viale principale…” ma temo che riceverei una serie di sonore pernacchie. Gli speaker arrivano alle 7.30, ma a giudicare dalle chat dell’organizzazione alcune squadre sono a Cembra già dalle 5 del mattino, se non prima, a posare transenne, alzare gazebi ed installare palchi e strutture varie che, come ho già avuto modo di dire più volte, continuano a non volerne sapere di spostarsi in autonomia da un punto all’altro delle valli.

Quindi no, penso che non rida nessuno.

Alle 7.30 apre anche la quarantena dei partecipanti, che saranno chiusi dentro in una struttura nella frazione di Faver: mi chiedo a che ora abbiano potuto fare colazione i ragazzi e le ragazze, se l’hanno fatta, se hanno dormito, se hanno sognato, se sono in grado di chiedere un ulteriore sforzo ai loro muscoli. Alle 7.30 l’aria è comunque ancora frizzante, ma sappiamo che la giornata diventerà bollente e soprattutto lunghissima: abbiamo una gara sprint valida per i Campionati Mondiali junior, una gara di contorno, il ritorno a Baselga per organizzare le due cerimonie di premiazione della sprint relay e della sprint, e poi il Team Official Meeting. Manca solo… una voce dal cielo che ci dica “siete su Scherzi a Parte” e poi ci porti a casa in elicottero

I microfoni per me, per Alexander e Nicole sono pronti. L’orologio corre inesorabile. E noi? Noi stiamo per entrare nell’antro della bestia, nel cuore del delirio. Ai JWOC non c’è tempo per il riscaldamento. Ti butti nella mischia come in quei sogni in cui ti chiamano a fare l’orale di greco e non hai studiato perché pensavi che ci fosse educazione fisica.

Ore 9.00. La sprint è cominciata, e lo schieramento della batteria speaker è consolidato: Nicole gestisce le interviste per la IOF TV acchiappando per la collottola tutti quelli che passano in posizione da podio, in un caleidoscopio di nazioni e colori e lingue straniere; Alexander si divide tra la panca di commento vera e propria e i 10 metri dopo la linea del traguardo per intervistare atlete ed atleti che tagliano il traguardo in un mix tra il trafelato e il “più di là che di qua”, ma che alla vista del microfono rinvengono e rispondono a domande tecniche ed esistenziali in un inglese da BBC.

Io resto alla postazione speaker, perché il mio inglese non lo capisce nessuno… …però la gente ha ormai capito il codice Morse del mio microfono.

“Urlo forte” = qualcuno sta arrivando (potrebbe anche essere un gatto).

“Urlo fortissimo” = forse succede qualcosa di buono (ma non garantiamo).

“Bomba sonica” = ehi, forse sì.

Il fatto è che di tutti i partecipanti ai JWOC ne conosciamo per nome e per fama più o meno il 10%. E per il restante 90% si va col metodo Wikipedia-alla-cieca: vedi una maglia norvegese, urli “potrebbe vincere!”, e se lo fa davvero… sembri preparato. È un po’ come giocare al Fantacalcio senza conoscere i giocatori, ma con molto più sudore.

Solo per fare un esempio, qualche giorno prima dell’inizio delle gare, gli addetti stampa (gente che durante la sprint relay, in pieno delirio della seconda frazione, è arrivata in postazione speaker a domandare come funzionava la gara) mi avevano chiesto per ogni gara (= 5 gare) i nomi di almeno 10 favoriti e 10 favorite (= almeno 20 nomi diversi, per 5 gare), e magari qualche notizia su di loro.

E io che potevo dirgli? Prendete tutta la Norvegia, che non ho idea di chi siano salvo una che tornerà buona più avanti, ma se sono norvegesi… Prendete tutta quanta la Svezia, che è chiaro che se vesti la maglia gialloblu non sei proprio il più scarso della batteria. Prendi tutta la Svizzera, e per i motivi vedi sopra alla voce “Svezia”. Prendi tutta la Finlandia, non dimenticare tutta la Cechia!!!, Vuoi non mettere dentro qualche francese e tre o quattro ungheresi a caso (dice niente il nome di Rita Maramarosi?)? Mai sottovalutare l’orgoglio dei britannici, e poi vuoi che tra polacchi e australiani non salti fuori nessuno? … e la lista è presto fatta. Praticamente le pagine gialle. Di fatto, la lista finisce nel cestino.

Ma non puoi sbagliare: magari il fenomeno di giornata è proprio quello che parte alle 9:02, e ti ritrovi che ti sei perso la perla delle perle mentre stavi ancora cercando il tasto per accendere il microfono. Alle 10:30 ritorna l’addetto stampa. Sguardo sicuro, laptop già caldo, aria da "io ho capito tutto". Mi guarda e dice: “Ormai possiamo scrivere il pezzo, la Elli Punto ormai è in testa da più di un’ora!”. Io lo guardo. Lo guardo davvero. Quel tipo di sguardo. Proprio QUELLO LÌ. Quello che avete imparato a conoscere

E poi inizio a spiegare: “Vedi, una gara di orienteering si svolge con una partenza al minuto… e ce ne sono ancora quasi centocinquanta in gara”. Ma la gara? Il pezzo? Le tempistiche? Io glisso sull’arrivo imminente di un turco a caso, il che mi dà la possibilità di mostrare ai coach del team a cavallo del Bosforo che avevo imparato bene come pronunciare il nome della loro nazione: da qualche tempo (e magari hanno anche qualche ragione, visti certi Presidenti che girano…) non vogliono sentirsi associare a nessun tacchino.

Questo fatto Alexander lo sapeva già, glielo aveva spiegato il presidente della conferenza mondiale del sa-il-Signore (Alexander ha un solo grado di separazione con chiunque, fosse anche il Papa) e non esistono cose che lui non sa, ma io sono cascato dal pero e questo fatto apparentemente innocuo e di pura (mia) ignoranza aveva scatenato un ennesimo incidente internazionale durante il primo Team Official Meeting.

Ma la Elli Punto…???”. “La Elli Punto lasciala lì che devono ancora arrivare cinque svedesi, quattro norvegesi, quattro svizzere, ungheresi a caso…”. Tutto questo avviene a microfono aperto, purtroppo. Il popolo degli orientisti assiepato accanto alle transenne sente nominare “Punto” una staffilata di volte di fila, e allora io cerco di depistare cominciando a raccontare una storia senza capo né coda che in italiano “punto” è il segno di punteggiatura... tipo nelle email: chiocciola, punto com... Tutti mi guardano. Scuotono la testa. Da quel momento divento “quello del punto”, che non è male, considerando che l’alternativa era “quello del turco”. Oppure “Only in Italy”.

Altra cosa meravigliosa dei JWOC è che non esiste un copione certo. Ai Campionati del Mondo dei professionisti (WOC) le strambate ci sono ma fino ad un certo punto (Punto!): chi parte in testa, o resta in testa fino alla fine o al limite arriva lì vicino. Ai JWOC chi è in testa al punto 10 può sbagliare al punto 11 e finire in classifica tra le fila di “chi ha fatto la spectator race ma si è perso pure lì”. In un attimo, il leader rotola giù come un tappo di prosecco sotto pressione. E nello stesso altrettanto attimo il bassofondo della classifica azzecca la scelta di percorso della vita e si ritrova nel giro delle medaglie. Qui tutto può succedere. E infatti, succede.

Le prime tre ragazze arrivano al traguardo in cinque secondi (ah! Mia povera voce!), il che è sempre il sogno dello speaker che può sciorinare il vecchio “Non c’è countdown!”. Tra i ragazzi Berger domina e poi rotola lontano, Hammond domina più di Berger e poi inciampa nel cordino della medaglia che gli abbiamo già messo virtualmente al collo e finisce quarto.

Quando arriva il vincitore maschile, lo capisci da lontano. Cammina come uno che non sta camminando: atterra. Più che un atleta, un missile travestito da umano. Ed è il Terminator norvegese della staffetta sprint del giorno prima. Davanti alla transenna ci sono suo papà e suo fratellino. Si abbracciano. Il papà ha le lacrime agli occhi. Io pure. Ma faccio finta di avere un’allergia.

Poi lui prende fiato e la prima cosa che dice è: «Devo ringraziare Markus, il mio amico. Lui ha fatto una mappa del paese e abbiamo studiato insieme le scelte di percorso.». Boom. Altro che “dedico questa vittoria al mio pubblico, al mio coach e a chi non ha mai creduto in me”. Questo è Orienteering. Questo è JWOC.

Intorno, la bolgia aumenta. Cembra sembra l’Oktoberfest, ma con più gente ubriaca.
Al di qua della transenna: speaker box, cavi, telecamere, microfoni e palco a distanza ravvicinata. Di là: musica, vino, pasta, birra, bratwurst, gente che canta, ride, mangia, urla. E ogni tanto si mettono pure a commentare la gara.

Alexander e Nicole, appena dietro la tenda speaker, sono due trottole: intervistano tutto quello che si muove. Atleti, tecnici, passanti, forse pure una pianta di oleandro. Abbiamo sviluppato un codice “Prendo la linea per…” “Copy that, go!”. Si fermano solo davanti ad una ungherese (Rita ovviamente) che puntava a vincere l’oro e si è ritrovata con niente in mano, e all’avvicinarsi del microfono lancia frecce più affilate di un affondo olimpico.

Poi arriva il “momento Bertolino”: c’è un ristoratore che evidentemente non ha ancora esaurito i piatti di pasta e vorrebbe chiamare altri avventori; alla postazione speaker ha sentito parlare solo inglese, così arriva con un tovagliolo scribacchiato male e chiede di poter dire al microfono qualcosa sul fatto che lui ha ancora cibo, e inizia a parlarci a gesti. Gli manca solo di mimare “i maccheroni stanno scuocendo” e siamo dentro Zelig. Alexander cerca di tradurre in inglese il concetto di “scuoce”. Se ci riesce, lo candido al Nobel per la linguistica.

Pausa pranzo. Mentre mastico un panino che urla glutine da ogni mollica e chiede asilo politico dal dietologo, sento qualcuno che mi dice: «Questa cosa che hai detto la compro e me la rigioco a casa!». È fatta: sono ufficialmente una bottega di citazioni.

Parte la spectator race, ma noi iniziamo scialli, ancora in fase post traumatica, e poi io devo mollare il microfono. Alexander si riprende il trono, tanto ormai ha preso possesso della speaker box come se non avesse fatto altro per tutta la vita, e io torno a Baselga.

Missione: organizzare le premiazioni.

In Medal Plaza, zona podio, Flavia gestisce le medaglie e le “vallette” come se fossero opere d’arte, Alessandro sistema le bandiere (che di incidenti diplomatici per oggi anche basta grazie, ma non è ancora finita) e mi dà la possibilità di sciorinare ancora una volta il mio trucco per sapere dove va il secondo gradino del podio rispetto al terzo (mi ci chiamano nelle università per insegnarlo).

Julie è ovunque, io sono da nessuna parte. Non so che incarico ufficiale abbia Julie, di fatto non lo scoprirò mai, ma so che quando serve a me, lei c'è. Basta che ci guardiamo in mezzo al bailamme: 1.90 per uno. Una torre gemella umana che prova a mettere ordine tra urla, musiche e premiati. Siamo il duo “Caos e Calma”. Lei organizza. Io urlo. Funziona!

Il palco è grande quanto un francobollo, la densità umana è tipo centro di Manhattan all’ora di punta. Schierati da sinistra a destra ecco a voi: bandiere, autorità a profusione, casse da concerto dei Pink Floyd, gradino del secondo posto lungo tre metri e pesante cento chili, gradino del primo posto lungo tre metri e pesante uguale, gradino del terzo posto lungo tre metri e pesante pure, cavi, drappi, altre casse da concerto rock, il punto da dove si precipita nel vuoto. Dovrebbero starci pure la mascotte e lo speaker… forse loro li mettiamo in bilico con il vuoto


Tra i drappi ed il vuoto io dovrei riuscire a far stare 12 persone, perché forse a nessuno è venuto in mente che in orienteering si premia il “podio lungo” (top six) e la staffetta è di quattro atleti cada-squadra. Quindi devo far stare 12 persone in tre metri quadri… tipo tram all’ora di punta ma con meno zainetti da consulente figo e meno puzza sotto le ascelle. Il tutto mentre i fotografi vogliono che le foto vengano alla perfezione, la televisione vuole che le immagini risultino di una bellezza cristallina, le autorità aumentano e aumentano e aumentano…

Intanto mettiamo tre pezzi di scotch per terra, poi chiamiamo un coach per ogni nazione, mostriamo lo scotch e spieghiamo come e dove si dovranno mettere i premiati, che dovranno stare uno addosso all’altra in uno spazio limitatissimo. Fino alla Finlandia va ancora bene, anche se lo sguardo è perplesso oltre misura. Poi devo acchiappare la coach norvegese, che sarebbe questa qui…

Lei mi guarda. Non mi capisce. Io la guardo. Provo a mimare. Lei mi riguarda con lo stesso sguardo con cui guarderebbe una roba caduta sul pavimento. Io la acchiappo per le spalle, la metto in posizione e mi schiaccio subito dietro a lei, poi faccio un piccolo passo di lato, la riacchiappo e la rimetto davanti a me. “Ok… one two three four…”. Lei mi riguarda. Scuote la testa. Sta pensando “Only in Italy” o forse ad una denuncia per molestie. Il Safeguarding compera altri fogli protocollo per stendere la relazione finale.

Julie ed io siamo ancora in caccia! “Where are the Aussies?!? Here… you stay here!!!”. I Cechi ridono, le Svizzere fanno occhi grandi come piattini da caffè, Rita organizza da sola tutta l’Ungheria. Io urlo “avanti marsh!” facendo passare la truppa tra un panettone anti-parcheggio, una transenna ed un furgoncino parcheggiato a muzzo suo.

Premiazioni, mille foto. Dovrebbero essere fatte dopo gli inni nazionali ma i rappresentanti media esondano. Corrado, zen come solo lui sa essere, ha in mano gli inni nazionali. Io tengo incrociate dita, gambe, cuffie, speranze. E miracolosamente… tutto fila.

Sul podio si canta, si ride, si piange. Le ragazze posano le corone di fiori sulla testa dei ragazzi, ragazzi, poi viceversa. Baci, abbracci, lacrime sincere. L’addetto stampa mi chiede “dove le hanno comprate?”. Io guardo lo stato dei giardini circostanti e faccio il vago.

Mi allontano, sudato, con un paio di sinapsi rimaste indietro a Cembra.
Pian del Gacc ci aspetta. E io, lo speaker per caso, sarò lì. Microfono in mano, vocabolario mezzo rotto e la speranza che domani… magari ci sia educazione fisica.

Perché sarà ancora una volta una giornata lunga lunga lunga che più lunga non si può.
Non solo per gli atleti. Anche per gli speaker.

Specie per quelli che ancora si ostinano a spiegare la sintassi degli indirizzi email

Monday, July 28, 2025

GEIUOCC 2025 – Giorno 1: il sole picchia, i cuori battono, gli speaker sbattono

Il primo giorno dei JWOC è sempre un po’ come il primo giorno di scuola: emozione alle stelle, aspettative alle stelle, sbattimento pure quello alle stelle. Solo che qui, invece del grembiulino e del diario nuovo con sopra Paperinik (sono vintage, ok?), ci sono magliette sudate, microfoni carichi e atleti che corrono come gazzelle.

E comunque... è andato tutto troppo bene. Troppo liscio. Talmente liscio che ho passato metà giornata a guardarmi intorno aspettando il meteorite.

Feedback sulla cerimonia d’apertura? Un kolossal. Roba che Via col Vento al confronto sembra un cortometraggio per TikTok. Ma pare che sia stata anche apprezzata, quindi noi zitti e buoni. Samuele Acler, chiamato a tradimento e all'ultimo momento per leggere il giuramento degli atleti (se prendi 100 alla maturità, poi la paghi), è sopravvissuto alla prova senza svenimenti o crisi respiratorie. Bravissimo. Kataliina, tredicenne con l’anima da Navy Seal, ha tenuto il palco con più sicurezza di un politico navigato. Le autorità hanno avuto le loro foto, i discorsi sono scivolati via come prosecco caldo in una giornata torrida, e tutti vissero felici e contenti… la notte prima della battaglia.

E il giorno uno comincia subito con il botto.

Mattina: spectator race in Val di Sella.
Pomeriggio: Sprint Relay a Levico, conosciuta anche come “la tonnara” per il mix esplosivo di calore sahariano, orientisti scatenati e logistica che dovrà essere a prova di SWAT.

La pianificazione di questi JWOC? Da manuale: si parte dai due eventi più lontani, con la gara ufficiale più incasinata, e poi pian piano ci si riavvicina verso il centro operativo. Una specie di strategia alla Risiko, ma con meno carri armati e più bus navetta.

È mattina (non primissima: niente eroismi all’alba per ora), e il team speaker si muove. E si divide, tipo cellule terroristiche ma con le pettorine multicolore.

Alexander ed io prendiamo la strada per la Val di Sella per aprire ufficialmente la 5 Giorni. Io poi mi sgancio in modalità “missione segreta” per tornare a Levico, dove verificherò che la speaker box sia effettivamente più di un gazebo con due sedie e un microfono rotto. Lì troverò Nicole, la cui missione mattutina è: presidiare. Presidiare come se fossimo a Fort Apache. Dopo aver finito prima tappa e premiazioni, Alexander ci raggiungerà per la cronaca della Sprint Relay. Tutto previsto, tutto calcolato, tutto pronto per esplodere alla prima folata di vento.

Primo problema: Alexander non ha mai commentato una gara di orienteering dal vivo.

Prima soluzione: Alexander inizia a parlare e dopo 30 secondi sembra nato con un microfono in mano. E io? Io, il veterano, lo speaker esperto, in confronto a lui sembro Bombolo nei film con Tomas Milian. Provo a sabotarlo. Lo mando ad intervistare atleti sfiniti, distrutti, ustionati dal sole trentino e dal dislivello verticale della Val di Sella. Ma niente. Lui becca bambini scandinavi che parlano lingue indecifrabili e parla con loro. Acchiappa master da RSA che sputano dentiere ed analisi tecniche più dettagliate di una allenatrice norvegese.

Insomma: sono quello che arriva a una festa, capisce che non serve a nulla e si eclissa in silenzio, bevendo la CocaCola sgassata vicino al frigorifero.

Ma attenzione: questo è solo l’inizio. Il pomeriggio ci aspetta la Sprint Relay, la madre di tutte le gare, il caos organizzato, la guerra a colori.

Quando arrivo a Levico, il sole ha deciso di giocare a SimCity - Arid Edition: l’asfalto si piega come plastilina, l’aria frigge, i miraggi cominciano a dare del tu alla gente. L’arena è una padella e noi siamo le fettine panate. Non esiste una singola particella del parco sotto i 3000 gradi Fahrenheit. Ho la polvere della Val di Sella nelle orecchie, nel colletto, dentro l’anima. Sogno una birra ghiacciata. Sogno un ice bucket. Sogno il Polo Nord.

Ma sono anche in modalità speaker. E so che se bevo qualcosa adesso, tra mezz’ora dovrò andare al Toi-Toi. E se c’è una sola cosa peggiore di parlare al microfono mentre ti scappa, è dover dire “scusate torno subito” mentre arriva il momento decisivo della frazione finale di un Campionato del Mondo (è successo… ma non a me! Non c’è di che, Per)

Nicole è già lì. Ha presidiato tutto. L’arena, le mappe, il gazebo, i droni, i possibili cavalli pazzi nascosti dietro i cespugli. Ha già affrontato uno dei rappresentanti IOF, categoria “li metti lì e ti puntano il regolamento addosso come se fosse un lanciafiamme”. Evidentemente il distintivo dà accesso a un superpotere: cercare colpe a caso e distribuirle equamente sullo staff più vicino. Ma Nicole è tosta. E se l’è cavata con grinta e un certo stile da marine che resiste all’assalto della trincea.

Io, intanto, scendo in campo con la determinazione di Keanu Reeves in Matrix, quando Nemo dice con gli occhi infuocati: “Ci servono... armi. TANTE armi.”. E io mi armo. Di calma, sorrisi diplomatici e di tutte le comunicazioni ufficiali salvate sul telefono. Cerco Henrik, il responsabile dell’arena, l’uomo che ha in mano le chiavi dell’ordine cosmico e della diretta TV. Mi aspetto tensione. Mi preparo al duello verbale. Sono pronto al “C’è un problema e c’è una soluzione. Noi siamo dalla parte della seconda. Tu da che parte stai?”. Lo trovo. Lo guardo. Gli parlo. E invece… sorpresa! Henrik è ragionevole. Persino gentile. Cioè, gentile gentile, non “passivo-aggressivo IOF style”.

Io espongo il mio mantra: “Non cambiamo nulla in corsa. Tutto è già definito. Ogni variazione rischia di innescare il caos. Meno tocchiamo, meglio va”. Lui ascolta. Annuisce. Pollice su. Sguardo d’intesa. Tensione evaporata. Basta rimanere in contatto visivo, una specie di muto codice Morse: se lui alza un sopracciglio, io lo rassicuro. Se io faccio il gesto “tranquillo”, lui si fida. È un po’ come ballare il tango senza calpestarsi. Quando, a un minuto dalla partenza, mi si avvicina con fare risoluto e dice: “Dobbiamo dare il via dalla postazione speaker” gli sorrido, ma anche no: dalla postazione speaker non vediamo nemmeno se ci sono ancora le atlete schierate. Non vediamo il cronometro ufficiale. Non vediamo nemmeno il cielo. Potremmo dare il via a caso, magari mentre parte il trenino turistico di Levico. Declino. Gentilmente, ma con fermezza. Il via lo dà lui. Noi ci limitiamo a sopravvivere.

In effetti dalla postazione speaker all’inizio vediamo poco o nulla. Gli spettatori praticamente ci circondano, e non vediamo nulla della gara perché il maxischermo è alle nostre spalle, girato verso la zona pubblico. Ma Alexander e Nicole hanno la soluzione: gli spettatori vengono da noi? Allora noi andiamo da loro! Gli speaker invadono la zona del pubblico!!! Mai visto prima (e mai più si vedrà…). Commentiamo la gara direttamente in mezzo agli orientisti, ascoltando e rilanciando la LORO cronaca, affrontando faccia a faccia quelli che ci dicono eccitati che Tizio sta recuperando e che Sempronia ha sbagliato scelta. In pratica, commentiamo il derby dalla curva.

E il derby, la sprint relay, è semplicemente da urlo.

C’è di tutto. Scenari che nemmeno nei sogni di un regista scandinavo. Collassi, rimontone, scelte azzardate, errori clamorosi e qualche miracolo sportivo. A livello junior, l’uguaglianza competitiva è ancora un concetto vago: alcuni volano, altri barcollano. E se moltiplichi tutto questo per quattro quanti sono i componenti delle squadre, questo significa solo una cosa: DRAMMA.

Norvegia: dispersa nei vicoli di Levico alla prima frazione, riemerge come un Terminator nella terza. Israele: terzi a metà gara. Terzi! In un mondiale! Australia: un bambino biondo con lo sguardo da "oggi mi supero" che si lancia all’inseguimento di Cechia e Svezia e… ci riesce! Li va a prendere e li stacca su una scelta di percorso che nemmeno Carlsen contro Nakamura. E noi lì, a bordo campo, in mezzo alla folla, a fare quello che fanno i cronisti delle radio pirata nelle partite della terza categoria: a commentare, ad alzare il livello di pathos, a sudare, a chiederci ogni venti secondi dove diamine sia finito il team finlandese.

Non vediamo tutto, ma quello che vediamo basta per farci perdere la voce e la dignità. Perché poi, dopo la gara… il collasso. Gli atleti arrivano, tagliano il traguardo e si sciolgono letteralmente per il caldo e le salite. Crolli multipli in zona finish, sembrano i finali delle maratone olimpiche degli anni ’80, ma con più asciugamani bagnati da buttare addosso a chi ha tagliato il traguardo. Alessandro & Crew, in una manovra da M*A*S*H, trasformano il tendone interviste in una tenda soccorsi in 4 secondi netti.

Noi ci guardiamo come quelli che hanno appena visto passare il tornado che ora si allontana. Torno alla postazione ma sono talmente stanco che commento la flower ceremony quasi in trance, sostenuto solo dall’adrenalina. E arriva, inevitabile, il momento dei discorsi. E l’adrenalina serve ancora:

“Il vice aiuto assessore della logistica integrata della frazione di Sfungardo della Cencia vorrebbe premiare…” NOOOOOOOOOOOOOO.

“Ci sarebbe un riconoscimento speciale per il sottosegretario della sezione dei giovani animatori del borgo storico…” NOOOOOOOOOOOOOOOOO. DOPOOOOOOOOO.

“Il Presidente è qui e approfitterebbe dell'occasione per dire alcune cose al microfono prima o durante…”  NOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOO!!! SIAMO IN DIRETTA TELEVISIVA!!!

Henrik ci guarda e si fida, sorride appena, fa “Thumbs up” come Fonzie e autorizza la difesa a oltranza della scaletta. La cerimonia fila liscia. La sprint relay è andata. È durata 50 minuti, è sembrata una battaglia epica. Ma ce l’abbiamo fatta. E intorno a noi, spettatori contenti. Alcuni ci ringraziano. Altri dicono che è la prima volta che vedono gli speaker in mezzo alla gente "Only in Italy...".

E allora sì, una è andata.

Il ritorno a cuccia è più lungo del previsto. Sbaglio strada, naturalmente, perché sono bollito. Ho il cervello in modalità frullatore e il corpo in modalità disattivata. E mentre finalmente sto per entrare nella doccia più desiderata dai tempi della maratona di Milano, arriva il messaggio sulla chat degli speaker: “Domani, ore 7:30 a Cembra per la Sprint.” D’altronde, se non c’è pace per tutti quei meravigliosi teams che spostano le transenne, gli arrivi, le partenze e le mille strutture da una parte all’altra della valle, allora non ci può essere pace nemmeno per gli speaker. Almeno, non in un mondo nel quale gli speaker non si limitano a dare tempi, posizioni e risultati finali. Because “We are there not only for that!” (semi-cit.)

D’altronde… Io sono un uomo di mondo: “ho fatto il militare a Cuneo”… ma una sprint relay così, mai vista. E buonasera, signore e signori. Una è andata.

Friday, July 25, 2025

Geiuocc 2025: Giorno 0 - Il Prologo della Follia

Ore 7:00 – Sveglia.

Ore 7:01 – Mi chiedo, ancora una volta, perché l’ho fatto?

Ore 7:03 – Realizzo che non posso più tirarmi indietro.

Ore 7:04 – Crisi esistenziale. Ma è troppo tardi.

Il primo giorno dei JWOC è iniziato come tutti i film catastrofici che si rispettino: aria pulita, cielo azzurro, uccellini felici e becchettanti… e poi KABOOM!: “Manca la scaletta dell’inaugurazione!!!”. Inizia così, con lo stesso mood di una serie Netflix intitolata “Apocalisse: la vendetta dei delegati IOF”.

In teoria dovevo solo “dare il benvenuto ai team”. Un “ciao raga!”, due sorrisi e via, stile influencer alle prese con la prima diretta. In pratica: mi mettono un microfono in mano, mi fanno l’occhiolino, e mi lanciano nella fossa dei leoni con un grintoso “Vai tu, bomber!”. Io, attrazione da zoo parlante, in mezzo a trecento giovanissimi orientisti e millemila spettatori arrivati da tutto il mondo.

Ma avevo un asso nella manica. Anzi, due.

Con una tenacia contrattuale degna di un piazzista durante il Black Friday, avevo convinto Andrea Rinaldi ad accettare l’arrivo in speaker box di Nicole. La scoperta del secolo: conosce tutti e tutte, parla l’orientese fluentemente e, soprattutto, ha un livello di vergogna = 0% e self-confidence = 100%. In una giornata di pioggia, qualche anno fa, ha letteralmente dominato il microfono sotto la grandine del Grosté. Il suo motto non scritto è: “Datemi un microfono, e vi sollevo il morale. E pure la giornata.”

Poi, siccome fidarsi è bene ma mettere un avvocato è meglio, Andrea ha aggiunto Alexander al trio. Avete presente Alan Shore di Boston Legal? Ecco, più elegante. Vi ricordate Atticus Finch ne Il buio oltre la siepe? Ecco, con più lingue in faretra (tipo otto, nove... ho perso il conto). Ha una voce rassicurante, la capacità di far sentire a proprio agio chiunque, e un aplomb che resisterebbe anche a un attacco dei Visigoti. Ed è pure Campione Italiano Middle M45

E così eccoci qui:

       una atleta carismatica

       un avvocato europeo stile Harvey Specter,

       il sottoscritto, il solo che non sa né correre, né parlare decentemente inglese, né... niente

Ore 8:30. Mi avvio verso il centro gare, convinto di trovarmi davanti a una scena tipo Game of Thrones: volontari che difendono le mura con pentoloni di pece, barbari che urlano in danese, draghi che sputano fiamme. Invece? Parcheggio davanti al centro gare: ci sono pure posti liberi. Entro. C’è il silenzio di una domenica mattina di inizio agosto in un quartiere di periferia. Si sentono volare anche le farfalle.

Andrea è al telefono e dalla faccia sembra che stia ascoltando una segreteria telefonica che dice “sei il centordicesimo utente in attesa”. Alessandro sposta di tre millimetri la pila dei pass con la precisione di un orologiaio svizzero. Luigi è online ma il suo sguardo mi dice che sta monitorando il suo portafoglio azionario. Sul lato IT, Edoardo e Alessio sembrano pianificare una pizzata, Chiara e Maddalena definiscono il menu. E io? Io mi invento del lavoro, a pura giustificazione del fatto che ho disboscato mezza Amazzonia. Spalanco il faldone con l’elenco atleti, formato Enciclopedia Treccani + bonus FBI, pronto a imparare le pronunce come se dovessi annunciare l’Eurovision.

E il primo test è subito uno dei più temibili: la Polonia.

Mi avvicino al gruppo dei polacchi appena entrati e, nel mio inglese da commedia all’italiana, chiedo all’allenatore aiuto per la pronuncia. Risultato? Nessuno mi prende a sberle. Il coach mi dice che apprezza molto la professionalità e che questo riguardo nei confronti della pronuncia fa onore all’organizzazione… i ragazzi e le ragazze mi circondano e mi dicono di prendere nota che “per lui scrivi una esse, poi metti una g, poi pronuncia una i…” (e intanto io noto che nel cognome del suddetto non ci sono né esse né gi né i). Arrivati ad un certo punto mi dicono “no, lui non provare nemmeno a scriverlo, non puoi pronunciarlo, nessuno che non sia polacco può pronunciare quel nome… ma tanto non ti servirà, non vincerà”. Sinceri, almeno.

Poi arrivano gli ucraini. Sei ragazzi, sei ragazze, una bandiera che già da sola ti commuove. I maschi provano le magliette-regalo in stile pit-stop Formula 1, le ragazze... un po’ meno. Molto meno!!! Io provo a imparare i nomi, ma dal gruppo dei ragazzi interviene Faddei, capo claque, provocatore nato, faccia di quello che un giorno diventerà Presidente della Repubblica, che mi fa ripetere le pronunce finché non le dico giuste, e poi li storpia  lui davanti a tutti. Ridono. Io invito i suoi compagni di squadra a buttarlo nel lago. Le ragazze annuiscono vigorosamente. Andrea mi guarda e mi dice: “Hai appena fatto partire una settimana di safeguarding

Ed ecco il momento tanto atteso. Arriva LUI. Il delegato IOF. L’autorità. L’uomo che potrebbe chiudere tutto con un solo sguardo. Mi faccio avanti con la scaletta della cerimonia di inaugurazione in mano, pronto alla lotta. L’ho detto a me stesso per giorni: Stegal bumayé! Stegal bumayé!.

Lui la prende. La legge. La rilegge. Fa un cenno. Dice: “Va benissimo” Come sarebbe “Va benissimo”? Ma hai letto bene? Anche l’idea di far leggere il giuramento a due a caso? “Ottima idea, la dovremmo includere nella scaletta dei prossimi JWOC” Anche che a dichiarare aperti i JWOC sarà una ragazzina colombiana di 13 anni a cui non abbiamo ancora detto nulla? “Idea fantastica. Includente, moderna, bellissima” Mi gira la testa. Mi serve una birra! Non c'è più l'IOF di una volta!

Kataliina, la tredicenne in questione, prende il testo. Il genitore approva. Lei lo legge una volta, lo rilegge con più enfasi, spinge sul gran finale. Il padre sorride orgoglioso. Lei strappa applausi. L’IOF annuisce. Alessandro ed io... ci guardiamo. Ce l’abbiamo fatta.

Mentre Alexander si prende carico del prologo e della relativa premiazione (sotto un sole che scioglierebbe l’asfalto), io guardo Mr. IOF tornare in scena sul podio della cerimonia di apertura: elegante, fresco, neanche una goccia di sudore. I JWOC sono ufficialmente aperti.

E io, al microfono, dichiaro a tutti che da domani si fa sul serio. “Godetevi la cena, godetevi lo spritz… perché da domani non ci sono più margini di errore.”

Lo dico con solennità. Ma so che lo sto dicendo a me stesso.

Domani toccherà improvvisare.

Come sempre.

Con il piede a mezz’aria.

Senza sapere dove atterrare.

Tuesday, July 22, 2025

Geiuocc 2025: io, il microfono, e incidenti vari

E tutto finì (quasi) in un lampo.

8 giorni nella pentola a pressione.

8 giorni a tutto vapore e a tutto volume.

8 giorni con i DUE neuroni che urlano e battono le pentole nel cervello al ritmo di: “non sei TU la gara, non ti ascolta nessuno, non succede niente nemmeno se urli parolacce!” (questo è il neurone che vuole togliere pressione, a costo di essere deprimente) oppure “metterai in crisi tutta l’organizzazione, sei impresentabile, non sei adatto, i momenti ufficiali saranno terrificanti !!!” (questo è il neurone spaventato a priori da qualunque cosa).

Ma andiamo con ordine.

O forse no.

Andiamo con disordine, che almeno siamo coerenti.

Il primo impatto col JWOC è stato simile a quello di un criceto che si lancia volontariamente in autostrada per provare il parkour.

Vieni che ci divertiamo”, mi avevano detto.

Parli solo un po’ al microfono”, avevano aggiunto.

Solo che poi quel “microfono” si è rivelato un’arma di distruzione di massa con potenza vocale paragonabile a una sagra di paese in Val Trompia sotto Red Bull scaduta. E “solo un po’” si è trasformato in ore e ore a urlare cognomi slavi impronunciabili, fingendo entusiasmo mentre i miei neuroni litigavano sul significato esistenziale di una Long Distance.

Il giorno del prologo ho indossato per la prima volta la maglietta dell’organizzazione e la maschera del professionista, appositamente fornitami dalle meravigliose volontarie dell’organizzazione (o dai fantastici volontari dell’organizzazione… non saprei dire, mi è arrivato un pacchetto). Peccato che nessuno mi avesse detto che la maschera era quella del Joker e che la maglietta era troppo stretta (per l’autostima, prima ancora che per la pancia). Appena acceso il microfono, avrei subito capito due cose: 1. La voce usciva con un tono da arrotino ma con una chiarezza espositiva rivedibile 2. Nessuno mi ascoltava. Nemmeno io.

Ma non c’era tempo per piangersi addosso, perché ai JWOC ogni momento è il “prossimo momento”. Quando credi di poterti sedere per un caffè, ti ritrovi invece a spostare transenne sotto l’occhio laser di un delegato IOF che ti guarda come se tu stessi sabotando l’intero evento per conto di una potenza straniera.

Nel mezzo, si balla. Si balla tra briefings, Team Officials’ Meetings, addetti stampa che non capiscono il concetto di “quarantena”, volontari che parlano solo dialetto, zone speaker aperte al pubblico come bancarelle del mercato settimanale e allenatrici norvegesi che pretendono solo spiegazioni in perfetto inglese tecnico... da uno che a stento sa dire "starting list".

Picchi massimi? Peggio di una tappa pirenaica del Tour de France! Durante una premiazione, luci, musiche, silenzi drammatici. A un certo punto, prendo il microfono e inizia lo show — “Ladies and gentlemen, welcome to the prize giving ceremony of the JWOC 2025…” — quando un neurone mi sussurra: “Se adesso canti My Heart Will Go On fai la storia”. Per fortuna l’altro gli ha tirato una padellata.

Eppure, in tutto questo bordello ordinato, qualcosa ha funzionato. Ha funzionato perché c’erano Andrea, Alessandro, Alexander, Nicole, Andrea. F., Alessandro&Alessia, Marco, Viviana, Aaron, Janos, Edoardo, Chiara, Alessio, Martina, Alessia, Anna, Irene (buon compleanno!), Andrea S., Irene B., Julie, ragazze-rana, ragazzi-rospo, uomini Haribo, Luigi, Corrado & team, Michele e la squadra delle partenze, Roberto e gli enforcer degli arrivi e delle arene e chi più ne ha più ne metta e chiedo scusa a tutti\tutte coloro che non ho menzionato.

Grazie a loro sono arrivati i sorrisi degli atleti. Le strette di mano sincere (anche se sudate). Le battute scambiate con chi non capiva una parola ma rideva comunque. Il momento in cui tu ti rendi conto che non sei la gara, ma fai comunque parte della magia.

Non pensi ancora che, a giochi finiti, resterà solo la voce roca, la sindrome da microfono fantasma (tendo ancora a parlare pensando che centinaia di persone mi stiano ascoltando e giudicando severamente) e una certezza: i JWOC sono una macchina infernale che divora ogni energia… ma regala anche storie che si racconteranno tra 15 anni davanti al caminetto nelle lunghe serate invernali, con lo sguardo perso e la frase tipica: “Non potete capire...”.

I JWOC sono meglio dei WOC, credete a me. Sono il luogo nel quale i sogni dei ragazzi e delle ragazze che hanno da 16 a 20 anni diventano realtà, nel quale si concretizzano per una volta quelle speranze di indossare una maglia di una squadra nazionale davanti a genitori, amiche ed amici, una esperienza unica per molti di loro che non arriveranno più a vivere sui campi di gara dei Mondiali “adulti”. Quei pochi che lo faranno, troveranno attorno a loro professionisti già con famiglia e figli, in un caleidoscopio di umanità che copre un arco di 20 e più anni di vita, e non “solo” quei quattro o cinque anni più belli della vita di ognuno con cui trascorrere una settimana di vita che porteranno per sempre nel libro dei ricordi.

Mi capite?

In effetti, no.

Non potete.

Ma fidatevi: è stato bellissimo.

Anche se, per metà del tempo, non sapevo dove fossi, chi fossi o cosa stessi facendo.
Per l’altra metà… peggio ancora.

E questa era solo l’introduzione. Il trailer. Il teaser col montaggio veloce, la musica epica e i sottotitoli sgrammaticati in inglese.

Perché il bello (o il tragico) viene adesso.

Nei prossimi giorni cercherò di portarvi dentro i JWOC, proprio là dove le magliette diventano seconde pelli, le riunioni sembrano uscite da un episodio di The Office, e gli altoparlanti gracchiano parole che avrebbero bisogno del bollino rosso.
Vi racconterò quello che si può dire, quello che non si dovrebbe dire, e quello che si dirà lo stesso, tanto ormai i testimoni sono sparpagliati per l’Europa e nessuno ha ancora sporto denuncia.

Vorrei portarvi a scoprire con me perché ho quasi causato più di un incidente diplomatico con un cartello colombiano, la squadra femminile ucraina, una allenatrice norvegese, più di un addetto stampa; e poi come ho cercato di gestire un’arena con più cavi del backstage di Sanremo e meno segnale di un Nokia 3310 in galleria; e che fine hanno fatto le misteriose scalette per la gestione dei protocolli di premiazione e dei cerimoniali di cui nessuno vuole parlare ma che, secondo alcuni, potrebbe contenere le chiavi per il controllo mentale degli speaker internazionali.

Avete presente l’inizio del delirio?

Ecco, questo è il prima.

Nel prossimo episodio… si balla sul serio.

To be continued...

(E non dite che non vi avevo avvisati.) 

Saturday, July 19, 2025

The Worst Ever

I have to tell you something: I've heard so many, and you are the worst speaker I've ever heard. The worst ever. THE WORST EVER!

Siamo al Fortini, prima tappa della 5 Days, e ho appena finito una Elite shortened-long. Che detta così sembra una prova olimpica, ma in realtà io l’ho corsa con l’agilità di un armadio a quattro ante scaraventato giù per le scale. E no, non era un infortunio sportivo epico alla Baggio nel ‘94 — era un colpo della strega, preso reggendo in braccio un amplificatore sotto le sferzate di vento gelido ed il diluvio universale di Madonna di Campiglio, roba che nemmeno Marcell Jacobs l’avrebbe portato al traguardo.

Per reidratarmi, dopo l'Elite, una pinta di birra chiara. Perché ovviamente, quando tagli la linea del traguardo curvo come Nadal nel quinto set contro Djokovic, la prima cosa che fai è testare la qualità birraria locale. E poi qualcuno doveva pur sapere quanto costava la birra al bar. E quel qualcuno, spoiler, ero io. Anche se sono astemio e sono le 10 del mattino.

Nel frattempo, mi chiamano per intervistare Lauenstein, Bluett, Haldin, Merz. Praticamente la Champions League dell’orienteering, gli Avengers dei WOC di qualche anno fa. E io lì, che sembravo convocato per sbaglio, tipo quando il Sassuolo vinse 4-2 a San Siro e nessuno seppe spiegare il perché. Una figurina Panini sbagliata infilata nel mazzo dei fuoriclasse.

E poi... eccolo. Il norvegese. Taglia il traguardo e si avvicina. Passa davanti alla postazione speaker tre volte — la quarta probabilmente sarebbe stata considerata stalking — e mi guarda come Materazzi guardava Zidane prima della capocciata.

I have to tell you something... THE WORST EVER.

Ora, in teoria, uno si offende. Ma io no. Io ho due neuroni, e il primo ha frequentato un corso accelerato di gestione crisi alla Juventus post-Calciopoli. Mette in moto il protocollo aziendale con lo stesso entusiasmo con cui Fernando Alonso commenta le strategie Ferrari.

Thank you for your feedback, I appreciate it. Excuse me if I try to repeat, to make sure I understand. You are telling me that I am the worst orienteering speaker you have ever heard, right?

Yes, you are the worst ever, in the entire history of all orienteering competitions. And your English is useless, unlistenable, your English is bad, it is useless for you to try to speak English.

A questo punto, mentre neurone1 si arrampica sugli specchi come l’Italia nel girone della prossima Coppa del Mondo di calcio, io penso ad Andrea Rinaldi, a Alessandro Gretter, a Gabriele Viale. Gente seria. Gente che ha deciso, forse per pena o forse per una scommessa persa, di portarsi dietro me. Uno speaker talmente imbarazzante che al confronto l’autogol di Zaccardo nel 2006 è stato un capolavoro di strategia.

... sorry, I have to take note of that as feedback from you, and indeed I invite you to report this to the organisers as well. I am also sorry because I have just finished commenting on last week's JWOCs…

Indeed! They were the worst commented JWOCs in history. On television you could not understand anything you said, the worst, terrible!

Ed è qui che scatta il neurone2. Quello impulsivo. Quello che vive nel 2006. Parte in automatico la colonna sonora: "Arriva il pallone, lo mette fuori Cannavaro! Poi ancora insiste Podolski... Cannavaro! Cannavaro! Via al contropiede con Totti, dentro il pallone per Gilardino…"

“But I wasn't the one talking on television....”

BLAST!!!

Il norvegese scompare come l'Inter nella finale di Champions. Non si farà più vedere. Ritirato nella seconda tappa. Sparito nella terza. Alla quarta lo avvistano lontano dalla tenda speaker. Quinta tappa? Scomparso nel nulla. Forse tornato in Norvegia in silenzio, per non dover incrociare “The Worst Ever”. Che però… diventa una leggenda. Fa il giro del parterre. La gente mi viene a chiedere, ride, vuole sapere qualche aneddoto strano... La Feclaz, i commenti con Forsberg, c'eri anche tu a Miskolc?, il pattinaggio di velocità, e cos'è questa storia di Minna? (... lascio cadere la cosa). Io mi ci farò una maglietta. Testo frontale bello grosso, font Times New Humiliation: THE WORST EVER.

Alla terza tappa, al Grosté, decido di entrare in scena come un wrestler anni ‘90: “Ladies and gentlemen, the worst speaker in the entire history of orienteering — at least that's what was said and told two days ago — welcomes you to the Santiago Bernabeu of orienteering, the Grosté!

E la gente applaude. Forse per compassione. Forse perché l’unico modo per zittirmi era battere le mani. Forse perché, dopo 16 giorni di orienteering, anche ascoltare me sembra meglio del commento tecnico di Adani alle 3 di notte su Twitch.

Ma come ci sono arrivato fin lì? Qual è la vera storia dietro le quinte, lo sliding door della settimana, l’epopea tragicomica che inizia come una disfatta e finisce… pure peggio?

È ciò che racconterò nei prossimi giorni (spoiler: agosto sarà lungo come un tie-break tra Borg e McEnroe), attingendo a ricordi, disastri, cerimoniali di premiazioni, JWOC, apparizioni del presidente FISO, foto, mappe, citazioni, cose dette e non dette, cose da non dire e ripetute, fanciulle e fanciulli, un Andy Murray moment, e tutto ciò che per 16 sfiancanti giorni ha cercato di restare in piedi nonostante in giro ci fossi io: THE WORST EVER.

E alla fine?

Lo rifarei?

Eccome se lo rifarei.

Stessa birra, stesso mal di schiena, stessa pioggia, stesso inglese che fa sembrare Capello un madrelingua.

Solo una cosa cambierei: stavolta mi presenterei direttamente con la maglietta. E una fascia da capitano, col logo “W.E.” cucito sopra.

Perché in un mondo in cui tutti vogliono essere il migliore, ci vuole stile per essere il peggiore di sempre.

E io, modestamente, ci sono riuscito.