Mezzanotte ed un minuto. Adesso, ufficialmente anche per l’anagrafe, sono un quarantenne. Sotto questo aspetto, l’orienteering è un passo avanti: per il mio sport sono quarantenne già da dicembre 2006 con il nuovo tesseramento. Forse per questo alla visita medica sportiva c’è stata una pantomima con la giovane e graziosa dottoressa:
“Età?”
“Quaranta anni... no, aspetti, scriva 39.. 39 anni”
“Non è un po’ grandicello per abbassarsi l’età?”
“No, sono 39 anni, sono nato il 1° agosto... ne ho ancora 39!”
Insomma, ha ammesso che era la prima volta che un 39enne le diceva che ne aveva 40! Valle a spiegare la faccenda delle H40...
La mia famiglia non era proprio una famiglia di grandi sportivi. Il papà aveva militato per breve tempo in serie C di calcio ed allenava una squadretta di periferia. Alla mamma invece il calcio stava proprio sulle scatole (saranno state le divise da lavare dopo ogni partita, i the da preparare...). Era chiaro che non sarei mai diventato un calciatore: ero troooooopo scarso. No, più che scarso direi proprio incapace. Lo zimbello della strada sterrata in fondo alla quale vivevo (strada sterrata poi campi e fogna a cielo aperto, altro che Celentano e la sua Via Gluck dei miei stivali!). Piedi troppo grossi, non è che il 50 di piede mi è arrivato tutto adesso, e statura troppo alta, con gli occhi troppo lontani dal pallone ed una coordinazione a livello zero.
Da bambino ho provato con la ginnastica artistica, ma ero veramente troppo gracile per fare tanti esercizi. Già da allora ero l’unico bambino senza le scarpette da ginnastica artistica per via dei piedi troppo grossi, portavo un paio di grosse scarpe da tennis. Una volta ci fu un piccolo meeting alla palestra e poi noi facemmo una piccola esibizione. Dopo, negli spogliatoi, un ragazzo grande disse al mio istruttore che aveva delle vecchie scarpette che non usava più e che potevano andare bene a me.
Alle elementari, per cercare di dare una istruzione sportiva ai bambini, in quarta e quinta istituirono dei corsi ai quali ci si poteva iscrivere. Io non sapevo nemmeno cosa fosse la pallavolo, e francamente la pallacanestro non mi interessava per nulla. Sapevo già cosa volevo fare da grande: io volevo essere il più grande giocatore di pallamano del mondo! Il nostro maestro ogni tanto ci faceva giocare a pallamano (una specie... non servivano né canestri né rete, che peraltro non avevamo, e bastava un segno col gesso sul muro per fare la porta) e quello sport mi aveva veramente preso. Sapevo saltare alto e lungo e avevo le mani grosse. Così convinsi i miei ad iscrivermi a pallamano. Qualche settimana dopo il responso: gli organizzatori dei corsi avevano visto il pienone a pallavolo e pallamano e ancora ridevano chiedendosi chi fosse quell’unico imbecille che si era messo nella lista di pallamano. Ero io! Sono ancora convinto che avrei potuto farcela...
Perchè sapevo saltare in lungo? Una zia acquisita era la custode del campo sportivo non lontano da casa. Per cercare di tenermi lontano dalla strada, i miei ogni pomeriggio mi mandavano al campo: facevo i compiti e poi mi trasferivo sulla pista di atletica. Il campo era una miniera di giochi, e poi la zia aveva un sacco di cani, gatti, i conigli e le galline... Il posto migliore era la buca del salto in lungo. Ci restavo per ore e alla fine mi ficcavano direttamente sotto la doccia del campo. Imparai a saltare in lungo (tanto lungo), imparai a calcolare i passi per la rincorsa con un ragazzo della Riccardi che saltava già più di 7 metri. Imparai a giocare a biglie, quelle grosse di plastica dei ciclisti: se un giorno la morte si presentasse sfidandomi a qualcosa (tipo Il Settimo Sigillo) vorrei giocarmela a biglie! Sono quasi sicuro che potrei farcela.
Comunque, qualcosa dovevo fare. Pallacanestro. Rapido corso base, dove imparai a fare il terzo tempo e poco altro. La mia squadra vinse il girone del quartiere (finale vinta 20 a 16) e andammo a fare un torneo provinciale pareggiammo (!) una partita con il “Pentagono” e perdemmo 99 a 5 con il Magenta. Alle medie continuai a saltare in lungo vincendo il provinciale con la ragguardevole misura di 5 metri e 15 centimetri. Quella volta ci fu parecchia discussione con i giudici di pedana perchè il nostro allenatore faceva saltare me e i miei due compagni di squadra (uno sarebbe stato campione europeo di pattinaggio, l’altro goleador per l’Inter in un mondiale giovanile in SudAmerica.. mondiale che fu poi revocato perchè un paio di giocatori avevano un paio di anni in più rispetto al limite e i dirigenti avevano falsificato le identità) dalla pedana dei 4 metri, dopo che il pattinatore saltando dal bordo pedana agli scolastici aveva sorvolato la buca di sabbia e si era schiantato sull’erba in fondo. Al primo salto eravamo ultimi con misure inferiori al metro! Poi l’istruttore li convinse che noi saltavamo dai quattro metri non perchè non sapevamo fare la rincorsa ma perchè così eravamo abituati, e facemmo primo secondo e terzo.
Saltavo ed ero alto, così mi chiamarono per un provino alla seconda squadra di basket di Milano, l’allora Isolabella che era in A1. Dopo un anno di gavetta, la squadra quasi si sciolse per problemi economici e fummo presi al Billy Milano di D’Antoni, Meneghin, Gallinari, Ferracini, Gianelli, ecc. Allenatore Peterson, vice Casalini. Fu una esperienza importante ma per nulla piacevole. Imiei compagni di squadra erano troppo pieni di sè per piacermi, ognuno pensava al suo futuro e alla sua carriera (erano, senz’altro, anche molto più bravi di me). Il mio gioco era distruttivo: corri, difendi, pesta duro, acchiappa rimbalzi e stoppa tutto quel che passa! In attacco giocavo pivot e in difesa talvolta difendevo sul play o sulla guardia. Ma gli allenatori preverivano i giocatori già sgamati che chiamavano la palla per segnare 30 punti a partita. Io spesso ne segnavo solo 5 o 6 ma volevo che il mio avversario diretto non vedesse nemmeno la palla e uscisse a pezzi, ma questo al mio allenatore non interessava nulla. Vincemmo molte partite per rinuncia degli avversari, e quell’anno la squadra arrivò ai nazionali dove fu quinta. Facemmo anche un pre-partita al Palazzone prima di un Billy-Scavolini (e prima, ovviamente, del crollo del tetto) dove venimmo asfaltati da Mario Boni.
Gli anni del basket giovanile preferisco dimenticarli quasi del tutto. Ricordo con grande stima un giovane allenatore che poi fece carriera nel basket femminile, Gianni Lambruschi (credo che ora alleni la nazionale: in bocca al lupo Gianni, dovunque tu sia), poi Mario Pistorello e Gullifa, e basta. Ricordo un canestro al regionale junior lanciando la palla dietro la mia testa, spalle a canestro, in un raptus di follia. Ricordo la Coppa Europa del 1985 a Lione, la semifinale con il Limoges vinta di uno e finita con la palla in mano mia, e poi la finale (persa) con il Partizan dei 5 futuri NBA, ripresa dalla televisione francese. Ricordo altre cose meno piacevoli: gli infortuni (tanti), le volate in ospedale ed un dottore che diceva a qualcuno che ero fortunato a muovere ancora le gambe, le risse con gli avversari, i colpi proibiti dati e presi, il sangue dalle arcate sopraccigliari ed una rissa pazzesca con i tifosi avversari al torneo di Caspoggio, le monetine che volavano già a livello giovanile, e Dido Guerrieri (l’allenatore della Berloni) che viene da noi negli spogliatoi a Torino a dirci che gli dispiaceva per la nostra immeritata sconfitta: avanti di 5 all’ultimo minuto gli arbitri ci chiamarono 4 tecnici. E quella volta che andammo negli spogliatoi alla fine del primo tempo avanti di 6 e uscimmo sotto di 6, per misteriosi aggiustamenti ai referti tra i due tempi. Un mondo squallido nel quale i ragazzi sono troppo spesso carne da cannone per le ambizioni di genitori, arbitri in carriera e allenatori che pensano che urlare li porterà in serie A.
Gli ultimi anno del basket sono stati il trionfo della inutilità. Anni sprecati ad allenarmi svogliatamente 3 volte alla settimana perchè non sapevo che altro fare, a giocare in C, poi in promozione o in tornei secondari, ad aspettare seduto in panchina la chiamata di un allenatore che fa giocare i suoi amici (tante partite a stare 40 minuti seduto), gli ultimi colpi presi e i tanti ultimi colpi dati da un giocatore sempre più “sporco”, le prime espulsioni (due sole, ma del tutto immotivate:potevano buttarmi fuori altre volte per motivi ben più gravi), quella volta che in campo allo Sporting Club Malaspina mi calai braghe e mutande per protesta con l’allenatore restando nudo davanti al pubblico, e la scelta di diventare a mia volta arbitro. Qualche buon commento in federazione da parte di qualche squadra, qualche soddisfazione a fare l’undicesimo uomo in campo mettendocela questa volta veramente tutta. Mollai tutto dopo che fui costretto a scappare dal campo inseguito da un branco di autentici teppisti: il capitano di quella squadra fa l’opinionista sportivo in tv e spesso partecipa a dibattiti sulla “violenza nello sport”... e io rido pensando in che mani siamo.
Poi, senza sapere che cosa fare, la proposta di Giovanni di andare a fare una strana gara a Ronzone, proprio nel momento in cui stavo per diventare un sedentario 25enne senza arte né parte. Il resto è storia di pochi giorni fa. La prima gara, poi immortalata sul chilometrosforzo “Punto 4. Canaletta. Cosa essere canaletta?”. L’HC da orientista ridicolo e l’HC da uno già più “saputo”, l’HB e l’HA, le prime trasferte fuori regione, la prima 6 giorni all’estero che è raccontata in un pezzo scritto 7 mesi fa ma che forse uscirà solo a fine anno... qualche gara in Elite quando potevo filtrare tra le maglie degli organizzatori. L’impegno blando per il sito Fiso e poi sempre di più a cercare di fare qualcosa di mio per la Fiso, e poi le ultimissime ore a fare lo speaker in Val Vigezzo, a Fusine, ad Asiago, a Folgaria e la mia seconda O-Ringen ed il mio blog.
Ma in fondo, a 40 anni suonati, ne sono ancora convinto: avrei potuto essere il più grande giocatore di pallamano del mondo!